INFERNO - CANTO XXIX
Dall’Edizione integrale a cura di Pietro Cataldi e Romano
Luperini ed. Le Monnier Scuola Interpretazione cabalistica di Franca
Vascellari
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La molta gente e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebrïate,
che de lo stare a piangere eran vaghe. 3
Il Viandante ci confessa di aver
voglia di fermarsi a piangere, perché ha gli occhi
inebriati
(resi ebbri, alterati) dalla vista di tutti quei dannati cosi` piagati.
Ma Virgilio mi
disse: "Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra l’ombre triste smozzicate? 6
Tu non hai fatto sì
a l’altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge. 9
E già la luna è
sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che n’è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi". 12
Ma subito il Maestro lo dissuade:
“Che fai? Perché rimani a guardare quelle anime fatte a pezzi? Non ti
sei comportato cosi` nelle altre bolge; se vuoi ‘(fermarti) a contarle,
pensa che il perimetro della valle e` di ventidue miglia. E poi la luna
e` gia` sotto i nostri piedi, il tempo che ci e` concesso sta per
scadere, e devi vedere ancora altro”.
Il Maestro (la mente)
rimprova al Discepolo (la personalita`) quell’attaccamento che spesso fa
‘perdere tempo’, tra l’altro cita un numero: il 22. Quella bolgia ha una
circonferenza di ‘22 miglia’. Il 22 e` il numero relativo all’Archetipo
del ‘Folle’ (v. in
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Archetipo 22): farsi circuire da uno
sterile sentimentalismo sarebbe da pazzi, visto che la ‘Luna’,
(Archetipo 18) e`
gia`
sotto i nostri piedi,
cioe` e` da ‘noi’ gia`stata dominata…il tempo che resta per ‘la ricerca’
deve essere dedicato tutto ad ‘andare avanti’.
"Se tu avessi", rispuos’io appresso,
"atteso a la cagion per ch’io guardava, forse m’avresti ancor lo star
dimesso". 15
Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca,
già faccendo la risposta, e soggiugnendo: "Dentro a quella cava 18
dov’io tenea or li occhi sì a posta, credo ch’un spirto del mio
sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa". 21
A lui replica il Discepolo: “Se
tu avessi conosciuto il motivo del mio indugio, forse mi avresti
permesso di restare”… Ma la Guida prosegue, e Dante (= colui che
persevera) continua: “Dentro quella buca, li` dove guardavo, credo ci
sia un mio parente a soffrire cosi` terribilmente”.
Allor disse ’l maestro: "Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi
sovr’ello. Attendi ad altro, ed ei là si rimanga; 24
ch’io
vidi lui a piè del ponticello mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi’ ’l nominar Geri del Bello. 27
Tu eri allor sì del tutto
impedito sovra colui che già tenne Altaforte, che non guardasti in
là, sì fu partito". 30
E il Maestro: “Non stare a pensare a lui, tu va` avanti, e che
quello rimanga li`: io l’ho visto (prima) ai piedi del ponte, mentre ti
indicava e ti minacciava col dito, e l’ho udito chiamare
Geri
(Geremia = colpito dal Signore) del Bello.
Tu eri tutto preso da quello che fu il proprietario del castello di
Altaforte
(Bertran de Born, inf. XXVIII, vv.118 ss) e non lo hai veduto, cosi` se
ne e` andato”.
E` proprio l’attaccamento ai ‘parenti’ (coloro
con cui ci sono vincoli di sangue) che deve essere superato ad un certo
punto del Sentiero, soprattutto quando i ‘parenti’ sono i nostri
burattini interiori (v. Mt. 8, 21-22: “…E un altro dei discepoli gli
disse: ‘Signore, permettimi prima di andare a seppellire mio padre’. Ma
Gesu` gli rispose: ‘Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti’…”
e ns/ int. cab. in
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testi sacri) perché
l’attaccamento vincola, trattiene nelle parti inferiori dell’Albero e
non ne permette la scalata. Per essere ‘savi’, sapienti, saggi, occorre
essere di ‘mente costante’ dice la Bhagavad Gita (Canto II v. 56-57):
“…Quegli la cui mente nei dolori non e` turbata… quegli da cui affetto,
paura ed ira si sono dipartiti…colui
che da ogni lato e` senza attaccamento, che
qualsiasi cosa, piacevole o spiacevole gli sopravvenga, non prova gioia
o avversione, quegli e` chiamato un savio dalla mente costante…”
"O duca mio, la vïolenta morte che non li è vendicata ancor",
diss’io, "per alcun che de l’onta sia consorte, 33
fece lui
disdegnoso; ond’el sen gio sanza parlarmi, sì com’ïo estimo: e in
ciò m’ ha el fatto a sé più pio". 36
“O
mia Guida” gli risponde il Discepolo “La sua morte violenta non e` stata
ancora vendicata dalla nostra famiglia (che partecipa al disonore), per
questo se ne e` andato senza parlare, credo, e cio` me lo ha reso ancora
piu` pietoso”.
Il Discepolo tenta di difendere
la sua pieta` per il ‘parente’, ma obbedisce e prosegue senza indugi.
Così parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l’altra valle
mostra, se più lume vi fosse, tutto ad imo. 39
Quando noi
fummo sor l’ultima chiostra di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra, 42
lamenti saettaron me
diversi, che di pietà ferrati avean li strali; ond’io li orecchi
con le man copersi. 45
Cosi` parlando i due arrivano fino al punto in cui possono
scrutare il fondo della decima bolgia, ma non c’e` abbastanza luce.
Giungono quindi al cerchio dell’ultima delle
Malebolge,
da dove possono vedere i
dannati; il Viandante e` colpito da dolorosi lamenti, simili a frecce
rivestite di pieta`, per cui si copre le orecchie con le mani.
Qual dolor fora, se de li spedali di Valdichiana
tra ’l luglio e ’l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali 48
fossero in una fossa tutti ’nsembre, tal era quivi, e tal puzzo
n’usciva qual suol venir de le marcite membre. 51
Se si ammucchiassero in una
fossa tutti i malati di malaria degli ospedali di
Valdichiana (valle piana), Maremma
(terra degli stagni) e
Sardigna
(terra del sandalo), nel periodo che va da luglio a settembre, si
avrebbe lo stesso dolore che esce da questa bolgia: da essa esala lo
stesso nauseante fetore dei corpi in putrefazione.
Noi discendemmo in su l’ultima riva del lungo scoglio, pur da man
sinistra; e allor fu la mia vista più viva 54
giù ver’ lo
fondo, là ’ve la ministra de l’alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra. 57
I Pellegrini scendono dal lungo
ponte, sempre da sinistra, sull’ultimo argine da dove possono vedere i
falsador
(i falsificatori di metalli, di persone, di monete, di parole) li`
puniti dalla Giustizia divina. I falsificatori di metalli sono gli
alchimisti che hanno corrotto la verita` ed ora sono deturpati da
malattie della pelle che infliggono loro un tremendo prurito. Invano
cercano di grattarsi, la pelle si scaglia ma non cessa la sofferenza.
Nella Kabbalah la corruzione
della verita` corrisponde alla qelipah scoria della sephirah Hod
(Splendore), l’Intelligenza Perfetta, la cui virtu` e` la Veridicita`.
Far credere di poter ‘fare l’oro’ di essere ‘mago’o ‘sacerdote’, senza
realmente esserlo, viola la fede del prossimo e discredita i veri
Sacerdoti e i veri Magi, che non fanno mai mostra di se`. La sephirah
Hod complementare ed interagente di Netzach (Vittoria) forma con questa
e con Yesod (Fondamento) la Triade inferiore, quella della Magia, in cui
Netzach e` l’evoluzione e l’adattamento della sostanza astrale (il
padre), Hod ne e` l’oscillazione e lo stabilizzamento (la madre)
e Yesod ne e` la riflessione e la percussione
(il figlio), in Malkuth (Regno) infine ne avviene la materializzazione.
Non credo ch’a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto
infermo, quando fu l’aere sì pien di malizia, 60
che li
animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti
antiche, secondo che i poeti hanno per fermo, 63
si ristorar
di seme di formiche; ch’era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche. 66
Il Poeta non crede che
nell’isola di Egina
(capra), quando la peste distrusse tutti gli animali, vermi compresi, e
costrinse gli uomini a nutrirsi
di semi e di formiche, ci fosse tanta tristezza
come in quella oscura fossa dove languono
i dannati, ammucchiati come
biche, come
covoni.
(L’isola di Egina prese il nome da
un’amante di Zeus; fu colpita da una terribile pestilenza per
la gelosia di Era, fu ripopolata da formiche
trasformate in uomini, i Mirmidoni -Ovidio, Met. VII -)
Qual
sovra ’l ventre e qual sovra le spalle l’un de l’altro giacea, e qual
carpone si trasmutava per lo tristo calle. 69
Passo passo
andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, che non
potean levar le lor persone. 72
Qui uno giace sul ventre, uno
sulle spalle di un altro, uno ancora si trascina carponi sul triste
terreno. I due Pellegrini vanno senza parlare, passo dopo passo,
guardando ed ascoltando gli appestati che non possono sollevarsi.
Io vidi due sedere a sé poggiati, com’a scaldar si poggia tegghia a
tegghia, dal capo al piè di schianze macolati; 75
e non vidi
già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, né a
colui che mal volontier vegghia, 78
come ciascun menava spesso il
morso de l’unghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor, che
non ha più soccorso; 81
e sì traevan giù l’unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie o d’altro pesce che più larghe
l’abbia. 84 Il
Viandante vede due dannati seduti, appoggiati l’uno all’altro come
vengono accostate due pentole per farle scaldare; sono tutti ricoperti
di croste; mai uno stalliere, atteso dal suo padrone o che non vede
l’ora di andare a dormire, usa la striglia con tanta energia come quelli
usano le unghie per la violenza del prurito insopportabile; e le loro
unghie fanno cadere le croste come il coltello leva le scaglie alla
scardova
(scardola) o ad altro pesce ricco di grandi squame.
"O tu che con le dita ti dismaglie", cominciò ’l duca mio a l’un di
loro, "e che fai d’esse talvolta tanaglie, 87
dinne s’alcun
Latino è tra costoro che son quinc’entro, se l’unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro". 90
La Guida, rivolgendosi a uno dei
dannati chiede: “O tu che ti scrosti con le dita, delle quali fai quasi
tenaglie, dicci se tra questi c’e` qualche
Latino
… e che possano le unghie bastarti per tutta l’eternita`! ”
"Latin siam noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue", rispuose l’un piangendo; "ma tu chi se’ che di noi
dimandasti?". 93
E ’l duca disse: "I’ son un che discendo con
questo vivo giù di balzo in balzo, e di mostrar lo ’nferno a lui
intendo". 96
Allor si ruppe lo comun rincalzo; e tremando ciascuno a me si volse
con altri che l’udiron di rimbalzo. 99
Quello risponde piangendo: “Noi,
che vedi cosi` distrutti, siamo Latini.
Ma tu chi sei che domandi?” E la Guida a lui: “Io sono uno che conduce
costui, vivo, a visitare girone dopo girone, l’inferno”. Allora i due si
scostano e, tremando si volgono al Discepolo, con altri che hanno udito,
li` intorno. Lo buon maestro a me tutto
s’accolse, dicendo: "Dì a lor ciò che tu vuoli"; e io incominciai,
poscia ch’ei volse: 102
"Se la vostra memoria non s’imboli nel
primo mondo da l’umane menti, ma s’ella viva sotto molti soli, 105
ditemi chi voi siete e di che genti; la vostra sconcia e
fastidiosa pena di palesarvi a me non vi spaventi". 108
Il buon Maestro si avvicina al
Discepolo e gli dice: “Chiedi loro cio` che vuoi”
Avendone il permesso, Dante comincia a parlare:
“Che la vostra memoria possa durare a lungo, per molti anni nelle menti
umane, ma ditemi chi siete e di che famiglia; la vostra vergognosa
condanna non vi trattenga dal palesarvi”. "Io
fui d'Arezzo, e Albero da Siena", rispuose l'un, "mi fé mettere al
foco; ma quel per ch'io mori' qui non mi mena. 111
Vero è
ch’i’ dissi lui, parlando a gioco: "I’ mi saprei levar per l’aere a
volo"; e quei, ch’avea vaghezza e senno poco, 114
volle ch’i’
li mostrassi l’arte; e solo perch’io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l’avea per figliuolo. 117
Uno dei due risponde: “Io fui
(Griffolino) di Arezzo.
Fui arso sul rogo per colpa di Albero da Siena
(di un senese) ma sono qui non per quello per cui sono morto. E` vero
che scherzando gli avevo detto che ero capace di volare; quello avrebbe
voluto che lo istruissi sull’arte del volo, facendone un
Dedalo
(= esperto, che usci` dal labirinto di Cnosso volando con ali che si era
inventate) e, non avendolo accontentato, mi fece condannare al rogo da
quello che sembra fosse suo padre (il vescovo di Siena)…”
Ma ne l’ultima bolgia de le diece me per l’alchìmia che nel mondo
usai dannò Minòs, a cui fallar non lece". 120
E io dissi al
poeta: "Or fu già mai gente sì vana come la sanese? Certo non la
francesca sì d'assai!". 123
“…Ma sono qui, nell’ultima delle dieci Malebolge, a causa della
mia pratica alchemica, per la condanna di Minos
(v. canto V, 4-12) che
mai sbaglia”. E il Discepolo al Maestro: “Esiste un popolo cosi`
vanitoso come i Senesi? Nemmeno i Francesi lo sono tanto!”
Onde l’altro lebbroso, che m’intese, rispuose al detto mio: "Tra’
mene Stricca che seppe far le temperate spese, 126
e Niccolò
che la costuma ricca del garofano prima discoverse ne l’orto dove
tal seme s’appicca; 129
e tra’ ne la brigata in che disperse
Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda, e l’Abbagliato suo senno
proferse. 132 Per
cui l’altro appestato che ha udite le parole di Dante interviene:
“Escluso (ovviamente) Stricca
(striscia, che lascia la striscia dove passa, spendaccione) che fu
assai moderato nelle spese e (suo fratello)
Niccolo`
(=vincitore al bianco, perdente al nero, dedito alle gare dei banchetti)
che introdusse l’uso del garofano
nelle vivande dei raffinati della cucina; e
Caccia d’Asciano
(scialacquatore) che perse vigne e boschi, detto l’Abbagliato
(dalla vanita`) che dimostro` cosi` la sua ‘saggezza’…”
Ma perché sappi chi sì ti seconda contra i Sanesi, aguzza ver’ me
l’occhio, sì che la faccia mia ben ti risponda: 135
sì vedrai
ch’io son l’ombra di Capocchio, che falsai li metalli con l’alchìmia;
e te dee ricordar, se ben t’adocchio, 138
com’io fui di natura
buona scimia".
“…Ma affinche` tu sappia chi e` che
ti da` ragione nel definire vanitosi i Senesi, guardami, voglio
mostrarti bene il mio volto: sono l’ombra di
Capocchio
(= il balordo): alterai i metalli con l’alchimia; ricordati di me,
perché fui un abile imitatore della natura…”
L’alchimia
(dall’arabo san’a al-kimiya = arte della pietra filosofale e dal copto
chama= nero), nel medioevo, era praticata da chi pretendeva di tramutare
il metallo vile (piombo) in metallo nobile (oro) e di produrre la
‘pietra filosofale’, capace di prolungare la vita e di guarire le
malattie. La maggior parte degli alchimisti erano ciarlatani e abili
sfruttatori della buona fede altrui, ma sotto quella veste si
nascondevano anche i veri ‘Alchimisti’ che degli altri adoperavano solo
il linguaggio e per i quali la capacita` di trasmutare i ‘metalli’
significava ben altro che fabbricare oro materiale. Per il vero
Alchimista l’ ‘Oro’
significava e
significa ‘Nosce Te Ipsum’, ‘Conosci te stesso’ attraverso
la trasmutazione
delle tue
qualita` terrestri
(fisiche) e psichiche (astro-mentali), metalli vili, in qualita`
spirituali, ‘Oro alchemico’, per l’esperienza diretta dell’Io Sono,
della Coscienza, del Se`. Ma ovviamente nessuno dei personaggi
incontrati da Dante in questo canto e` un Alchimista vero…
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