PARADISO - CANTO XV
Interpretazione cabalistica di Franca
Vascellari
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Benigna volontade in che si liqua
sempre l’amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua,
3
silenzio puose a
quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira. 6
La volontà di agire per aiutare, in
cui si concretizza l’amore che indirizza sempre verso il bene come
l’avidità indirizza verso il male, fa tacere
quella dolce lira suonata dalle mani divine
(il melodioso canto dei beati che formano la Croce nel Cielo di Marte). Come saranno
a’ giusti preghi sorde
quelle sustanze che, per darmi voglia
ch’io le pregassi, a tacer fur concorde? 9
Bene è che sanza
termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri
etternalmente, quello amor si spoglia. 12
E come potranno non
rispondere alle giuste preghiere, quei beati che concordemente tacciono
per permettere a Dante di interrogarli?
E’ bene che soffra
per l’eternità chi rinuncia all’amore eterno per ciò che è perituro.
Nel vangelo di Matteo 7, 7-8 (v. ns/ commento in
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Testi sacri) è detto: ‘Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete;
bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca
trova e a chi bussa sarà aperto’. I
beati sono in cielo e
ne fanno parte e poiché secondo s. Matteo, è il Cielo ‘che dà, che si fa
trovare, che apre la porta’, i beati che interrompono il canto di lode a
Cristo (Par. XIV) per rispondere alle domande del Ricercatore, stanno
solo svolgendo il loro dovere con divina Carità. Ma perché in tanto
gaudio, luce e amore invocare l’eterna sofferenza per chi forse non sa
distinguere l’amore perituro da quello eterno? Già in precedenza nel ns/
commento alla cantica dell’Inferno abbiamo più volte contestato il
concetto dantesco di
‘dannazione
eterna’ (v. in
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appuntamenti
Inferno), ma
cerchiamo di approfondire ulteriormente l’argomento.
E’ bene che
sanza
termine
si doglia ecc.: ma
‘bene’ per chi? Non certo per chi ‘soffre senza
limite’, e allora? forse per gli altri che hanno scelto
l’amore etterno
invece di quello
che non dura; ma questi ‘altri’ non dovrebbero
essere ricolmi di tutte le virtù, compresa la pietà, che soffre per
l’altrui sofferenza? Quindi anche i beati finirebbero, per pietà, col
soffrire sanza
termine e così, addio beatitudine! Noi invece
consideriamo piuttosto l’incarnazione come una scuola in cui, attraverso
la sofferenza fisica, astrale o mentale, si impara a sviluppare la
Coscienza, correggendo per mezzo del dolore il comportamento, fino ad
arrivare al punto di non aver più bisogno di soffrire perché si è
appresa la lezione che si doveva apprendere. Forse per raggiungere
questo scopo una sola vita non basta, e la possibilità di rinascere
permette di tentare più volte di raggiungere la meta; la vera dannazione
potrebbe essere quella di non riuscire ad uscire dalla ruota delle
rinascite, rendendo il tentativo di Reintegrazione vano e senza fine.
D’altra parte nella manifestazione, tutto quello che ha un inizio deve
avere un termine, e se una determinata energia non riesce ad essere
impiegata per lo scopo prefissato, dopo vari tentativi va perduta, o
meglio è condannata ad ‘andare all’inferno’, cioè ad essere ‘riciclata’.
Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri, 15
e pare stella che
tramuti loco,
se non che da la parte ond’ e’ s’accende
nulla sen perde, ed esso dura poco: 18
tale dal corno che
’n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende; 21
né si partì la gemma
dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro. 24
Come attraverso il cielo
sereno (notturno) si vede passare una luce improvvisa (una meteora) che,
seguita con gli occhi, dura poco e sembra una stella che si sposta, ma
riguardando là dove è partita non ne manca nessuna, così dal braccio
destro della Croce corre verso il piede una fulgore di quei beati che lì
risplendono, e non si stacca dal braccio, ma sfreccia lungo il raggio
simile ad una luce dietro ad un alabastro.
Il Nostro paragona lo spirito beato
che tra poco gli parlerà ad una meteora, a una stella cadente di cielo
estivo che, come tutti sappiamo, si dice esaudisca il desiderio che si
formula vedendola. In effetti Dante esaudirà il suo desiderio di
conoscenza e, con la sua presenza nel cielo di Marte, il desiderio del
beato, come vedremo tra poco.
Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s’accorse. 27
«O sanguis meus, o
superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa?». 30
Allo stesso modo lo
spirito di Anchise andò incontro al figlio (Enea) quando lo vide negli
Elisi, se dobbiamo credere al nostro più grande poeta (Virgilio: Eneide
VI, 684 ss.) dicendogli: “O sangue mio, o Grazia divina in te infusa, a
chi fu mai dischiusa la porta del Cielo per due volte come a te?”
Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui; 33
ché dentro a li
occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso. 36
A udire quelle parole Dante si volge (prima) verso quel beato,
poi verso la sua
donna (= Signora, Beatrice) e rimane stupito:
perché negli occhi di lei vede brillare tanta letizia da pensare di
essere giunto al culmine della felicità del suo paradiso.
In un crescendo di letizia sempre più
‘ridente’ Dante, specchiandosi negli occhi della sua
donna,
comprende di essere di fronte ad una figura genitoriale, un avo della
sua casata e ce lo presenta subito all’inizio, ricordando l’incontro
affettuoso e commovente dell’eroe virgiliano Enea col padre Anchise nei
campi Elisi, il paradiso della mitologia greco-romana.
Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo; 39
né per elezïon mi si
nascose, ma
per necessità, ché ’l suo concetto
al segno d’i mortal si soprapuose. 42
Poi quello spirito, che
dona gioia a vederlo e ad udirlo, inizia a dire cose così profonde che
il Nostro non intende, esse sono celate non per volontà, ma per
necessità, essendo i concetti troppo superiori alla comprensione
dell’intelletto di un mortale.
Nella Kabbalah la figura dell’avo o
meglio del ‘nonno’ corrisponde alla Sephirah Chockmah, la Sapienza, il
pensiero puro, non verbale, indifferenziato; è per questo motivo che i
suoi discorsi risultano in principio incomprensibili alla personalità,
anche se questa ha già sviluppato la sua ‘intuizione’ (la Coscienza,
Daath, Beatrice).
E quando l’arco de l’ardente affetto
fu sì sfogato, che ’l parlar discese
inver’ lo segno del nostro intelletto, 45
la prima cosa che
per me s’intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
che nel mio seme se’ tanto cortese!». 48
Quando la foga
dell’amore si calma e il discorso scende a livello di comprensione
umana, ecco che Dante intende: “Benedetto sia il Signore Uno e Trino,
che è tanto generoso con la mia discendenza!”
Quando il ‘pensiero puro e
indifferenziato’ (Chockmah
= la potenzialità di
ciò che è) abbassa il suo livello e diventa ‘pensiero differenziato e
verbale’ ecco che si fa comprensibile, ed esprime benedizione,
gratitudine ed amore.
E seguì: «Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
du’ non si muta mai bianco né bruno, 51
solvuto hai, figlio,
dentro a questo lume
in ch’io ti parlo, mercé di colei
ch’a l’alto volo ti vestì le piume. 54
E poi lo spirito beato
seguita: “O figlio, grazie a colei (Beatrice) che ti ha aiutato a salire
fino qui (al cielo di Marte), tu hai esaudito, nella luce in cui ti
parlo, un antico desiderio, nato leggendo (del tuo arrivo) nel gran
libro divino in cui non si cambia ciò che vi è scritto…”
Tu credi che
a me tuo pensier mei
da quel ch’è primo, così come raia
da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei;
57
e però ch’io mi sia e perch’ io paia
più gaudïoso a te, non mi domandi,
che alcun altro in questa turba gaia. 60
“…Tu credi
che il tuo pensiero
mi giunga attraverso il Primo Essere (l’Uno) così come dall’unità,
allorché la si conosce, derivano il cinque e il sei, e perciò non mi
domandi né il nome, né perché io sia il più
gaudioso
tra questi beati…”
La componente spirituale antica,
Atzilutica, (l’avo, la radice) desidera il Bene Supremo, cioè la
Reintegrazione della sua creatura, la personalità (il discendente, il
ramo); la Reintegrazione è il ‘Piano divino’, scritto nel
magno volume
e quando il Piano sta per essere realizzato, grande è la
felicità di tutto l’Albero dalla radice fino all’ultima fronda; ma
proprio perché esso è ‘Uno’, il pensiero del ‘ramo’ viene recepito dalla
‘radice’ senza dover essere nemmeno verbalizzato.
Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi
di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi; 63
ma perché ’l sacro
amore in che io veglio
con perpetüa vista e che m’asseta
di dolce disïar, s’adempia meglio, 66
la voce tua sicura,
balda e lieta
suoni la volontà, suoni ’l disio,
a che la mia risposta è già decreta!». 69
“… Tu sei nel giusto;
qui (nel Paradiso) i beati,
sia
i piccoli che i grandi (per i meriti), vedono il tuo pensiero nello
specchio della Mente divina prima che si manifesti; ma per meglio
donarti quell’Amore, di cui godo la vista in perpetuo
e
che mi accende del desiderio (di appagarti), esprimi la tua volontà con
voce sicura, forte e coraggiosa, la mia risposta è già
decreta
(= dal latino ‘decernere’ = decisa), pronta”.
Pure se ‘il Padre nostro che è nei
cieli sa di che cosa abbiamo bisogno ancor prima che glielo chiediamo’
(Mt. 6, 8), è giusto chiedere coraggiosamente quello di cui abbiamo
necessità: di avere a livello materiale, di provare a livello
sentimentale, di sapere a livello mentale; e la risposta sarà
decreta.
Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno
che fece crescer l’ali al voler mio. 72
Poi cominciai così:
«L’affetto e ’l senno,
come la prima equalità v’apparse,
d’un peso per ciascun di voi si fenno, 75
però che ’l sol che
v’allumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
che tutte simiglianze sono scarse. 78
Dante, a queste parole
si volge verso
Beatrice che lo comprende senza parlare e che gli
fa un cenno di assenso, aumentando il suo desiderio (di conoscenza).
Allora egli comincia a dire: “Appena raggiunta la beatitudine, in voi il
sentimento (l’Amore) e l’intelligenza (la Sapienza) sono divenuti dello
stesso peso,
perché foste illuminati da quel Sole (Luce, Divinità) in cui il
(Potere), la Sapienza e l’Amore sono talmente uguali che al confronto
ogni uguaglianza è imperfetta…”
Attraverso l’approvazione di
Beatrice,
la facoltà intuitiva, alla personalità è ora
possibile
argomentare con la sua ‘radice’, riconoscendo in essa le caratteristiche
della stessa Trinità: (Potere), Sapienza
e Amore, le Tre
Persone uguali e distinte: (Padre), Figlio e Spirito Santo.
Ma voglia e argomento ne’ mortali,
per la cagion ch’a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali; 81
ond’ io, che son
mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
se non col core a la paterna festa. 84
Ben supplico io a
te, vivo topazio
che questa gioia prezïosa ingemmi,
perché mi facci del tuo nome sazio». 87
“…Invece negli uomini il
desiderio e il mezzo per realizzarlo sono impari, per la ragione che ben
conoscete (l’imperfezione umana dovuta alla caduta); io, che sono un
mortale, mi trovo in questo stato di scompenso e posso ringraziare solo
col cuore (e non con le parole giuste) per l’accoglienza paterna e
festosa. Quindi ti prego, luce splendente che adorni questo cielo di
beatitudine, fammi conoscere il tuo nome”.
In Genesi 32, 23-32 (v. in
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Testi sacri il
relativo commento) Giacobbe, tornando in Palestina, al guado dello
Iabbok , “…rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntar
dell’aurora…(e) gli domandò: ‘Come ti chiami?’ Rispose: ‘Giacobbe’.
Riprese: ‘Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai
combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto’. Giacobbe allora gli
chiese: ‘Dimmi il tuo Nome’. Gli rispose: ‘Perché mi chiedi il nome?’. E
qui lo benedisse…”
Nella Bibbia non
viene detto se insieme alla ‘benedizione’ Giacobbe ha conosciuto anche
il Nome dell’Uomo con cui ha lottato, noi crediamo di sì, perché è con
la conoscenza di quel Nome che Israele ha portato avanti la sua missione
di Patriarca. Anche il Nostro tra poco conoscerà il Nome del suo
Chockmah di Geburah e così potrà compiere la sua missione di Vate
Iniziato. Ricordiamo che il ‘Nome’ racchiude l’essenza della qualità
intrinseca della persona (nomen omen), ma a livello di esperienza
interiore è anche la parola d’ordine per accedere ad uno stato
coscienziale più alto.
«O fronda mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice»:
cotal principio, rispondendo, femmi. 90
Poscia mi disse:
«Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent’ anni e piùe
girato ha ’l monte in la prima cornice, 93
mio figlio fu e tuo
bisavol fue:
ben si convien che la lunga fatica
tu li raccorci con l’opere tue. 96
Così inizia a rispondere
il beato: “O mia fronda (ramo), in cui mi sono compiaciuto
(cfr. vangelo di Matteo
3, 17) aspettandoti,
io sono stato la tua
radice”. (Chi parla è Cacciaguida,
trisavolo di Dante; nacque circa nel 1091 ebbe due figli, morì nel 1148
durante la seconda crociata al seguito di Corrado III). E poi seguita:
“Colui da cui deriva il tuo cognome (Alighiero) e che sta scontando da
più di cento anni i suoi peccati
nella
prima cornice del Purgatorio (per la superbia), fu mio figlio, e tuo
bisavolo, e conviene che con le tue opere gli accorci la pena…”
I termini
fronda
e radice appartengono alla nomenclatura
dell’Albero e la
radice riconosce come suo anche il ‘ramo’ non
perfettamente dritto e, avendone compassione, ne sollecita la
correzione.
Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond’ ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica. 99
Non avea catenella,
non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona. 102
“…Allora
Fiorenza
(Firenze, la città del fiore, sacra alla dea Flora) viveva in pace,
modesta e pudica dentro le mura antiche (dove c’è la chiesa della Badia)
che suona ancora l’ora terza (le nove) e l’ora nona (il mezzogiorno). A
quei tempi non c’erano fronzoli che apparissero più della persona (che
li indossava)…”
Inizia qui l’elogio del ‘buon tempo
andato’ che Dante mette in bocca all’avo quasi come una rievocazione
della mitica età dell’oro; ovviamente si tratta solo di un suo
comprensibile attaccamento al ‘vecchio’, al già superato, che nel
ricordo nostalgico perde tutti i difetti per conservare solo i pregi.
Ora come interiorizzare tutto questo? Come una necessità che la
personalità ha di rivalutare ciò che di buono ha fatto nel passato,
raddrizzando col rimprovero le azioni errate del presente, per prendere
lo slancio verso il futuro; ma non è certo una necessità del Piano
Atzilutico, ma solo di quello assianico, dove il tempo che rapido
trascorre ricorda, a chi della sua vita ha fatto una missione, quanto
sia effimero e controproducente coltivare tutto quello che spinge a
trascurare anche per piccole cose il proprio dovere.
Non faceva, nascendo, ancor paura
la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote
non fuggien quinci e quindi la misura. 105
Non avea case di
famiglia vòte;
non v’era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che ’n camera si puote. 108
“…la nascita di una
figlia femmina non preoccupava il padre perché età e dote erano di
misura (giuste). Le case erano modeste e le
famiglie ricche di bambini, perché i vizi della lussuria e della sodomia
(Sardanapalo
= Assurbanipal, re degli Assiri, noto per la
depravazione)
non avevano ancora attecchito…”
Non era vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo. 111
Bellincion Berti
vid’ io andar cinto
di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio
la donna sua sanza ’l viso dipinto; 114
e vidi quel d’i
Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,
e le sue donne al fuso e al pennecchio. 117
“… Allora
Monte Malo
(= Mario = maschio; a Roma) non era stato superato dal (monte)
Uccellatoio (= dove si cacciano gli uccelli, ma anche i benefici e le
prebende; a Firenze), ma come (Firenze) oggi ha superato (Roma) in
grandezza, così presto la supererà nella decadenza. Io stesso ho visto
Bellincione
Berti (= splendente e dalla vista acuta;
nobile, la cui figlia ha sposato il figlio di Cacciaguida,) indossare
una cintura (semplice) di osso e cuoio e sua moglie allontanarsi dallo
specchio senza trucco; ed i
Nerli
e i Vecchietti
(nobili famiglie guelfe) accontentarsi di pelli sfoderate e le loro
donne lavorare (la lana) col fuso e il pennacchio…”
Oh fortunate! ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
era per Francia nel letto diserta. 120
L’una vegghiava a
studio de la culla,
e, consolando, usava l’idïoma
che prima i padri e le madri trastulla; 123
l’altra, traendo a
la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
d’i Troiani, di Fiesole e di Roma. 126
“…Oh, fortunate! Erano certe del luogo della sepoltura (non
temevano l’esilio) e nessuna era lasciata sola nel letto (dal marito)
per andare a commerciare in Francia. Una vegliava la culla del figlio e
per consolarlo (nel pianto) usava le filastrocche tipiche dell’infanzia,
un’altra, lavorando la lana tra i suoi, narrava le storie dei tempi
antichi…”
I ‘bei tempi passati’ nell’Albero
sono caratterizzati da modestia, semplicità, nobiltà, operosità sia
degli uomini (centri della colonna di destra) che delle donne (centri
della colonna di sinistra), in particolare la colonna di sinistra è
coadiuvata e rispettata da quella di destra e i figli (i centri della
colonna centrale) sono
allevati
con cura ed amore. Ed ogni centro della colonna di sinistra non teme né
di essere esiliato (capovolto di valenza) né di dover rinunciare al suo
complementare ed interagente (centro della colonna di destra
corrispondente) ma, occupandosi dei suoi doveri, trasmette l’energia dei
centri più alti a quelli più bassi…
Saria tenuta allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Salterello,
qual or saria Cincinnato e Corniglia. 129
A così riposato, a
così bello
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello, 132
Maria mi diè,
chiamata in alte grida;
e ne l’antico vostro Batisteo
insieme fui cristiano e Cacciaguida. 135
“…A quei tempi una
Cianghella
(= da ‘cianca’= coscia; vedova in Firenze, morta nel 1330), donna
dissoluta, e un
Lapo (= da Iacopo = ebraico ‘aqob’ = che inganna)
Salterello
(=ballerino), barattiere, avrebbero destato meraviglia come oggi un
Cincinnato (520 a. C. - 437 a. C. ca.;
dittatore romano famoso per modestia ed equità) e una
Corniglia
(= Cornelia 189 a. C. - 110 a. C. ca; matrona di grande virtù e madre
esemplare dei Gracchi). Una vita così tranquilla, con cittadini così
leali e sereni, in un luogo così dolce, mi fu concessa dalla (Vergine)
Maria (= l’Amata), invocata da mia madre durante il parto; poi
nell’antico Battistero (di Firenze) divenni cristiano e chiamato
Cacciaguida
(= dal latino
‘captiare’ = prendere la guida, che
prendere il comando,
che guida gli altri)…”
Inoltre nei ‘bei tempi passati’
l’Albero non avrebbe mai accolto qelipoth di lussuria (le
Cianghelle)
o di inganno (i
Lapi
Saltarelli),
così come ora l’albero, quando è capovolto, non accoglie sephiroth di
morigeratezza (i
Cincinnati) o di virtù (le
Cornelie).
A
questo punto finalmente veniamo a conoscere il Nome dell’Avo di Dante,
di questo beato del cielo di Marte, a cui
Maria,
l’Amata del Signore, ha dato la vita: è
Cacciaguida,
la Guida per la caccia (all’Oro), ovviamente filosofico.
Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il sopranome tuo si feo. 138
Poi seguitai lo
’mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
tanto per bene ovrar li venni in grado. 141
“…Ebbi come fratelli
Moronto
(= Morante = che misura) ed
Eliseo (= che salva) e mia moglie fu di origine
Padana
(= del fiume; il tuo cognome deriva da lei (Aldi-ghiera= saggia corona).
Poi mi misi al seguito dell’imperatore
Currado
(= valoroso consigliere; III di Svevia, fu imperatore dal 1138 al 1152;
col re di Francia Luigi VII guidò la seconda Crociata: 1147-1149) che mi
nominò suo cavaliere essendogli gradito il mio operare…”
Dietro li andai incontro a la
nequizia di
quella legge il cui popolo usurpa,
per colpa d’i pastor, vostra giustizia. 144
Quivi fu’ io da
quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt’ anime deturpa; 147
e venni dal martiro
a questa pace».
“…Io lo seguii in Terra Santa per combattere l’iniquità di
quella religione che usurpa il diritto della vostra per colpa dei
pastori (inetti, i papi). Io fui da quella gente malvagia sciolto dal
quel mondo che (con le sue lusinghe) perde molte anime e, avendo subito
il martirio (per la Fede), giunsi a questa pace (in Paradiso)”.
Tutti i Nomi che fanno da cornice a
Cacciaguida
(che abbiamo fatto corrispondere al Chokmah di Geburah) ne esaltano le
qualità: equilibrio (Moronto),
salvezza (Eliseo),
acqua di vita (Pado),
corona di saggezza (Aldighiera), consiglio virtuoso (Currado);
seguendo quest’ultimo
Cacciaguida giunse attraverso il
martiro
(= martirio, dal greco ‘marturion’ = la testimonianza) alla
pace (da ‘pangere’ = piantare), cioè alla
completezza dell’Albero.
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