PARADISO - CANTO XX
Interpretazione cabalistica di Franca
Vascellari
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Quando colui che tutto ’l mondo
alluma
de l’emisperio nostro sì discende,
che ’l giorno d’ogne parte
si consuma, 3
lo
ciel, che sol di lui prima s’accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una
risplende; 6
e
questo atto del ciel mi venne a mente,
come ’l segno del mondo e
de’ suoi duci
nel benedetto rostro fu tacente; 9
però che tutte quelle vive luci,
vie più lucendo, cominciaron
canti
da mia memoria labili e caduci. 12
Quando l’astro che illumina tutto il mondo scende (sotto la
linea dell’orizzonte) e il giorno muore, il cielo prima inondato dalla
luce del sole, ridiventa visibile per quelle luci che riflettono il suo
fulgore: questo mutamento del cielo viene in mente al Nostro quando il
benedetto rostro (dell’aquila), insegna dell’impero e dei re, cessa di
parlare, mentre tutte le luci (dei beati) sempre più splendenti,
iniziano dei canti che però sfuggono alla sua memoria.
Il
mutamento è la Legge che governa il mondo dove ogni cosa, scorrendo
nello spazio-tempo, cambia in continuazione. Nel testo taoista ‘I King’,
che significa ‘Libro (= king o ching) dei Mutamenti (= I)’ l’alternanza
del chiaro e dello scuro, del sole diurno e delle stelle notturne viene
descritta assai bene nel commento confuciano all’esagramma 22
l’Avvenenza (I King
ed. Astrolabio pag.
137): ‘ Nella natura si vede nel cielo la forte luce del sole. Su ciò si
fonda la vita del mondo. Ma questa cosa forte, essenziale, è trasformata
e va incontro a leggiadre variazioni per mezzo della luna e delle stelle
(v. in
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I Ching e musica ns/ relativo commento). Dante paragona la ‘Bellezza’
dell’alternanza giorno-notte terrestre al paradisiaco quadro
dell’aquila-sole parlante che alterna i suoi insegnamenti al canto delle
luci splendenti dei beati-stelle; ma mentre può ricordare le parole
dell’aquila, non riesce invece a ricordare quelle del canto dei beati.
Perchè? Probabilmente perché l’aquila parla solo per lui, per istruirlo,
come il sole illumina la terra per darle la vita, mentre i beati fanno
da sfondo e cantano per manifestare la loro beatitudine e la gloria del
Signore, proprio come fanno le stelle in cielo.
O dolce amor che di riso t’ammanti,
quanto parevi ardente in
que’ flailli,
ch’avieno spirto sol di pensier
santi! 15
Poscia che i cari e lucidi lapilli
ond’ io vidi ingemmato il
sesto lume
puoser silenzio a li angelici
squilli, 18
udir mi parve un mormorar di fiume
che scende chiaro giù di
pietra in pietra,
mostrando l’ubertà del suo
cacume. 21
O Amore
che ti vesti di letizia, quanto risplendi in quelle luci ispirate solo
da santità! Poi Dante ode le care gemme che ornano il sesto cielo (di
Giove) tacere, ed ecco che gli sembra di sentire come il mormorio di una
cascata che scende di pietra in pietra mostrando l’ubertà
(dal
sanscrito ‘udhar’ = mammella)
del
suo cacume
(= dal sanscrito ‘kakud’ = punta), la ricchezza
della cima della sorgente.
E come suono al collo de la cetra
prende sua forma, e sì com’
al pertugio
de la sampogna vento che penètra, 24
così, rimosso d’aspettare indugio,
quel mormorar de l’aguglia
salissi
su per lo collo, come fosse bugio. 27
E come il
suono prende forma nella parte alta della cetra o dall’aria che penetra
nel foro della zampogna, così, senza ulteriori indugi, quel mormorio
sale per il collo dell’aquila come se fosse
bugio
(da radice germanica ‘bug’ = incavato, bucato, vuoto).
Fecesi voce quivi, e quindi
uscissi
per lo suo becco in forma di parole,
quali aspettava il core ov’
io le scrissi. 30
«La
parte in me che vede e pate il sole
ne l’aguglie mortali»,
incominciommi,
«or fisamente riguardar si vole, 33
perché d’i fuochi ond’ io figura fommi,
quelli onde l’occhio in
testa mi scintilla,
e’ di tutti lor gradi son li
sommi. 36
Quel
mormorio poi si fa voce ed esce dal becco in forma di parole, proprio
quelle attese dal cuore del Nostro che ve le imprime. E comincia a dire
: “Ora devi fissare lo sguardo in quella parte di me che nelle aquile
terrestri vede e sopporta la vista del sole, perché delle luci che
compongono la mia figura quelle che formano il mio
occhio
(da radice indoeuropea ‘ak’ = che penetra) splendente sono in
assoluto le più luminose...”
Allorché i
beati tacciono, di nuovo l’aquila è pronta a nutrire (allattare) Dante
con altri insegnamenti come un fiume che mostra l’ubertà (= mammella)
del suo cacume
col mormorio dell’acqua che dall’alto precipita in basso. Essa gli
ordina di porre l’attenzione sul suo
occhio
(che penetra e intuisce, relativo alla Sephirah Daath), perchè
lì si trova il massimo dello splendore del cielo di Giove, della
Sephirah Chesed del piano Atzilutico del Nostro.
Colui che luce in mezzo per
pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l’arca traslatò di villa
in villa: 39
ora
conosce il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo
consiglio,
per lo remunerar ch’è altrettanto. 42
“...Colui che irradia
dalla pupilla fu il menestrello dello Spirito Santo, che trasportò
l’arca di città in città (David, re d’Israele, 1030-970 a. C.; trasferì
l’Arca con le tavole della Legge da Gabaon a Gerusalemme; 1 Cronache 13
-15; v. in
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copioni, sceneggiature bibliche ‘David’ e relativa interpretazione
cabalistica): ora egli conosce il merito del suo canto (i Salmi), frutto
del suo libero volere, dalla giusta ricompensa ricevuta: la beatitudine
...”
Il centro
Daatico (l’occhio)
dell’aquila è formato da un Albero di re santi e beati che si
contrappongo ai re neri del canto precedente (vv. 115-148); David (=
l’amato), il cantore divino, il salmista, che irradia dal centro
dell’occhio ne rappresenta il cuore ed è relativo alla Sephirah
Tiphereth.
Dei cinque che mi fan
cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi
s’accosta,
la vedovella consolò del figlio: 45
ora
conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per
l’esperïenza
di questa dolce vita e de l’opposta.
48
“... Dei cinque spiriti che formano
l’arco del mio ciglio, il più vicino al becco è colui che ha reso
giustizia alla vedova per il figlio (è Traiano; imperatore dal 97 al
117; si dice che, già morto, sia tornato in vita dal Limbo per essere
battezzato da papa Gregorio Magno; v. Purgatorio canto X, vv. 76 ss. e
relativo commento); egli (avendo provato l’inferno), conosce per
esperienza sia la sofferenza di non essere un seguace del Cristo, sia la
beatitudine di esserlo (ora sta in Paradiso)...”
Traiano (= che trascina) che ha
conosciuto sia l’inferno che il Paradiso, battezzato dal papa Gregorio
(= guardiano) Magno, può essere omologato alla Sephirah Hod (= Gloria,
Splendore).
E quel che segue in la
circunferenza
di che ragiono, per l’arco superno,
morte indugiò per vera
penitenza: 51
ora
conosce che ’l giudicio etterno
non si trasmuta, quando
degno preco
fa crastino là giù de l’odïerno. 54
“...Il seguente beato
nell’arco (del ciglio) di cui parlo, ottenne (dal Signore) di rinviare
la morte per far penitenza (è Ezechia, re di Giuda dal 725 al 659 a.
C.); ora egli conosce che il giudizio divino non muta, quando una giusta
preghiera sulla terra rimanda a domani ciò che dovrebbe accadere
oggi...”
Ezechia (= il forte del Signore) che
è riuscito a ritardare la sua morte per far penitenza, può essere
omologato alla Sephirah Yesod.
L’altro che segue, con le
leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal
frutto,
per cedere al pastor si fece greco:
57
ora
conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è
nocivo,
avvegna che sia ’l mondo indi
distrutto. 60
“...L’altro che viene dopo, con
me e le leggi si trasferì nel mondo greco (è Costantino; 274-337; che
trasferì a Bisanzio la capitale dell’Impero Romano concedendo al papa la
donazione dei beni temporali; v. Purgatorio canto XXXII, vv. 124-129 e
relativo commento; per Dante questa è l’origine della confusione dei
poteri universali e l’inizio della decadenza); ora egli conosce che il
male derivato dal suo buon agire non gli ha recato danno, anche se il
mondo è andato in rovina...”
Costantino (= il tenace nella fede),
da cui deriva la confusione dei poteri universali (la caduta
dell’Impero), può essere omologato alla Sephirah Geburah.
E quel che vedi ne l’arco
declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo
vivo: 63
ora
conosce come s’innamora
lo ciel del giusto rege, e
al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.
66
“...
Quello che vedi nella curva discendente (dell’arco del ciglio) è
Guiglielmo
(= che è protetto dalla volontà; 1166-1189, d’Altavilla, re della
Sicilia e dell’Italia meridionale) terre che si lamentano per i re ora
vivi: Carlo
(= forte al bianco, debole al nero; II d’Angiò) e
Federigo (= potente in pace, al bianco,
debole in guerra, al nero): ora conosce che il cielo ama il re giusto e
lo mostra col suo splendore...”
Dopo viene
Guiglielmo
(= che è protetto dalla volontà); questo beato sovrano conosce che il
cielo s’innamora dello giusto rege e può essere
omologato alla Sephirah Chesed.
Chi crederebbe giù nel mondo
errante,
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci
sante? 69
Ora
conosce assai di quel che ’l mondo
veder non può de la divina
grazia,
ben che sua vista non discerna il
fondo». 72
“...Chi
mai crederebbe in terra, dove si commettono gli errori, che la quinta di
quelle sante luci (dell’arco del ciglio dell’aquila) sia
Rifëo
(= personaggio dell’Eneide, morto difendendo Troia, definito da Virgilio
‘il più rispettoso dell’equità’)? Egli conosce, anche se solo
parzialmente, ciò che il mondo non sa della Grazia divina”.
Infine il
troiano (co)Rifeo
(= il maggiore) che conosce la
divina Grazia
come nessuno
al mondo, può essere omologato alle Sephiroth Chockmah (Saggezza) e
Binah (Comprensione).
Quale allodetta che ’n aere si spazia
prima cantando, e poi tace
contenta
de l’ultima dolcezza che la sazia, 75
tal
mi sembiò l’imago de la ’mprenta
de l’etterno piacere, al cui
disio
ciascuna cosa qual ell’ è diventa. 78
Come l’allodola che
volando prima canta poi si tace paga della dolcezza del suo canto,
altrettanto sembra fare l’aquila, simbolo di eterna beatitudine (nella
visione del Signore) in cui ogni cosa diviene perfetta (come deve
essere).
L’allodola, animale considerato
solare perché quando canta si alza alto in cielo, è omologata all’alba e
alla gioia; paragonare l’aquila all’allodola può sembrare riduttivo, ma
il Nostro ne mette in evidenza la ‘dolcezza’ qualità che non sembra a
prima vista appartenere all’aquila, tuttavia questa Daatica Aquila
celeste nella visione beatifica realizza ogni perfezione e perciò deve
avere sviluppato anche la soavità.
E avvegna ch’io fossi al
dubbiar mio
lì quasi vetro a lo color ch’el
veste,
tempo aspettar tacendo non patio, 81
ma
de la bocca, «Che cose son queste?»,
mi pinse con la forza del
suo peso:
per ch’io di coruscar vidi gran
feste. 84
Benché (per l’aquila) Dante sia,
relativamente al suo dubbio, trasparente come un vetro per il colore che
lo ricopre, essa tuttavia non tollera la sua attesa, ma gli fa uscire
con forza dalla bocca: “Che significa questo?” Intanto egli vede
aumentare lo splendore delle luci.
Se le Sacre Scritture dicono che senza la conoscenza del Cristo
non è possibile la salvezza, allora perché due pagani stanno in cielo?
E’ questa la domanda che Dante pone all’aquila, anzi, che l’aquila gli
estrae dalla bocca; a tale domanda anche ognuno di noi cercherà di
rispondere, magari da un punto di vista interiorizzato. E come i beati
del sesto cielo, che formano il simbolo dell’aquila imperiale, felici di
appagare il desiderio di conoscenza del Nostro, aumentano la loro luce,
così anche noi, se riusciremo a risponderci esaurientemente, sentiremo
accrescere la nostra gioia.
Per noi, cioè dal nostro punto di vista, tutto dipende dal
significato che si vuol dare al ‘Cristo’. Se per Cristo si intende
solamente il personaggio storico di cui parlano i Vangeli, nato due
millenni or sono, e se per fede Lo si considera l’Unico Figlio di Dio,
da cui dipende la salvezza dell’umanità e la Redenzione, allora se non
Lo si è conosciuto, perché vissuti prima della Sua venuta, o perchè non
si è venuti a contatto con la religione cristiana, la salvezza diventa
impossibile, salvo eccezioni (accettabili solo per fede, come quelle di
Rifeo e di Traiano, che per i loro meriti si salvano, confermando la
regola). Ma se per ‘Cristo’ si intende il Cristo interiore, l’Io Sono,
Daath, La Coscienza, che deve essere sviluppata in noi come
consapevolezza di essere Figli dell’Assoluto, allora la ‘salvezza’
diventa possibile anche per chi non ha conosciuto il personaggio storico
di Gesù il Cristo.
Nella Bhagavad Gita (ed. Società Teosofica Italiana –Trieste,
1975) canto IV vv. 5-8, Krisna, che rappresenta il Cristo di Arjuna,
Discepolo sul Sentiero come Dante, dice: ‘Molte vite tu ed Io abbiamo
lasciato dietro di noi, o Arjuna. Io le conosco tutte, ma tu non le
conosci. Quantunque non nato, di natura indistruttibile, Signore di
tutte le creature, pure, dominando la Mia natura, per mezzo del mio
potere di Maya (= illusione) mi rivesto di un corpo. Ogni qualvolta vi è
decadenza nella religione e ascendenza dell’empietà, Io mi manifesto.
Per proteggere i buoni, per distruggere i malvagi e a fine di stabilire
fermamente la religione, Io mi incarno di età in età’. (v. in
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Testi sacri il relativo commento).
Per la Kabbalah il Cristo, l’Unto, il
‘Mashiach’, il Redentore, verrà all’inizio di un’era di pace e di
generale illuminazione e sarà preceduto da un altro ‘Mashiach’ che
compirà le opere di ‘tikkun’ (riparazione); con loro inizierà l’era
dell’Acharit ha-Jamjim (della Fine dei Giorni), in cui tutta l’umanità
verrà sottoposta al Giudizio Finale; ad essa seguirà l’Era Messianica,
in cui il male sarà definitivamente sconfitto. Questo il percorso
collettivo; ma esiste un percorso individuale con le stesse tappe:
allorché la personalità (Malkuth) recuperando tutta l’energia delle
qelipoth (i vizi), avrà operato il suo personale tikkun sviluppando in
sé le Sephiroth (le virtù) e in particolare la Sephirah Daath, verrà
personalmente sottoposta al Giudizio e, una volta superato, potrà vivere
la sua Era Messianica, il suo Paradiso, proprio come Arjuna o Dante.
Poi appresso, con l’occhio
più acceso,
lo benedetto segno mi rispuose
per non tenermi in ammirar
sospeso: 87
«Io
veggio che tu credi queste cose
perch’ io le dico, ma non
vedi come;
sì che, se son credute, sono ascose.
90
Fai
come quei che la cosa per nome
apprende ben, ma la sua
quiditate
veder non può se altri non la prome.
93
Subito
dopo con l’occhio ancora più luminoso il benedetto simbolo (dell’aquila)
per non tenerlo in sospeso nello stupore gli risponde: “Io vedo che tu
credi alle mie parole, ma non ne intendi il significato, perciò ti
paiono incomprensibili. Fai come quello che impara (a memoria) il nome
di una cosa, ma non ne capisce la
quidditate,
(dal latino ‘quid est’= che cosa è?) cioè il senso, se un altro non
glielo spiega...”
L’aquila cerca di spiegare ‘perché’ i
due pagani si trovano beati in cielo, vale a dire: la Coscienza cerca di
far comprendere alla personalità il perché delle eccezioni rispetto alla
regola, cercando di farle penetrare il ‘quid’ della Giustizia divina.
Regnum celorum vïolenza pate
da caldo amore e da viva
speranza,
che vince la divina volontate: 96
non
a guisa che l’omo a l’om sobranza,
ma vince lei perché vuole
esser vinta,
e, vinta, vince con sua beninanza. 99
“...Il Regno dei cieli
subisce la violenza dell’amore impetuoso e dell’ardente speranza che
vincono la volontà divina (cfr. Matteo 11, 12: ‘...il regno dei cieli
soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono’ e relativa ns/
interpretazione cabalistica in
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Testi sacri): ma non come l’uomo soverchia l’uomo; la volontà divina si
fa vincere perché vuole essere vinta, e vinta, vince con la sua
bontà....”
La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne
vedi
la regïon de li angeli dipinta. 102
D’i
corpi suoi non uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani, in
ferma fede
quel d’i passuri e quel d’i passi
piedi. 105
“...Ti
stupisci di trovare nella regione degli angeli (qui, Traiano e Rifeo) il
primo e il quinto spirito che formano il mio ciglio. Ma quando sono
morti non erano
Gentili (dal latino ‘gentes’, popoli di altre
religioni, cioè pagani) ma Cristiani, ai piedi della Croce, di Fede
certa: uno (Rifeo) nel Cristo che avrebbe patito, l’altro (Traiano) nel
Cristo che aveva già patito...”
Viene
qui messa in evidenza per la salvezza di Traiano e Rifeo la passione
(passata per l’imperatore, e futura per il trioano) del Cristo, in cui i
due beati credettero. Aldilà del significato letterale e simbolico della
‘passione e morte’ del Cristo storico che ci viene insegnata nella
religione, come interiorizzare tali eventi nell’ottica del percorso di
redenzione individuale? Probabilmente possiamo ipotizzare che il Cristo
interiore, la Coscienza, Daath, voglia ‘soffrire’ o S’offrire (offrirSi)
alla personalità per una Sua volontaria conoscenza del ‘male’ che essa
agendo male procura a sé e agli altri. ‘Passione’ (da patire) indica
sofferenza e travaglio, corrisponde alla macerazione che deve subire il
seme (albero potenziale) nella terra per nascere pianta, ed il seme deve
morire al suo essere seme per svilupparsi in pianticella e diventare
albero (v. in
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‘I Ching e musica’ il racconto n. 3 ‘Il difficile inizio’). Si diventa
‘Coscienza’ solo attraverso un volontario graduale processo di
purificazione.
Inoltre dobbiamo
intendere ‘morte’ (da una radice indoeuropea ‘mer’ che indica il
‘cessare’ di un qualcosa e il mutare in un’altra), come ‘passaggio’
coscienziale dallo stato fisico ad un altro diverso, più sottile:
astro-mentale-spirituale. La ‘morte’ in croce può indicare il sacrificio
dei quattro elementi del piano fisico, e la loro sublimazione e
trascendenza nel centro, punto di perfezione e di conciliazione dei
contrari; e come già detto altre volte, la realizzazione dell’ unione
della terra con il cielo (= ascesa spirituale, braccio verticale della
croce) nell’attuazione del servizio reso nel sociale (allargamento
altruistico, braccio orizzontale della croce).
Ché l’una de lo ’nferno, u’
non si riede
già mai a buon voler, tornò a l’ossa;
e ciò di viva spene fu
mercede: 108
di
viva spene, che mise la possa
ne’ prieghi fatti a Dio per
suscitarla,
sì che potesse sua voglia esser
mossa. 111
“...Traiano tornò in vita
dall’inferno, da dove mai si può tornare al bene, e ciò grazie alla
speranza (di san Gregorio Magno, il papa) che mise nelle sue preghiere
al Signore una forza capace di suscitare tale speranza, indirizzando la
volontà di lui (verso la fede)...”
L’anima glorïosa onde si
parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potëa
aiutarla; 114
e
credendo s’accese in tanto foco
di vero amor, ch’a la morte
seconda
fu degna di venire a questo gioco.
117
“... La gloriosa anima di Traiano,
tornata per poco tempo in vita, credette nell’aiuto del santo e nella
sua fede si accese di tale amore che, quando morì per la seconda volta,
meritò di salire fino a questa gioia...”
L’altra, per grazia che da sì
profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l’occhio infino a
la prima onda, 120
tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in
grazia, Dio li aperse
l’occhio a la nostra
redenzion futura; 123
ond’ ei credette in quella, e non sofferse
da indi il puzzo più del
paganesmo;
e riprendiene le genti perverse. 126
“...L’altra anima (Rifeo) per la
Grazia (divina) che sgorga da una da una fonte così profonda da non
poter essere mai conosciuta all’origine dalle creature, fu (in vita)
così profondamente giusta che ebbe dal Signore l’occhio aperto alla
Redenzione che ancora doveva compiersi; vi credette e rifiutò il
paganesimo, e ne rimproverò la sua gente...”
Quelle tre donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra
rota,
dinanzi al battezzar più d’un
millesmo. 129
O
predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli
aspetti
che la prima cagion non veggion tota!
132
“... Lo
battezzarono quelle tre donne (le Virtù teologali) che tu hai veduto
(nel Paradiso terrestre, v. Purgatorio canto XXIX, vv. 121-129) a destra
del carro, mille anni prima che ci fosse il battesimo. Coloro che non
possono comprendere interamente
la Prima cagion
(la Causa prima) certo non possono intendere le ragioni divine della
predestinazione!...”
Dei beati che formano l’occhio
dell’aquila (Daath del Chesed di Atziluth dantesco) vengono
particolarmente attenzionati due personaggi il primo e il quinto di
quelli che formano il ciglio: Traiano (= che trascina) e Rifeo (= il
maggiore), al primo abbiamo attribuito la Sephirah Hod (= Gloria, vv.
43-48), infatti la sua peculiarità consiste nell’esaltare la Giustizia e
nell’essere ‘morto due volte’, avendo conosciuto prima il Limbo e poi,
per le preghiere di san Gregorio (= il guardiano), anche il Paradiso; e
al secondo abbiamo attribuito le due Sephiroth Chockmah (Saggezza) e
Binah (= Comprensione; vv. 67-72), perché la sua supremazia consiste
nella conoscenza
della
Grazia divina, e nell’aver ricevuto il
battesmo
( dal greco ‘baptismos’ = immersione) dalle (nelle) tre Virtù teologali.
E voi, mortali, tenetevi
stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti
li eletti; 135
ed
ènne dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in
questo ben s’affina,
che quel che vole Iddio, e
noi volemo». 138
“...E voi mortali, state
attenti a non giudicare: noi, che possiamo vedere il Signore, pure non
sappiamo chi sono gli eletti; e questa limitazione ci è dolce, perchè la
nostra felicità aumenta nel volere solo la Sua Volontà”.
Così da quella imagine
divina,
per farmi chiara la mia corta vista,
data mi fu soave medicina.
141
E
come a buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la
corda,
in che più di piacer lo canto
acquista, 144
sì,
mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda
ch’io vidi le due luci
benedette,
pur come batter d’occhi si concorda,
147
con
le parole mover le fiammette.
Così
da quella figura divina viene donata al Nostro una dolce medicina per
chiarirgli la
corta vista (i suoi limiti). E come un buon
suonatore di cetra accompagnando un bravo cantante fa vibrare le corde
per rendere il canto più melodioso, così mentre l’aquila parla, Dante
vede le due luci (di quei due beati) muoversi concordi come un batter
d’occhi.
Il canto
della celebrazione della Giustizia divina termina con una esortazione a
tenersi stretti a giudicare, cioè a non giudicare
il Signore i cui disegni sono imperscrutabili per le creature, anche per
quelle che ormai Gli sono vicine perché beate. Tale insegnamento viene
considerato dal Nostro
medicina (dal sanscrito ‘medha’ = sapienza)
e infatti riceve l’approvazione di quelle particolari luci che
rappresentano la Gloria, la Saggezza e la Comprensione del suo centro
coscienziale, dell’occhio della sua Aquila Imperiale.
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