PARADISO - CANTO XX

 
Interpretazione cabalistica di Franca Vascellari
www.taote.it
www.taozen.it
www.teatrometafisico.it

 

 

Quando colui che tutto ’l mondo alluma
de l’emisperio nostro sì discende,
che ’l giorno d’ogne parte si consuma, 3

lo ciel, che sol di lui prima s’accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende; 6

e questo atto del ciel mi venne a mente,
come ’l segno del mondo e de’ suoi duci
nel benedetto rostro fu tacente; 9

però che tutte quelle vive luci,
vie più lucendo, cominciaron canti
da mia memoria labili e caduci. 12
Quando l’astro che illumina tutto il mondo scende (sotto la linea dell’orizzonte) e il giorno muore, il cielo prima inondato dalla luce del sole, ridiventa visibile per quelle luci che riflettono il suo fulgore: questo mutamento del cielo viene in mente al Nostro quando il benedetto rostro (dell’aquila), insegna dell’impero e dei re, cessa di parlare, mentre tutte le luci (dei beati) sempre più splendenti, iniziano dei canti che però sfuggono alla sua memoria.

 

 Il mutamento è la Legge che governa il mondo dove ogni cosa, scorrendo nello spazio-tempo, cambia in continuazione. Nel testo taoista ‘I King’, che significa ‘Libro (= king o ching) dei Mutamenti (= I)’ l’alternanza del chiaro e dello scuro, del sole diurno e delle stelle notturne viene descritta assai bene nel commento confuciano all’esagramma 22 l’Avvenenza (I King  ed. Astrolabio pag. 137): ‘ Nella natura si vede nel cielo la forte luce del sole. Su ciò si fonda la vita del mondo. Ma questa cosa forte, essenziale, è trasformata e va incontro a leggiadre variazioni per mezzo della luna e delle stelle (v. in www.taozen.it I Ching e musica ns/ relativo commento). Dante paragona la ‘Bellezza’ dell’alternanza giorno-notte terrestre al paradisiaco quadro dell’aquila-sole parlante che alterna i suoi insegnamenti al canto delle luci splendenti dei beati-stelle; ma mentre può ricordare le parole dell’aquila, non riesce invece a ricordare quelle del canto dei beati. Perchè? Probabilmente perché l’aquila parla solo per lui, per istruirlo, come il sole illumina la terra per darle la vita, mentre i beati fanno da sfondo e cantano per manifestare la loro beatitudine e la gloria del Signore, proprio come fanno le stelle in cielo.
O dolce amor che di riso t’ammanti,
quanto parevi ardente in que’ flailli,
ch’avieno spirto sol di pensier santi! 15

Poscia che i cari e lucidi lapilli
ond’ io vidi ingemmato il sesto lume
puoser silenzio a li angelici squilli, 18

udir mi parve un mormorar di fiume
che scende chiaro giù di pietra in pietra,
mostrando l’ubertà del suo cacume. 21
O Amore che ti vesti di letizia, quanto risplendi in quelle luci ispirate solo da santità! Poi Dante ode le care gemme che ornano il sesto cielo (di Giove) tacere, ed ecco che gli sembra di sentire come il mormorio di una cascata che scende di pietra in pietra mostrando l’ubertà  (dal sanscrito ‘udhar’ = mammella) del suo cacume (= dal sanscrito ‘kakud’ = punta), la ricchezza della cima della sorgente.

E come suono al collo de la cetra
prende sua forma, e sì com’ al pertugio
de la sampogna vento che penètra, 24

così, rimosso d’aspettare indugio,
quel mormorar de l’aguglia salissi
su per lo collo, come fosse bugio. 27
E come il suono prende forma nella parte alta della cetra o dall’aria che penetra nel foro della zampogna, così, senza ulteriori indugi, quel mormorio sale per il collo dell’aquila come se fosse bugio (da radice germanica ‘bug’ = incavato, bucato, vuoto).
Fecesi voce quivi, e quindi uscissi
per lo suo becco in forma di parole,
quali aspettava il core ov’ io le scrissi. 30

«La parte in me che vede e pate il sole
ne l’aguglie mortali», incominciommi,
«or fisamente riguardar si vole, 33

perché d’i fuochi ond’ io figura fommi,
quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,
e’ di tutti lor gradi son li sommi. 36
Quel mormorio poi si fa voce ed esce dal becco in forma di parole, proprio quelle attese dal cuore del Nostro che ve le imprime. E comincia a dire : “Ora devi fissare lo sguardo in quella parte di me che nelle aquile terrestri vede e sopporta la vista del sole, perché delle luci che compongono la mia figura quelle che formano il mio occhio (da radice indoeuropea ‘ak’ = che penetra) splendente sono in assoluto le più luminose...”

 

Allorché i beati tacciono, di nuovo l’aquila è pronta a nutrire (allattare) Dante con altri insegnamenti come un fiume che mostra l’ubertà (= mammella) del suo cacume col mormorio dell’acqua che dall’alto precipita in basso. Essa gli ordina di porre l’attenzione sul suo occhio (che penetra e intuisce, relativo alla Sephirah Daath), perchè lì si trova il massimo dello splendore del cielo di Giove, della Sephirah Chesed del piano Atzilutico del Nostro.
Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l’arca traslatò di villa in villa: 39

ora conosce il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio,
per lo remunerar ch’è altrettanto. 42
“...Colui che irradia dalla pupilla fu il menestrello dello Spirito Santo, che trasportò l’arca di città in città (David, re d’Israele, 1030-970 a. C.; trasferì l’Arca con le tavole della Legge da Gabaon a Gerusalemme; 1 Cronache 13 -15; v. in
www.teatrometafisico.it copioni, sceneggiature bibliche ‘David’ e relativa interpretazione cabalistica): ora egli conosce il merito del suo canto (i Salmi), frutto del suo libero volere, dalla giusta ricompensa ricevuta: la beatitudine ...”

 

Il centro Daatico (l’occhio) dell’aquila è formato da un Albero di re santi e beati che si contrappongo ai re neri del canto precedente (vv. 115-148); David (= l’amato), il cantore divino, il salmista, che irradia dal centro dell’occhio ne rappresenta il cuore ed è relativo alla Sephirah Tiphereth.
Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s’accosta,
la vedovella consolò del figlio: 45

ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l’esperïenza
di questa dolce vita e de l’opposta. 48
“... Dei cinque spiriti che formano l’arco del mio ciglio, il più vicino al becco è colui che ha reso giustizia alla vedova per il figlio (è Traiano; imperatore dal 97 al 117; si dice che, già morto, sia tornato in vita dal Limbo per essere battezzato da papa Gregorio Magno; v. Purgatorio canto X, vv. 76 ss. e relativo commento); egli (avendo provato l’inferno), conosce per esperienza sia la sofferenza di non essere un seguace del Cristo, sia la beatitudine di esserlo (ora sta in Paradiso)...”

 

Traiano (= che trascina) che ha conosciuto sia l’inferno che il Paradiso, battezzato dal papa Gregorio (= guardiano) Magno, può essere omologato alla Sephirah Hod (= Gloria, Splendore).
E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per l’arco superno,
morte indugiò per vera penitenza: 51

ora conosce che ’l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de l’odïerno. 54
“...Il seguente beato nell’arco (del ciglio) di cui parlo, ottenne (dal Signore) di rinviare la morte per far penitenza (è Ezechia, re di Giuda dal 725 al 659 a. C.); ora egli conosce che il giudizio divino non muta, quando una giusta preghiera sulla terra rimanda a domani ciò che dovrebbe accadere oggi...”

 

Ezechia (= il forte del Signore) che è riuscito a ritardare la sua morte per far penitenza, può essere omologato alla Sephirah Yesod.
L’altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco: 57

ora conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
avvegna che sia ’l mondo indi distrutto. 60
“...L’altro che viene dopo, con me e le leggi si trasferì nel mondo greco (è Costantino; 274-337; che trasferì a Bisanzio la capitale dell’Impero Romano concedendo al papa la donazione dei beni temporali; v. Purgatorio canto XXXII, vv. 124-129 e relativo commento; per Dante questa è l’origine della confusione dei poteri universali e l’inizio della decadenza); ora egli conosce che il male derivato dal suo buon agire non gli ha recato danno, anche se il mondo è andato in rovina...”

 

Costantino (= il tenace nella fede), da cui deriva la confusione dei poteri universali (la caduta dell’Impero), può essere omologato alla Sephirah Geburah.
E quel che vedi ne l’arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo: 63

ora conosce come s’innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora. 66
“... Quello che vedi nella curva discendente (dell’arco del ciglio) è Guiglielmo (= che è protetto dalla volontà; 1166-1189, d’Altavilla, re della Sicilia e dell’Italia meridionale) terre che si lamentano per i re ora vivi: Carlo (= forte al bianco, debole al nero; II d’Angiò) e Federigo (= potente in pace, al bianco, debole in guerra, al nero): ora conosce che il cielo ama il re giusto e lo mostra col suo splendore...”

 

Dopo viene Guiglielmo (= che è protetto dalla volontà); questo beato sovrano conosce che il cielo s’innamora dello giusto rege e può essere omologato alla Sephirah Chesed.
Chi crederebbe giù nel mondo errante,
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante? 69

Ora conosce assai di quel che ’l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo». 72
“...Chi mai crederebbe in terra, dove si commettono gli errori, che la quinta di quelle sante luci (dell’arco del ciglio dell’aquila) sia Rifëo (= personaggio dell’Eneide, morto difendendo Troia, definito da Virgilio ‘il più rispettoso dell’equità’)? Egli conosce, anche se solo parzialmente, ciò che il mondo non sa della Grazia divina”.

 

Infine il troiano (co)Rifeo (= il maggiore) che conosce la divina Grazia  come nessuno al mondo, può essere omologato alle Sephiroth Chockmah (Saggezza) e Binah (Comprensione).
Quale allodetta che ’n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l’ultima dolcezza che la sazia, 75

tal mi sembiò l’imago de la ’mprenta
de l’etterno piacere, al cui disio
ciascuna cosa qual ell’ è diventa. 78
Come l’allodola che volando prima canta poi si tace paga della dolcezza del suo canto, altrettanto sembra fare l’aquila, simbolo di eterna beatitudine (nella visione del Signore) in cui ogni cosa diviene perfetta (come deve essere).

 

L’allodola, animale considerato solare perché quando canta si alza alto in cielo, è omologata all’alba e alla gioia; paragonare l’aquila all’allodola può sembrare riduttivo, ma il Nostro ne mette in evidenza la ‘dolcezza’ qualità che non sembra a prima vista appartenere all’aquila, tuttavia questa Daatica Aquila celeste nella visione beatifica realizza ogni perfezione e perciò deve avere sviluppato anche la soavità.
E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio
lì quasi vetro a lo color ch’el veste,
tempo aspettar tacendo non patio, 81

ma de la bocca, «Che cose son queste?»,
mi pinse con la forza del suo peso:
per ch’io di coruscar vidi gran feste. 84
Benché (per l’aquila) Dante sia, relativamente al suo dubbio, trasparente come un vetro per il colore che lo ricopre, essa tuttavia non tollera la sua attesa, ma gli fa uscire con forza dalla bocca: “Che significa questo?” Intanto egli vede aumentare lo splendore delle luci.

 

Se le Sacre Scritture dicono che senza la conoscenza del Cristo non è possibile la salvezza, allora perché due pagani stanno in cielo? E’ questa la domanda che Dante pone all’aquila, anzi, che l’aquila gli estrae dalla bocca; a tale domanda anche ognuno di noi cercherà di rispondere, magari da un punto di vista interiorizzato. E come i beati del sesto cielo, che formano il simbolo dell’aquila imperiale, felici di appagare il desiderio di conoscenza del Nostro, aumentano la loro luce, così anche noi, se riusciremo a risponderci esaurientemente, sentiremo accrescere la nostra gioia.

Per noi, cioè dal nostro punto di vista, tutto dipende dal significato che si vuol dare al ‘Cristo’. Se per Cristo si intende solamente il personaggio storico di cui parlano i Vangeli, nato due millenni or sono, e se per fede Lo si considera l’Unico Figlio di Dio, da cui dipende la salvezza dell’umanità e la Redenzione, allora se non Lo si è conosciuto, perché vissuti prima della Sua venuta, o perchè non si è venuti a contatto con la religione cristiana, la salvezza diventa impossibile, salvo eccezioni (accettabili solo per fede, come quelle di Rifeo e di Traiano, che per i loro meriti si salvano, confermando la regola). Ma se per ‘Cristo’ si intende il Cristo interiore, l’Io Sono, Daath, La Coscienza, che deve essere sviluppata in noi come consapevolezza di essere Figli dell’Assoluto, allora la ‘salvezza’ diventa possibile anche per chi non ha conosciuto il personaggio storico di Gesù il Cristo.

Nella Bhagavad Gita (ed. Società Teosofica Italiana –Trieste, 1975) canto IV vv. 5-8, Krisna, che rappresenta il Cristo di Arjuna, Discepolo sul Sentiero come Dante, dice: ‘Molte vite tu ed Io abbiamo lasciato dietro di noi, o Arjuna. Io le conosco tutte, ma tu non le conosci. Quantunque non nato, di natura indistruttibile, Signore di tutte le creature, pure, dominando la Mia natura, per mezzo del mio potere di Maya (= illusione) mi rivesto di un corpo. Ogni qualvolta vi è decadenza nella religione e ascendenza dell’empietà, Io mi manifesto. Per proteggere i buoni, per distruggere i malvagi e a fine di stabilire fermamente la religione, Io mi incarno di età in età’. (v. in www.taozen.it Testi sacri il relativo commento).

Per la Kabbalah il Cristo, l’Unto, il ‘Mashiach’, il Redentore, verrà all’inizio di un’era di pace e di generale illuminazione e sarà preceduto da un altro ‘Mashiach’ che compirà le opere di ‘tikkun’ (riparazione); con loro inizierà l’era dell’Acharit ha-Jamjim (della Fine dei Giorni), in cui tutta l’umanità verrà sottoposta al Giudizio Finale; ad essa seguirà l’Era Messianica, in cui il male sarà definitivamente sconfitto. Questo il percorso collettivo; ma esiste un percorso individuale con le stesse tappe: allorché la personalità (Malkuth) recuperando tutta l’energia delle qelipoth (i vizi), avrà operato il suo personale tikkun sviluppando in sé le Sephiroth (le virtù) e in particolare la Sephirah Daath, verrà personalmente sottoposta al Giudizio e, una volta superato, potrà vivere la sua Era Messianica, il suo Paradiso, proprio come Arjuna o Dante.
Poi appresso, con l’occhio più acceso,
lo benedetto segno mi rispuose
per non tenermi in ammirar sospeso: 87

«Io veggio che tu credi queste cose
perch’ io le dico, ma non vedi come;
sì che, se son credute, sono ascose. 90

Fai come quei che la cosa per nome
apprende ben, ma la sua quiditate
veder non può se altri non la prome. 93
Subito dopo con l’occhio ancora più luminoso il benedetto simbolo (dell’aquila) per non tenerlo in sospeso nello stupore gli risponde: “Io vedo che tu credi alle mie parole, ma non ne intendi il significato, perciò ti paiono incomprensibili. Fai come quello che impara (a memoria) il nome di una cosa, ma non ne capisce la quidditate, (dal latino ‘quid est’= che cosa è?) cioè il senso, se un altro non glielo spiega...”

 

L’aquila cerca di spiegare ‘perché’ i due pagani si trovano beati in cielo, vale a dire: la Coscienza cerca di far comprendere alla personalità il perché delle eccezioni rispetto alla regola, cercando di farle penetrare il ‘quid’ della Giustizia divina.
Regnum celorum vïolenza pate
da caldo amore e da viva speranza,
che vince la divina volontate: 96

non a guisa che l’omo a l’om sobranza,
ma vince lei perché vuole esser vinta,
e, vinta, vince con sua beninanza. 99
“...Il Regno dei cieli subisce la violenza dell’amore impetuoso e dell’ardente speranza che vincono la volontà divina (cfr. Matteo 11, 12: ‘...il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono’ e relativa ns/ interpretazione cabalistica in
www.taozen.it Testi sacri): ma non come l’uomo soverchia l’uomo; la volontà divina si fa vincere perché vuole essere vinta, e vinta, vince con la sua bontà....”
La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
la regïon de li angeli dipinta. 102

D’i corpi suoi non uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
quel d’i passuri e quel d’i passi piedi. 105
“...Ti stupisci di trovare nella regione degli angeli (qui, Traiano e Rifeo) il primo e il quinto spirito che formano il mio ciglio. Ma quando sono morti non erano Gentili (dal latino ‘gentes’, popoli di altre religioni, cioè pagani) ma Cristiani, ai piedi della Croce, di Fede certa: uno (Rifeo) nel Cristo che avrebbe patito, l’altro (Traiano) nel Cristo che aveva già patito...”

 

 Viene qui messa in evidenza per la salvezza di Traiano e Rifeo la passione (passata per l’imperatore, e futura per il trioano) del Cristo, in cui i due beati credettero. Aldilà del significato letterale e simbolico della ‘passione e morte’ del Cristo storico che ci viene insegnata nella religione, come interiorizzare tali eventi nell’ottica del percorso di redenzione individuale? Probabilmente possiamo ipotizzare che il Cristo interiore, la Coscienza, Daath, voglia ‘soffrire’ o S’offrire (offrirSi) alla personalità per una Sua volontaria conoscenza del ‘male’ che essa agendo male procura a sé e agli altri. ‘Passione’ (da patire) indica sofferenza e travaglio, corrisponde alla macerazione che deve subire il seme (albero potenziale) nella terra per nascere pianta, ed il seme deve morire al suo essere seme per svilupparsi in pianticella e diventare albero (v. in www.taozen ‘I Ching e musica’ il racconto n. 3 ‘Il difficile inizio’). Si diventa ‘Coscienza’ solo attraverso un volontario graduale processo di purificazione.  Inoltre dobbiamo intendere ‘morte’ (da una radice indoeuropea ‘mer’ che indica il ‘cessare’ di un qualcosa e il mutare in un’altra), come ‘passaggio’ coscienziale dallo stato fisico ad un altro diverso, più sottile: astro-mentale-spirituale. La ‘morte’ in croce può indicare il sacrificio dei quattro elementi del piano fisico, e la loro sublimazione e trascendenza nel centro, punto di perfezione e di conciliazione dei contrari; e come già detto altre volte, la realizzazione dell’ unione della terra con il cielo (= ascesa spirituale, braccio verticale della croce) nell’attuazione del servizio reso nel sociale (allargamento altruistico, braccio orizzontale della croce).
Ché l’una de lo ’nferno, u’ non si riede
già mai a buon voler, tornò a l’ossa;
e ciò di viva spene fu mercede: 108

di viva spene, che mise la possa
ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,
sì che potesse sua voglia esser mossa. 111
“...Traiano tornò in vita dall’inferno, da dove mai si può tornare al bene, e ciò grazie alla speranza (di san Gregorio Magno, il papa) che mise nelle sue preghiere al Signore una forza capace di suscitare tale speranza, indirizzando la volontà di lui (verso la fede)...”
L’anima glorïosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potëa aiutarla; 114

e credendo s’accese in tanto foco
di vero amor, ch’a la morte seconda
fu degna di venire a questo gioco. 117
“... La gloriosa anima di Traiano, tornata per poco tempo in vita, credette nell’aiuto del santo e nella sua fede si accese di tale amore che, quando morì per la seconda volta, meritò di salire fino a questa gioia...”

L’altra, per grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l’occhio infino a la prima onda, 120

tutto suo amor là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
l’occhio a la nostra redenzion futura; 123

ond’ ei credette in quella, e non sofferse
da indi il puzzo più del paganesmo;
e riprendiene le genti perverse. 126
“...L’altra anima (Rifeo) per la Grazia (divina) che sgorga da una da una fonte così profonda da non poter essere mai conosciuta all’origine dalle creature, fu (in vita) così profondamente giusta che ebbe dal Signore l’occhio aperto alla Redenzione che ancora doveva compiersi; vi credette e rifiutò il paganesimo, e ne rimproverò la sua gente...”
Quelle tre donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra rota,
dinanzi al battezzar più d’un millesmo. 129

O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota! 132
“... Lo battezzarono quelle tre donne (le Virtù teologali) che tu hai veduto (nel Paradiso terrestre, v. Purgatorio canto XXIX, vv. 121-129) a destra del carro, mille anni prima che ci fosse il battesimo. Coloro che non possono comprendere interamente la Prima cagion (la Causa prima) certo non possono intendere le ragioni divine della predestinazione!...”

 

Dei beati che formano l’occhio dell’aquila (Daath del Chesed di Atziluth dantesco) vengono particolarmente attenzionati due personaggi il primo e il quinto di quelli che formano il ciglio: Traiano (= che trascina) e Rifeo (= il maggiore), al primo abbiamo attribuito la Sephirah Hod (= Gloria, vv. 43-48), infatti la sua peculiarità consiste nell’esaltare la Giustizia e nell’essere ‘morto due volte’, avendo conosciuto prima il Limbo e poi, per le preghiere di san Gregorio (= il guardiano), anche il Paradiso; e al secondo abbiamo attribuito le due Sephiroth Chockmah (Saggezza) e Binah (= Comprensione; vv. 67-72), perché la sua supremazia consiste nella conoscenza  della Grazia divina, e nell’aver ricevuto il  battesmo ( dal greco ‘baptismos’ = immersione) dalle (nelle) tre Virtù teologali.
E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti li eletti; 135

ed ènne dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben s’affina,
che quel che vole Iddio, e noi volemo». 138
“...E voi mortali, state attenti a non giudicare: noi, che possiamo vedere il Signore, pure non sappiamo chi sono gli eletti; e questa limitazione ci è dolce, perchè la nostra felicità aumenta nel volere solo la Sua Volontà”.
Così da quella imagine divina,
per farmi chiara la mia corta vista,
data mi fu soave medicina. 141

E come a buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista, 144

sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda
ch’io vidi le due luci benedette,
pur come batter d’occhi si concorda, 147

con le parole mover le fiammette.

 Così da quella figura divina viene donata al Nostro una dolce medicina per chiarirgli la corta vista (i suoi limiti). E come un buon suonatore di cetra accompagnando un bravo cantante fa vibrare le corde per rendere il canto più melodioso, così mentre l’aquila parla, Dante vede le due luci (di quei due beati) muoversi concordi come un batter d’occhi.

 

Il canto della celebrazione della Giustizia divina termina con una esortazione a tenersi stretti a giudicare, cioè a non giudicare il Signore i cui disegni sono imperscrutabili per le creature, anche per quelle che ormai Gli sono vicine perché beate. Tale insegnamento viene considerato dal Nostro medicina (dal sanscrito ‘medha’ = sapienza) e infatti riceve l’approvazione di quelle particolari luci che rappresentano la Gloria, la Saggezza e la Comprensione del suo centro coscienziale, dell’occhio della sua Aquila Imperiale.



Indietro