PARADISO - CANTO XXI
Interpretazione cabalistica di Franca
Vascellari
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Già eran li occhi miei rifissi al
volto
de la mia donna, e l’animo con essi,
e da ogne altro intento
s’era tolto. 3
E
quella non ridea; ma «S’io ridessi»,
mi cominciò, «tu ti faresti
quale
fu Semelè quando di cener fessi: 6
ché
la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più
s’accende,
com’ hai veduto, quanto più si sale,
9
se
non si temperasse, tanto splende,
che ’l tuo mortal podere, al
suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende.
12
Appena l’aquila ha terminato di
parlare Dante volge gli occhi a Beatrice, tralasciando ogni altro
interesse. Ma la sua Donna non gli sorride come al solito, e dice: “Se
ti mostrassi tutta la mia beatitudine tu faresti la fine di
Semele (= da termine frigio ‘Semelo’ = dea Terra)
perché la mia bellezza cresce man mano che ascendiamo nei cieli più
alti; se io non velassi il mio fulgore, la tua umanità (il tuo corpo)
diverrebbe come un fronda colpita dal fulmine...”
Semele
(= terra), figlia di Cadmo e di Ermione, fu amata da Zeus e concepì
Dioniso; la gelosa Era, travestita, la convinse a chiedere al dio di
mostrarsi a lei in tutto il suo splendore: fu incenerita dalla visione.
Beatrice e questo mito ci insegnano che dobbiamo accontentarci di
ricevere quella ‘corrente’, quell’energia (fisica, astro-mentale o
spirituale) che la nostra ‘terrestrità’ può sopportare, perché una
potenza superiore alla nostra portata farebbe saltare le nostre
‘valvole’, provocando ‘ustioni’ nei vari piani... Ma il mito ha un
seguito: il figlio Dioniso, nato prematuramente tra le fiamme, fu
salvato dal Padre e divenne un dio; adulto, si recò nell’Ade e recuperò
la madre, che fu accolta nell’Olimpo come dea, col nome di Tione che
significa ‘l’Esaltata’. Questa seconda parte del mito ci insegna pure
che se la ‘terra’, fecondata dal ‘Padre degli dei’, ha concepito il
Figlio, sarà lui a salvare la madre. Ma è sicuramente un modo poco
ortodosso e assai doloroso per giungere all’‘Esaltazione’, conviene
quindi a tutti e a Dante (= il Discepolo che persevera) in particolare,
che Beatrice
non rida
troppo e non mostri la sua beatitudine tutta insieme.
Noi sem levati al settimo splendore,
che sotto ’l petto del Leone
ardente
raggia mo misto giù del suo valore.
15
Ficca di retro a li occhi tuoi la mente,
e fa di quelli specchi a la
figura
che ’n questo specchio ti sarà
parvente». 18
“...
Noi ci siamo
innalzati al settimo cielo (di Saturno, dove si trovano i beati spiriti
contemplanti) che in questo momento è in congiunzione con il segno del
Leone. Guarda dunque con attenzione e fa da specchio a ciò che ti
apparirà qui riflesso”.
L’accenno alla congiunzione di Saturno,
dagli influssi ‘freddi’, con il segno del Leone dal ‘calore ardente’,
viene considerato dai vari commentatori come una necessità di Dante di
contemperare la vita contemplativa (fredda) con quella attiva (calda),
in una sorta di ‘conciliazione degli opposti’; interpretazione assai
valida, infatti Pier Damiani, il personaggio che lui incontra in questo
cielo, oltre ad essere un eremita dedito alla contemplazione (freddo),
ha lasciato numerose opere in cui condanna la corruzione del mondo e la
decadenza degli ordini religiosi con grande spirito combattivo (caldo).
Qual savesse qual era la pastura
del viso mio ne l’aspetto
beato
quand’ io mi trasmutai ad altra cura,
21
conoscerebbe quanto m’era a grato
ubidire a la mia celeste
scorta,
contrapesando l’un con l’altro lato.
24
Chi comprende la pienezza di felicità
che prova Dante nella visione dell’amata, capisce anche quanto, nel
paragone delle due cose, gli sia gradito ubbidirle.
Dentro al cristallo che ’l
vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro
duce
sotto cui giacque ogne malizia morta,
27
di
color d’oro in che raggio traluce
vid’ io uno scaleo eretto in
suso
tanto, che nol seguiva la mia luce.
30
Vidi anche per li gradi scender giuso
tanti splendor, ch’io pensai
ch’ogne lume
che par nel ciel, quindi fosse
diffuso. 33
Nella sfera cristallina che porta il nome di quel dio (Saturno)
nel cui regno (era il tempo dell’età dell’oro) non esisteva (ancora) la
malizia umana, il Nostro vede, in un raggio di luce dorata, una scala
che sale a perdita d’occhio. E vede anche scendere tante di quelle luci
da fargli pensare che lì si siano radunate tutte le stelle del cielo.
Allorché la
personalità (Dante) obbedisce gioiosamente alla sua intuizione
(Beatrice) nel centro Daatico (situato nel mezzo delle sopracciglia, che
è il Malkuth dell’Albero del Piano Spirituale) scende una scala di luce
dorata la cui cima si perde nell’infinito. L’esperienza della visione
infinita della luce di Daath può essere descritta solo con un’immagine
infinita, quella delle stelle del cielo. Ma come riuscire a descrivere
la Grazia che scaturisce dal centro dell’Io Sono?
E come, per lo natural costume,
le pole insieme, al
cominciar del giorno,
si movono a scaldar le
fredde piume; 36
poi
altre vanno via sanza ritorno,
altre rivolgon sé onde son
mosse,
e altre roteando fan soggiorno; 39
tal
modo parve me che quivi fosse
in quello sfavillar che
’nsieme venne,
sì come in certo grado si percosse.
42
E come, per istinto, le
pole
all’alba si muovono insieme per scaldarsi, poi alcune vanno e non
tornano, altre vanno e tornano, altre ancora restano dove sono,
ruotando, così a Dante appare il luccichio di quelle luci giunte ad un
certo gradino.
Il paragone
con le pole
(cornacchie) non ci è parso tanto paradisiaco,
perché le pole,
in dialetto veneto, sono proprio le taccole o cornacchie; qualche
commentatore ha cercato trasformarle in colombe e ha visto in esse e nei
loro diversi movimenti l’allusione ai vari tipi di gruppi monastici come
per es. i cenobiti, gli eremiti, i girovaghi ecc., tuttavia la loro
super attività nel Luogo della Contemplazione resta sempre un tentativo
di conciliazione degli opposti, in sintonia col ‘Saturno in congiunzione
col Leone’ dei vv. 13-15.
E quel che presso più ci si
ritenne,
si fé sì chiaro, ch’io dicea
pensando:
’Io veggio ben l’amor che tu
m’accenne. 45
Ma
quella ond’ io aspetto il come e ’l quando
del dire e del tacer, si
sta; ond’ io,
contra ’l disio, fo ben ch’io non
dimando’. 48
Per ch’ella, che vedëa il tacer mio
nel veder di colui che tutto
vede,
mi disse: «Solvi il tuo caldo disio».
51
Poi una di loro, la più vicina a lui,
diventa tanto luminosa da fargli pensare che gli sta mostrando il suo
amore. Ma poiché Quella da cui si aspetta le direttive tace, pur
desiderando porre una domanda, non lo fa. Allora (Beatrice) che vede il
suo silenzio con la Vista che tutto vede, gli dice: “esaudisci il tuo
desiderio”.
E io incominciai: «La mia
mercede
non mi fa degno de la tua risposta;
ma per colei che ’l chieder
mi concede, 54
vita beata che ti stai nascosta
dentro a la tua letizia,
fammi nota
la cagion che sì presso mi t’ha
posta; 57
e
dì perché si tace in questa rota
la dolce sinfonia di
paradiso,
che giù per l’altre suona sì divota».
60
Allora Dante così comincia a dire:
“Il mio merito non è degno di risposta, ma per colei che mi concede di
parlare, o essere beato nascosto dalla luce della tua beatitudine, fammi
conoscere il motivo del tuo avvicinamento; e dimmi anche perché qui non
si ode la celestiale musica piena di devozione che si ode negli altri
cieli”.
Ottenuto il
permesso di parlare il Nostro chiede alla luce che gli si è avvicinata
il perché
della sua discesa e
anche perché lì, a differenza degli altri cieli, i canti celestiali
tacciano. Tali domande sono pleonastiche. In realtà egli sa benissimo
che quella Luce gli viene incontro proprio per rispondere alle sue
domande e quelle domande, che contengono già le risposte, sono formulate
per poterci passare i suoi insegnamenti; inoltre egli sa benissimo che
il Silenzio (esteriore ed interiore) è il presupposto per la
Contemplazione.
«Tu hai l’udir mortal sì
come il viso»,
rispuose a me; «onde qui non si canta
per quel che Bëatrice non ha
riso. 63
Giù
per li gradi de la scala santa
discesi tanto sol per farti
festa
col dire e con la luce che mi
ammanta; 66
né
più amor mi fece esser più presta,
ché più e tanto amor quinci
sù ferve,
sì come il fiammeggiar ti manifesta.
69
Ma l’alta carità, che ci fa serve
pronte al consiglio che ’l
mondo governa,
sorteggia qui sì come tu osserve». 72
Ed ecco la risposta: “Tu hai l’udito,
come la vista, di un mortale, e qui si tace per lo stesso motivo per cui
Bëatrice
non ha riso (non ti ha mostrato
completamente la sua beatitudine); sono sceso giù per i gradini di
questa santa scala solo per accoglierti con le mie parole e la mia luce;
non è il mio amore maggiore di quello degli altri beati, qui ve ne sono
di uguali a me e di più risplendenti, come vedi dal loro fiammeggiare.
Ma la sublime Carità che ci pone a servizio, ci rende disposti ad
ubbidire a Chi governa il mondo, secondo i nostri compiti, come puoi
osservare qui...”
La parola
chiave di questi versi ci sembra quel
sorteggia riferito all’alta
carità: è affrontato qui in modo nuovo il tema
della predestinazione e quindi del libero arbitrio. La parola
sorte
deriva dal latino ‘serere’ = legare; gli antichi indovini
lanciavano in aria dei piccoli legni, legati da una corda, che cadendo
formavano il disegno da interpretare. La ‘sorte’ può essere omologata al
destino (= Fato, Moira) che non dipende dalla creatura né dalla volontà
degli dei, ma da una Legge Superiore inconoscibile; i compiti della
creatura (beata e non) vengono stabiliti dall’Amore divino secondo un
disegno che deve essere da essa accettato solo per amore. Il suo libero
arbitrio consiste proprio nell’aderire liberamente e umilmente alla Sua
Volontà.
«Io veggio ben», diss’ io,
«sacra lucerna,
come libero amore in questa
corte
basta a seguir la provedenza etterna;
75
ma
questo è quel ch’a cerner mi par forte,
perché predestinata fosti
sola
a questo officio tra le tue
consorte». 78
E Dante: “Io comprendo bene o
santa luce, che è il libero amore che in questo regno fa seguire la
Volontà divina; ma quello che non capisco è perché proprio tu sei
destinata a questo compito”.
Né venni prima a l’ultima
parola,
che del suo mezzo fece il lume
centro,
girando sé come veloce mola; 81
poi
rispuose l’amor che v’era dentro:
«Luce divina sopra me
s’appunta,
penetrando per questa in ch’io
m’inventro, 84
la
cui virtù, col mio veder congiunta,
mi leva sopra me tanto,
ch’i’ veggio
la somma essenza de la quale è munta.
87
Egli non ha terminato di parlare che
subito quella luce fa perno sul suo centro ruotando veloce come una
macina, poi piena d’amore risponde: “ Sopra di me si concentra una Luce
divina che penetra questa in cui mi nascondo, la sua Virtù m’innalza
tanto che io posso vedere il Principio da cui deriva...”
La
personalità non è soddisfatta della spiegazione e insiste per sapere
perché ‘quella’ Luce e non un’altra scende dal cielo in una certa
situazione, cioè perché alcuni piuttosto che altri sono predestinati a
svolgere determinati compiti, e quindi perché alcuni sono privilegiati
ed altri no. La risposta della Luce è una risposta di Luce. Nel momento
dell’incarico, se così si può dire, una Grazia scende sul predestinato e
in quello stato di Grazia egli conosce, nell’unità col suo Principio, la
Sua Volontà.
Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio;
per ch’a la vista mia,
quant’ ella è chiara,
la chiarità de la fiamma
pareggio. 90
Ma
quell’ alma nel ciel che più si schiara,
quel serafin che ’n Dio più
l’occhio ha fisso,
a la dimanda tua non
satisfara, 93
però che sì s’innoltra ne lo abisso
de l’etterno statuto quel
che chiedi,
che da ogne creata vista è scisso. 96
“...Da Lui deriva la
felicità che mi fa risplendere ed io m’illumino della stessa Luce che
ricevo. Ma neanche l’anima di chi è il più illuminato, neanche il
Serafino più vicino al Signore potrebbe rispondere alla tua domanda,
perché essa entra nella sfera dell’Abisso eterno che non è comprensibile
alla creatura...”
Come detto
altre volte, noi siamo convinti che, se si crede che il percorso
evolutivo di un’anima si svolga in una sola incarnazione e quindi con
una sola possibilità di reintegrazione, il Disegno divino sia, dal punto
di vista umano, davvero incomprensibile per le enormi palesi ingiustizie
che si possono scorgere su tutti i piani: ad alcuni viene elargito tanto
e ad altri poco o niente sia sul fisico che sull’astrale e sul mentale,
e anche sul piano spirituale.
Diventa
invece tutto molto più comprensibile con la teoria delle molteplici
nascite o reincarnazioni e con la vita intesa come scuola a più livelli
per arrivare allo sviluppo della Coscienza Cristica. Con tale teoria
(accettata da molte filosofie e religioni) si amplia l’orizzonte delle
possibilità umane e anche i concetti di predestinazione e di libero
arbitrio diventano molto più semplici e logici, e non meri atti di
fede... Ma forse c’è un modo per conciliare queste due teorie opposte, è
la similitudine con il tedoforo. Il compito del tedoforo è quello di
trasportare la ‘Luce’ da un posto ad un altro in un lavoro di squadra;
gli può toccare un percorso facile o difficile; può conoscere la natura
del percorso oppure no; può conoscere gli altri tedofori oppure no.
Crede in una sola incarnazione chi preferisce concentrarsi solo sul suo
compito, crede nelle molteplici incarnazioni chi vuole avere un punto di
vista più ampio, e cerca di conoscere i percorsi e i compagni di
squadra. Ma la sostanza non cambia: l’impegno del tedoforo a portare
avanti la Luce deve essere totale, allora il percorso diventa facile e
reintegrativo.
E al mondo mortal, quando tu
riedi,
questo rapporta, sì che non presumma
a tanto segno più mover li
piedi. 99
La
mente, che qui luce, in terra fumma;
onde riguarda come può là
giùe
quel che non pote perché ’l ciel
l’assumma». 102
“...E quando tornerai al
mondo dei mortali, questo riferisci, cosicché nessuno più
presumma
(osi) tanto. La mente che qui brilla, in terra è oscurata,
giudica dunque tu come sia possibile lì quello che non è possibile
neanche qui”.
Noi non
vorremmo presummere
tanto, ma forse ‘osiamo’ farlo perché non rischiamo il rogo per
eresia...
Sì mi prescrisser le parole sue,
ch’io lasciai la quistione e
mi ritrassi
a dimandarla umilmente chi fue. 105
«Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la
tua patria,
tanto che ’ troni assai suonan più
bassi, 108
e
fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è
consecrato un ermo,
che suole esser disposto a
sola latria». 111
Le parole del beato sono
così autorevoli che Dante tralascia la questione e umilmente gli chiede
solamente chi sia. “Tra i due mari d’Italia, non molto lontano da
Firenze sorgono delle cime tanto alte che i tuoni risuonano più in
basso, esse formano un monte che si chiama
Catria
(dal greco ‘katharos’ = puro), sotto di esso è consacrato un eremo (di
Fonte Avellana) destinato solo alla
latria
(dal greco ‘latreia’ = culto), alla contemplazione”.
Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse:
«Quivi
al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,
114
che
pur con cibi di liquor d’ulivi
lievemente passava caldi e
geli,
contento ne’ pensier contemplativi.
117
Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto
vano,
sì che tosto convien che si riveli.
120
Così ricomincia a parlare per la
terza volta quel beato dicendo: “Lì divenni costante nel servizio del
Signore; vi passai estati e inverni nutrendomi solo di cibi (vegetali)
conditi con olio, immerso nei pensieri contemplativi. Quel chiostro
produceva per il cielo molti devoti eremiti, ora è diventato sterile e
ciò va reso noto...”
In quel loco fu' io Pietro
Damiano,
e Pietro Peccator fu' ne la casa
di Nostra Donna in sul lito
adriano. 123
“...Lì, (nel chiostro di Fonte
Avellana) fui Pietro (= la pietra)
Damiano
(= domatore; 1007-1072) e nella casa di s. Maria (in Porto presso
Ravenna) sul lido adriatico, fui
Pietro Peccatore
(= che inciampa; dopo essere stato cardinale Pietro Damiani tornò in
convento, ma non fu lui, ma Pietro degli Onesti che si firmava anche
come Pietro Peccatore, a fondare quel monastero di s. Maria).
Ora noi
finalmente abbiamo saputo chi è la Luce che qui ammaestra il Discepolo
sul Sentiero: è
Pietro Damiano. Entriamo dunque nel significato del
nome: Pier Damiani, specchiatura del cielo di Saturno dantesco, vuol
dire ‘la pietra che domina’, quindi questa Luce viene ad essere la
‘pietra d’angolo’ o ‘testata d’angolo’ dell’Albero di questo cielo. La
pietra angolare, detta anche ‘chiave di volta’, è quella pietra a forma
di cuneo che chiude il vertice di un arco e serve a scaricare il peso
retto dall’arco sui pilastri laterali, fu inventata dagli Etruschi e i
Romani hanno costruito con questa tecnica muraria acquedotti, ponti,
anfiteatri ecc.. In Atti degli Apostoli 4, 11, s. Pietro, citando il
Salmo 117, 22 e Matteo 21, 42, dice del Cristo: ‘Questo Gesù è la Pietra
che, scartata da voi costruttori, (perché non l’avete riconosciuta) è
diventata testata d’angolo’. Pier Damiani (Pietra dominante, Pietra
d’angolo) è quindi relativo alla Sephirah Daath.
Saturno, il settimo
cielo che ora accoglie Dante corrisponde nella Kabbalah pure alla
Sephirah Daath che letteralmente significa ‘Conoscenza’ o meglio
‘Conoscenza della Coscienza’. Daath è chiamata anche la Sephirah occulta
perché tale resta fino a che non si producono le adatte condizioni che
la portano dallo stato potenziale a quello manifesto e realizzativo; la
sua posizione sull’Albero è nella colonna centrale dell’Equilibrio,
sopra Tiphereth (Bellezza) e sotto Kether (Corona); media gli influssi
dei Superni Chockmah (Saggezza), detto anche il Padre Supremo (Abba) e
Binah (Comprensione) detto anche la Madre Suprema (Ama); Daath è dunque
il Figlio, il Cristo, l’Io Sono, Colui che conosce Se Stesso, nella
prima Specchiatura di Kether (la Corona). Daath è anche il ‘Luogo’ della
Contemplazione, dell’età dell’Oro, del Silenzio che
corrisponde al giorno
del riposo, il giorno della settimana dedicato a Saturno, al
rinnovamento spirituale, cioè al Sabato, allo Shabbat. Lo Shabbat è la
più importante delle festività ebraiche, viene celebrato ogni settima
per adempiere al precetto biblico di Esodo 20, 8-11: ‘Ricordati del
giorno del sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni
tuo lavoro, ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tu
non farai alcun lavoro... perché in sei giorni il Signore ha fatto il
cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il
giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo
ha dichiarato sacro’.
(Per
l’interpretazione cabalistica dei giorni della creazione v. in
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testi sacri ns/
‘Commento alla Genesi’ capp. 1-2)
Poca vita mortal m’era
rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel
cappello,
che pur di male in peggio si
travasa.126
Venne Cefàs e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e
scalzi,
prendendo il cibo da qualunque
ostello. 129
Avevo ancora poco da vivere
quando fui nominato cardinale, carica che oggi sta andando di male in
peggio. Cefas
(s. Pietro) e il vaso dello Spirito Santo (s. Paolo) erano poveri e
sobri, e ricevevano il cibo per carità...”
Or voglion quinci e quindi chi
rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di
rietro li alzi. 132
Cuopron d’i manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott’
una pelle:
oh pazïenza che tanto sostieni!». 135
I cardinali di oggi, per quanto sono
grassi, vogliono essere sostenuti di qua e di là e vogliono anche che
qualcuno tenga loro lo strascico. Ricoprono se stessi e la loro
cavalcatura con un grande mantello, così ci sono due bestie sotto il
drappo. Oh Pazienza divina che sopporti tanto!”
A questa voce vid’ io più fiammelle
di grado in grado scendere e
girarsi,
e ogne giro le facea più belle. 138
Dintorno a questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto
suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;
141
né
io lo ’ntesi, sì mi vinse il tuono.
A queste parole Dante vede tante altre
luci scendere (la scala) di gradino in gradino, ruotando e divenendo più
luminose ad ogni giro. Poi le vede fermarsi intorno a Pier Damiani, ed
erompere un altissimo grido, indescrivibile: infatti non lo ode, ma ne è
vinto (inebriato).
Dopo aver
lanciato un’ennesima invettiva contro i religiosi corrotti, vanitosi e
materialisti, riafferrato dall’esperienza spirituale, il Nostro la
conclude con un
grido altissimo, non udibile, con un suono non
suono, in cui si realizza la Daatica Saturnina ‘Coniunctio Oppositorum’.
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