PARADISO - CANTO XXII

 
Interpretazione cabalistica di Franca Vascellari
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Oppresso di stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
sempre colà dove più si confida;  3

e quella, come madre che soccorre
sùbito al figlio palido e anelo
con la sua voce, che ’l suol ben disporre,  6

mi disse: «Non sai tu che tu se’ in cielo?
e non sai tu che ’l cielo è tutto santo,
e ciò che ci si fa vien da buon zelo?  9
Pieno di stupore (per il suono-non suono altissimo emesso dai beati del cielo di Saturno) Dante si volge alla sua Guida, come un bimbo che ricorre a chi gli dà sempre fiducia; e Beatrice, come una madre che va in aiuto del suo piccolo che, pallido, ha bisogno di udire il conforto della sua voce, gli dice: “Non sai di essere in cielo, dove tutto è santo e ciò che accade proviene dal bene?...”

Come t’avrebbe trasmutato il canto,
e io ridendo, mo pensar lo puoi,
poscia che ’l grido t’ha mosso cotanto; 12

nel qual, se ’nteso avessi i prieghi suoi,
già ti sarebbe nota la vendetta
che tu vedrai innanzi che tu muoi. 15
“...Ora, dopo quel grido che ti ha tanto colpito, puoi capire che effetto ti farebbe udire (in questo cielo) il canto (di beatitudine degli spiriti) o vedere lo splendore del mio sorriso; pure, in quel grido di preghiera (causato dalla corruzione dei prelati) se l’avessi inteso, avresti conosciuto già la loro punizione, che si manifesterà prima della tua morte...”

 

In Paradiso ci si aspetterebbe di udire musiche celestiali, cori angelici e sovrumani silenzi, non grida altissime, tali da suscitare spavento, dobbiamo invece ricordare che esiste sempre nella manifestazione del Divino l’aspetto del ‘Tremendum’ che deve suscitare tremore e reverenza, ma che, per poter essere accolto necessita dell’apertura dell’Occhio e (dell’Orecchio) divino (= centro Daatico; v. in www.taozen.it Testi sacri  Commento alla Bhagavad Gita canto XI); il Nostro, pur trovandosi nel settimo cielo, quello di Saturno, relativo a Daath, essendo ancora vivo, non ha né l’occhio, né l’orecchio del tutto identificati con l’Occhio e l’Orecchio celesti, la sua Donna interiore lo sa e maternamente cerca di proteggerlo dalle vibrazioni di questo cielo ancora troppo alte per lui, e intanto cerca pure di consolarlo delle ingiustizie subite (confisca dei beni e condanna a morte del 1302) assicurandogli una vendetta prima che muoia.

La spada di qua sù non taglia in fretta
né tardo, ma’ ch’al parer di colui
che disïando o temendo l’aspetta.  18

Ma rivolgiti omai inverso altrui;
ch’assai illustri spiriti vedrai,
se com’ io dico l’aspetto redui».  21
“... La spada (della Giustizia) colpisce al momento giusto, senza occuparsi di chi la desidera o di chi l’aspetta con paura. Ma ora volgiti verso gli altri spiriti, ne vedrai di molto illustri, se vi poni l’attenzione, come ti dico”.

 

Anche se il Discepolo sul Sentiero è ‘al settimo cielo’, le preoccupazioni e le sofferenze dei piani inferiori possono sempre riportarlo in basso, in una zona di vibrazioni legata ai desideri e alle paure terrestri, a meno che non ci sia, come per Dante, una ‘Beatrice’ a riportarne l’attenzione sugli spiriti di luce, risintonizzando subito l’amato sull’onda spirituale.
Come a lei piacque, li occhi ritornai,
e vidi cento sperule che ’nsieme
più s’abbellivan con mutüi rai.  24

Io stava come quei che ’n sé repreme
la punta del disio, e non s’attenta
di domandar, sì del troppo si teme;  27

e la maggiore e la più luculenta
di quelle margherite innanzi fessi,
per far di sé la mia voglia contenta.  30
Secondo la volontà della Guida, Dante gira gli occhi e vede cento sfere di luce che s’illuminano a vicenda. Egli vorrebbe porre loro qualche domanda, ma non osa per paura di sbagliare; allora la più grande e più splendente di quelle margherite (= perle) gli si fa innanzi per accontentarlo.

Poi dentro a lei udi’: «Se tu vedessi
com’ io la carità che tra noi arde,
li tuoi concetti sarebbero espressi.  33

Ma perché tu, aspettando, non tarde
a l’alto fine, io ti farò risposta
pur al pensier, da che sì ti riguarde.  36
Egli ode provenire da quella luce queste parole (è s. Benedetto da Norcia che parla; 480- 547 d. C.): “Se tu potessi vedere (come me) l’Amore che tra noi arde, i tuoi pensieri si sarebbero già manifestati, ma perché tu non debba ritardare il momento del raggiungimento finale (l’esperienza della Visione divina), io risponderò (direttamente) al tuo pensiero, dato che non osi esprimerlo...”

 

Come già detto altre volte, per la Kabbalah il numero 100 è relativo all’Archetipo del Sole (v. in www.teatrometafisico.it  copioni la relativa Lezione-spettacolo) perciò qui le cento sperule illuminandosi a vicenda formano un ‘Sole’ (Tiphereth dell’Albero di Daath del piano Atzilutico), di cui la più splendente margherita (fiore che pure ricorda il Sole) come un cuore pieno di Carità, si offre al Nostro per rispondere alla sua domanda inespressa (chi sei?).
Quel monte a cui Cassino è ne la costa
fu frequentato già in su la cima
da la gente ingannata e mal disposta;  39

e quel son io che sù vi portai prima
lo nome di colui che ’n terra addusse
la verità che tanto ci soblima;  42

e tanta grazia sopra me relusse,
ch’io ritrassi le ville circunstanti
da l’empio cólto che ’l mondo sedusse.  45
“... Quel monte su cui sorge Cassino (dal sabino ‘cascum’ = antico) fu abitato da gente pagana e non disposta (al cristianesimo); fui io a portar loro per primo il Nome di Colui che ci ha donato la Verità; e la Sua Grazia  mi ha concesso di allontanare tanta gente da quell’empio culto (pagano) che ha sedotto il mondo...”
Questi altri fuochi tutti contemplanti
uomini fuoro, accesi di quel caldo
che fa nascere i fiori e ’ frutti santi.  48

Qui è Maccario, qui è Romoaldo,
qui son li frati miei che dentro ai chiostri
fermar li piedi e tennero il cor saldo».  51
“...Questi spiriti di luce, tutti dediti alla contemplazione, furono uomini accesi da quel fuoco d’Amore che genera fiori e frutti di santità. Qui si trovano  Maccario (= felice;  Macario di Alessandria, eremita del IV sec.) e Romoaldo (= glorioso; di Ravenna, 952-1027; fondatore dell’ordine dei Camaldolesi) e gli altri miei discepoli che divennero frati e rimasero fedeli alle regole del chiostro  (la base della regola benedettina è:  ‘ora et labora’ cioè, prega e lavora)”.

 

San Benedetto (= che è bene-detto e che bene-dice) si presenta a Dante come colui che ha convertito le genti di Cassino (= l’antico), portando (loro) la Conoscenza del Cristo; con lui si trovano Maccario (= felice) e Romoaldo (= glorioso) e tanti altri ‘benedettini’ dediti alla regola ‘ora et labora’. Questi personaggi possono essere interpretati come specchiature del Tiphereth (Sole) del Daath dantesco, che in lui si è sviluppato in ‘antico’, in tempi passati (forse in vite precedenti), allorché, conoscendo il Cristo, L’Io Sono, Daath ha accettato l’insegnamento fondamentale che fa diventare felici, gloriosi e soprattutto bene-detti e bene-dicenti, cioè: pregare e lavorare.
E io a lui: «L’affetto che dimostri
meco parlando, e la buona sembianza
ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri,  54

così m’ha dilatata mia fidanza,
come ’l sol fa la rosa quando aperta
tanto divien quant’ ell’ ha di possanza.  57

Però ti priego, e tu, padre, m’accerta
s’io posso prender tanta grazia, ch’io
ti veggia con imagine scoverta».  60
E Dante a lui: “L’affetto che mi dimostri parlandomi e la benevolenza che scorgo nelle vostre luci aumentano assai la mia fiducia, che è simile ad una rosa che il calore del sole fa schiudere totalmente. Però padre, ti prego, dimmi se io posso ricevere tanta grazia da vederti con imagine (= imago, da una radice ‘yem’ = doppio frutto, deriva il latino ‘imitari’, quindi: imitazione, copia) scoverta (= senza copertura) cioè in persona (dall’etrusco ‘phersu’ = maschera)”.

 

Dante ha dinanzi a sé la luce di s. Benedetto e invece di appagarsi di quella vorrebbe vederne l’immagine umana, la ‘copia scoperta’, cioè desidera vedere la ‘maschera’ di quella luce, ciò che la nasconde. Sembra quasi che egli voglia confermare quanto dichiarato da Beatrice nei vv. 10-12, che non è ancora in grado di sopportare la beatitudine di questo cielo; la sua richiesta ci ricorda i vv. 45-51 del Canto XI della Bhagavad Gita: Arjuna dopo aver contemplato il Signore Krisna nella Sua Forma suprema, piena di gloria, universale e infinita, turbato e intimorito, Gli chiede di tornare al suo solito aspetto umano. Arjuna viene subito esaudito da Krisna, Dante dal suo s. Benedetto invece no.
Ond’ elli: «Frate, il tuo alto disio
s’adempierà in su l’ultima spera,
ove s’adempion tutti li altri e ’l mio.  63

Ivi è perfetta, matura e intera
ciascuna disïanza; in quella sola
è ogne parte là ove sempr’ era,  66

perché non è in loco e non s’impola;
e nostra scala infino ad essa varca,
onde così dal viso ti s’invola.  69
E s. Benedetto a lui: “fratello, il tuo desiderio sarà esaudito nell’ultimo cielo (Empireo = cielo di Fuoco), dove tutti i desideri sono esauditi, anche il mio (di farti felice). Lì ogni desiderio è perfetto, completo; lì ogni cosa è nel posto giusto, perché è nel non-Luogo (fuori dello spazio-tempo), che non ha i poli (intorno a cui girare); la nostra scala giunge fin lassù, per questo la vedi senza fine...”

 

San Benedetto rimanda in un ‘altrove’, e precisamente nell’Empireo, che è in cima alla scala infinita, l’esaudimento del desiderio di Dante, specificando che lì ogni desiderio è perfetto, maturo e completo, e dicendo quindi implicitamente che nel settimo cielo i desideri possono essere ancora imperfetti, immaturi e incompleti...Noi ci chiediamo: perché Dante vuol vedere il ‘suo’ s. Benedetto ancora nell’aspetto umano? Che tipo di curiosità è la sua? Forse non ha ancora ricevuto la grazia di comprendere veramente il significato di essere ‘bene-detto’ o di ‘bene-dire’ perché è ancora troppo occupato a sentirsi ‘male-detto’ e a ‘male-dire’?
Infin là sù la vide il patriarca
Iacobbe porger la superna parte,
quando li apparve d’angeli sì carca.  72

Ma, per salirla, mo nessun diparte
da terra i piedi, e la regola mia
rimasa è per danno de le carte.  75
“...Il patriarca Iacobbe (v. in
www.taozen.it Testi sacri ‘Commento alla Genesi’ cap. 28, 10-12) la vide fino in cima quando gli apparve piena di angeli. Ma oggi nessuno alza i piedi per salirla e la mia regola è diventata lettera morta (spreco di carta)...”

 

Per la verità neanche il patriarca Iacobbe (= orma del Signore) è salito su quella scala, l’ha vista solo in sogno e ha visto ‘gli angeli del Signore che salivano e scendevano su di essa’; come pretendere che dei poveri monaci possano salire su una scala che non hanno mai visto nemmeno in sogno?
Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria.  78

Ma grave usura tanto non si tolle
contra ’l piacer di Dio, quanto quel frutto
che fa il cor de’ monaci sì folle;  81

ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per Dio dimanda;
non di parenti né d’altro più brutto.  84

“...(Oggi) i monasteri che dovevano essere santi rifugi sono diventati spelonche (di ladri) e le cocolle (= cartocci a forma d’imbuto = cappucci, le tonache) sono sacchi pieni di farina avvermata. Ma la vera offesa alla Volontà divina, che rende guasto il cuore dei monaci sono le ricchezze della Chiesa che dovrebbero essere per i poveri e non per i parenti (del clero) o peggio (per i loro vizi)...”

 

Questo s. Benedetto tutta luce, Thiphereth del Daath dantesco, quindi alta componente spirituale del Nostro, che ha contribuito a renderlo degno di intraprendere il suo incredibile viaggio iniziatico,  rifiuta di mostrare alla personalità la sua ‘immagine umana’, ma poi in realtà diventa molto umano nel severo giudizio di condanna del clero... ancora una volta Dante, nonostante sia ‘in paradiso’, sta condannando il suo monaco o prete interiore!
La carne d’i mortali è tanto blanda,
che giù non basta buon cominciamento
dal nascer de la quercia al far la ghianda.  87

Pier cominciò sanz’ oro e sanz’ argento,
e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento;  90

e se guardi ’l principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov’ è trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno.  93

Veramente Iordan vòlto retrorso
più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse,
mirabile a veder che qui ’l soccorso».  96
Laggiù la carne dei mortali è così debole che non è sufficiente un buon inizio a portare avanti un’impresa. Pier (Pietro) ha cominciato (l’opera sua) senza ricchezze, io l’ho portata avanti con la preghiera e il digiuno e Francesco (= libero, che insegna) con l’umiltà; e se guardi dove noi abbiamo iniziato e dove loro sono arrivati, vedrai che il ‘bianco’ è diventato ‘nero’. Tuttavia lo scorrere a ritroso del Iordan (= Giordano = fiume, per far passare l’Arca, v. Giosuè, 3, 7-17) e l’aprirsi del mare (Rosso, per permettere agli Israeliti di sfuggire agli Egiziani v. Esodo, 14, 19-31), secondo il Volere divino, sono cose ancora più meravigliose di quelle che porranno rimedio a questa corruzione”.

 

L’Opera di reintegrazione di Dante ha avuto inizio con Pier (la sua Pietra che ha esercitato la modestia) ha proseguito con Benedetto (la sua componente bene-detta e bene-dicente che ha praticato la preghiera e il digiuno) e con Francesco (il suo maestro interiore che gli ha insegnato l’umiltà), ma la valenza della Shekinah nel tempo, si è alterata, e da ‘bianca’ è diventata ‘nera’. Tuttavia la Volontà divina che ha operato miracoli incredibili come quelli dell’inversione della corrente del Iordan, alterazione dello scorrere naturale dell’energia (fiume) per permettere il passaggio della Grazia del Signore (Arca); e l’apertura del mar Rosso, simbolo della rottura della barriera che separa la schiavitù dell’albero nero (egiziana) dalla libertà della scelta dell’Albero bianco (della Terra Promessa), può rettificare in ogni momento la qualificazione dell’energia della sua personalità.
Così mi disse, e indi si raccolse
al suo collegio, e ’l collegio si strinse;
poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse.  99

La dolce donna dietro a lor mi pinse
con un sol cenno su per quella scala,
sì sua virtù la mia natura vinse;  102

né mai qua giù dove si monta e cala
naturalmente, fu sì ratto moto
ch’agguagliar si potesse a la mia ala.  105
Detto questo, lo spirito di s. Benedetto torna tra le altre luci che gli si stringono intorno e poi, come un turbine, si avvolgono su se stesse, innalzandosi. La dolce donna (Beatrice), vincendo la natura umana di Dante, con un cenno lo spinge su per la scala dietro a quelle luci; sulla terra, dove si sale e si scende normalmente, non c’è mai stato un movimento tanto veloce da uguagliare il suo volo.

 

Le parole di s. Benedetto, accolte da Dante nel loro significato più profondo gli permettono di vedere la sua luce trasformarsi in un turbo (da radice sanscrita ‘tur’ = movimento rapido a vortice, spiralato) che sale su per la scala d’oro; Beatrice (l’intuizione) con un cenno, facendogli superare i limiti della natura umana, lo spinge ad osare e Dante, la personalità, vola su, dietro al Tiphereth del suo Daath.
S’io torni mai, lettore, a quel divoto
trïunfo per lo quale io piango spesso
le mie peccata e ’l petto mi percuoto,  108

tu non avresti in tanto tratto e messo
nel foco il dito, in quant’ io vidi ’l segno
che segue il Tauro e fui dentro da esso.  111
Poi il Nostro si rivolge al lettore dicendogli che egli spera di poter tornare al devoto trïunfo (in Paradiso), e per questo si pente dei peccati e si batte il petto, come è vero che egli si è ritrovato nella costellazione che segue quella del Tauro (Toro), cioè in quella dei Gemelli, nel tempo in cui uno mette il dito nel fuoco e lo toglie (per non scottarsi).

O glorïose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,  114

con voi nasceva e s’ascondeva vosco
quelli ch’è padre d’ogne mortal vita,
quand’ io senti’ di prima l’aere tosco;  117

e poi, quando mi fu grazia largita
d’entrar ne l’alta rota che vi gira,
la vostra regïon mi fu sortita.  120

A voi divotamente ora sospira
l’anima mia, per acquistar virtute
al passo forte che a sé la tira.  123
Giunto nel cielo delle gloriose stelle (della costellazione dei Gemelli), luci ricche di grandi virtù, il Nostro riconosce di derivare il suo ingegno, qual che si sia (il suo valore) da loro, perché al suo primo respiro (alla nascita) il Sole, datore di vita, era proprio nei Gemelli, e poi perché ora, che gli è permesso di salire alla sfera più alta, gli è assegnata proprio la loro regione. Devotamente la sua anima le prega di renderlo degno di affrontare la difficile prova che l’attende.

 

La scala d’oro che il Nostro ha appena percorso in volo estatico lo porta direttamente nell’ottavo cielo, quello delle Stelle fisse (dello Zodiaco), dove dimorano gli spiriti trionfanti; questo cielo nella Kabbalah corrisponde alla Sephirah Binah (= Comprensione). Qui a Dante è data la possibilità di approfondire con l’intuizione il segno zodiacale che l’ha benedetto alla nascita, la costellazione dei Gemelli.

Di Dante non si conosce la data di nascita, si sa che è dei Gemelli perché è lui stesso a dircelo in questo canto del Paradiso. Ma per lo studio del tema natale è indispensabile conoscere il giorno e l’ora.  Noi non ci siamo mai interessati di astrologia tuttavia, considerandola un’antica tipologia psicologica, come viene suggerito da Jung, cogliamo l’occasione per documentarci su questo segno che corrisponde al terzo mese della primavera. E’ un segno di aria, favorito da Mercurio, contrastato da Giove; è un segno di doppia polarità, legato ai due principi opposti e complementari; l’essenza della sua natura è quella del Mercurio ermafrodita: mobilità, morbidezza, assimilazione, rapidità, agilità. I due gemelli classici della mitologia, che lo raffigurano sono i figli di Zeus e di Leda, Castore e Polluce; da essi derivano due tipi: al primo gemello, Castore, corrisponde il tipo nervoso, emotivo poco attivo; al secondo gemello, Polluce, il tipo sanguigno, attivo, poco emotivo; spesso però i due temperamenti si alternano nello stesso soggetto, che può diventare così doppio e contraddittorio. I pregi del nato sotto il segno dei Gemelli sono: adattabilità intellettuale, studiosità, avidità scientifica, attitudine per la filosofia, sensibilità acuta e intuizione; i suoi difetti: indifferenza, calcolo, doppiezza, incostanza, superficialità. Ovviamente Dante, essendo un ‘Gemello’ di tipo superiore, ha del suo segno tutti i pregi e se in lui c’è qualche difetto, lo si deve attribuire alla decade del segno e all’ascendente, che però, non possiamo conoscere non sapendo di preciso il giorno e l’ora della nascita. Ma forse, a pensarci bene, possiamo percorrere il sentiero inverso, dalla sua biografia e dai suoi scritti ricavare il carattere e da questi arrivare alla decade e all’ascendente. Non sarà astrologicamente ortodosso, ma indubbiamente di risultato certo. Per la grande rinomanza acquisita nei secoli, per la condanna al rogo, per l’eccellenza in pedagogia, letteratura e scienze, possiamo dichiarare che appartiene alla prima decade, del segno, dominata da Giove. Inoltre, conoscendolo vendicativo e battagliero deve essere molto influenzato da Marte, e quindi avere come ascendente Ariete. E ora, chiusa la parentesi astrologica, torniamo al nostro discorso interiorizzato e ascoltiamo le parole di Beatrice, la componente Daatica del Nostro. Ricordiamo che a lei abbiamo attribuito il fuoco del mentale, l’intuizione, e la terra del Causale, vale a dire il centro Daath (la Coscienza).
«Tu se’ sì presso a l’ultima salute»,
cominciò Bëatrice, «che tu dei
aver le luci tue chiare e acute;  126

e però, prima che tu più t’inlei,
rimira in giù, e vedi quanto mondo
sotto li piedi già esser ti fei;  129

sì che ’l tuo cor, quantunque può, giocondo
s’appresenti a la turba trïunfante
che lieta vien per questo etera tondo».  132
E Beatrice comincia a dire: “Sei così vicino alla Salvezza (al Signore) che devi avere gli occhi ben desti e acuti, ma prima di entrare alla sua Presenza guarda in giù e guarda il mondo che ti ho fatto lasciare ai tuoi piedi, così che il tuo cuore, per quello che può, si presenti beato alla folla trionfante che riceve la sua letizia in questa sfera”.

 

Il consiglio che Beatrice (colei che dona beatitudine) dà alla personalità giunta al cielo degli spiriti trionfanti è di rendere le sue luci chiare e acute, cioè di attivare maggiormente il centro in mezzo agli occhi e con esso rimirare ciò che lei gli ha fatto lasciare dietro di sé (i suoi cieli inferiori già visitati, e i suoi corpi mentale astrale e fisico): gli chiede di fare come il punto della situazione per preparare il cuore (il Tiphereth di Daath) alle esperienze spirituali ancora più alte che lo attendono.
Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;  135

e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.  138
Allora Dante ripercorre con lo sguardo le sette sfere dei pianeti già visitati e poi vede la terra e sorride della sua apparenza meschina, considerando di più chi la valuta meno e ritenendo onesto chi non la calcola del tutto (e si occupa solo delle cose dello spirito).

 

Certamente il piano fisico (assianico) è il piano più basso e il più umile dell’Albero cabalistico, ma è quello che ci permette di reintegrarci, infatti è da vivi che con il libero arbitrio ci è data la possiblità di scegliere come impiegare i nostri talenti, compresi quelli di natura spirituale; perciò conviene valutare la nostra ‘terra’ per quello che è, senza sopravvalutarla, né svalutarla troppo.
Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell’ ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.  141

L’aspetto del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com’ si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone.  144
E Dante vede poi la figlia di Latona (= la Luna) senza le macchie, quelle che gli avevano fatto credere che fosse di diversa densità (cfr. Paradiso 2, vv. 46-111). E riesce anche a sopportare la vista del figlio di Iperïone (= che gira sopra; del Sole) e vede i movimenti dei figli di Maia (= nutrice; Mercurio) e di Dïone (= di Giove; Venere). 
Quindi m’apparve il temperar di Giove
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove;  147

e tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci
e come sono in distante riparo.  150

L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’ io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci;  153

poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.

Poi al Nostro appare Giove nella funzione di mediatore tra il padre suo (Saturno) e il figlio (Marte) e comprende i cambiamenti delle loro posizioni; tutti e sette (i pianeti) gli si mostrano nella loro grandezza, velocità e rispettive posizioni. E mentre ruota con gli eterni Gemelli, il giardino che ci ospita con la nostra cattiveria (la terra) gli appare nella sua interezza (dai monti alle valli); quindi si volge a guardare gli occhi belli della sua Donna.

 

Ed ecco che dal punto di vista delle ‘Sue Stelle’ a Dante è dato conoscere il suo Albero nell’insieme, con i rapporti dei centri (Sephiroth) tra di loro: conosce da una nuova angolazione Yesod (la Luna) e Tiphereth (il Sole); Hod (Mercurio) e Netzach (Venere) e quindi Daath (Saturno) con Chesed (Giove) e Gheburah (Marte) del piano Atziluth (del Paradiso); ri-conosce, guardando ancora più in basso, poi il piano mentale, Briah, e quello astrale, Yetzirah (il monte del Purgatorio); infine il piano fisico, Assiah, la terra che ospita la cattiveria (l’inferno), cioè l’albero nero e, grato per ciò che gli stato concesso di sperimentare torna a concentrarsi in Daath (gli occhi di Beatrice).



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