PARADISO - CANTO VI
Interpretazione cabalistica di Franca
Vascellari
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«Poscia che Costantin l’aquila volse
contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio
dietro a l’antico che Lavina tolse, 3
cento e cent’ anni e più l’uccel
di Dio ne lo stremo
d’Europa si ritenne,
vicino a’ monti de’ quai prima uscìo; 6
e sotto l’ombra de le sacre
penne governò ’l mondo lì
di mano in mano, e, sì
cangiando, in su la mia pervenne. 9
“Dopo che
Costantin (= il tenace;
che nel 330 trasferì la capitale dell’Impero da Roma a Bisanzio) recò l’aquila
(= l’uccello che si libra nelle alte regioni dei venti, simbolo
dell’Impero) nella direzione opposta (da occidente ad oriente) a quella
del corso del Cielo (del sole, da oriente ad occidente), direzione che
essa aveva seguito dietro (ad Enea che veniva da Troia), lo sposo di
Lavina
(= la pallida, ma anche ‘terra estesa’), l’uccello
divino rimase per
cento e cent’ anni e più
nella
estrema Europa
(a Bisanzio, non lontana da Troia) da cui era venuta; e da lì governò il
mondo, da imperatore ad imperatore fino ad arrivare nelle mie mani…”
Cesare fui e son Iustinïano,
che, per voler del primo amor ch'i' sento,
d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano. 12
E prima ch’io a l’ovra fossi
attento, una natura in
Cristo esser, non piùe,
credea, e di tal fede era contento; 15
ma ’l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue. 18
“…Fui
Cesare (= grande guida)
e sono
Giustiniano
(=difensore della giustizia; nato nel 482, eletto
imperatore nel 527, morto nel 565; è ricordato per la redazione del
‘Corpus Iuris Civilis’, importante codice di leggi in vigore ancora al
tempo di Dante) e, grazie al mio amore per la giustizia, tolsi dalla
legge
il troppo e il vano,
cioè il superfluo. Ma prima di dedicarmi a questo, avevo aderito
all’eresia monofisita (per cui il Cristo è solo Dio e non Uomo), da essa
mi distolse il papa
Agapito (= diletto) con
le sue parole e la sua fede vera…”
Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,
vegg’ io or chiaro sì, come tu vedi
ogni contradizione e falsa e vera. 21
Tosto che con la Chiesa mossi i
piedi, a Dio per grazia
piacque di spirarmi l’alto
lavoro, e tutto ’n lui mi diedi; 24
e al mio Belisar commendai
l’armi, cui la destra del
ciel fu sì congiunta, che
segno fu ch’i’ dovessi posarmi. 27
“…Io credetti in lui; e ciò che
accettai allora (per la sua autorità) ora io lo
vedo chiaro, come tu vedi
che, se (nella logica) due affermazioni si contraddicono, una è vera e
l’altra è falsa. Allorché mi posi a servizio della Chiesa, il Signore mi
ispirò quel gran lavoro ed io mi ci dedicai, lasciando il comando
dell’esercito al mio (generale)
Belisario
(=dardo di Marte), che fu assai favorito dal Cielo, segno che io dovevo
fermarmi…”
Or qui a la question prima s’appunta
la mia risposta; ma sua condizione
mi stringe a seguitare alcuna giunta, 30
perché tu veggi con quanta
ragione si move contr’ al
sacrosanto segno e chi ’l
s’appropria e chi a lui s’oppone. 33
Vedi quanta virtù l’ha fatto
degno di reverenza; e
cominciò da l’ora che
Pallante morì per darli regno. 36
“…Questa è la risposta alla prima domanda
(Paradiso V, v.127), ma l’argomento richiede altre spiegazioni, affinché
tu comprenda l’errore, sia di chi si appropria dell’emblema dell’aquila
(i Ghibellini), e sia di chi le va contro (i Guelfi). La virtù ha reso
questo simbolo degno di rispetto a cominciare dalla morte di
Pallante
(alleato di Enea, morì eroicamente combattendo contro Turno; v. in
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teatro mitologico ‘Eneide’ e relativa interpretazione
cabalistica)…”
Rispondendo alla prima domanda di Dante, lo
spirito che dimora nel cielo di Mercurio, dopo aver accennato al
trasferimento della capitale dell’Impero romano da occidente ad oriente,
cosa contraria all’ordine divino, di cui si è reso colpevole
Costantino
(v. anche Purgatorio canto XXXII, vv.124-141) e
dopo essersi presentato come
Cesare (= grande guida)
e
Giustiniano
(=difensore della Giustizia) e aver raccontato della sua vita (eresia,
conversione e stesura del ‘Corpus Iuris’), quest’anima beata traccia la
gloriosa storia dell’aquila
imperiale dall’arrivo di Enea in fuga da Troia incendiata e distrutta,
fino ai tempi di Dante, tempi bui per gli errori sia dei Guelfi che dei
Ghibellini. Abbiamo già in precedenza (Purgatorio IX, 1-33) accennato
alla vastissima simbologia dell’aquila
ma poiché questo canto è quasi tutto a lei dedicato cercheremo di
approfondirne i significati. Uccello solare per eccellenza, essa è
simbolo di tutti gli dei del cielo, di autorità spirituale e temporale,
di vittoria, di coraggio, di elevazione. Essa rappresenta la luce che
combatte le tenebre, che lotta con il leone ed il toro e li vince
sempre. Avversaria del serpente, è spesso raffigurata con questo fra gli
artigli, se invece aquila e serpente appaiono insieme e in armonia,
simboleggiano l’unione fra spirito e materia, intelletto ed istinto.
Nell’antico Egitto l’aquila era emblema del faraone, nella Grecia era
attribuita a Zeus (che sotto forma di aquila rapì Ganimede, cfr.
Purgatorio IX, v. 23, allegoria del rapimento dell’anima dal corpo al
momento della morte). Ai funerali degli imperatori romani veniva
liberata un’aquila, così la loro anima ascendeva al cielo. L’aquila
secondo alcuni ha il potere di rigenerarsi; diventata vecchia, vola
verso il sole, poi precipita in mare e ne risorge completamente
rinnovata (v. Salmo 102, 5). Nel cristianesimo l’aquila indica lo
spirito, l’ascensione e l’ascesi spirituale, rappresenta anche
l’evangelista Giovanni; in alchimia il simbolo dell’aquila suggerisce lo
spirito liberato; la doppia aquila il ‘mercurio’, che è maschile e
femminile insieme, ed è la materia prima per mettere mano alla ‘Grande
Opera’ (v. in
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il relativo copione – riduzione teatrale de ‘Le Grand Oeuvre’ di Grillot
de Givry). Insomma possiamo dire che l’ ‘Aquila imperiale’, dal nostro
punto di vista, può essere omologata alla Sephirah Daath, alla
Coscienza, all’Io Sono della personalità, del Malkuth, il Regno.
Quindi, volendo interiorizzare tutta la
storia dell’aquila
imperiale così come ce la narra Dante, e tenendo presente che essa è la
‘sua’ Aquila imperiale (che comprende i suoi Archetipi dell’Imperatore e
dell’Imperatrice congiunti) possiamo vederne il percorso, con le varie
tappe, sull’Albero cabalistico; per essa, secondo il disegno della
Giustizia celeste, si compie la redenzione della personalità (dell’uomo)
con la nascita, morte e resurrezione del Cristo interiore, infatti a lei
spetta il compito di guidare il Regno (l’individuo), ma l’egoismo dei
due poteri (spirituale del Papa interiore e temporale dell’ Imperatore
interiore) impedisce il raggiungimento di quella pace totale tanto
sospirata. Dal nome di
Lavinia
(= terra estesa, sposa di
Enea, il lodevole) col sacrificio di
Pallante (= dal greco
‘pallo’ = vibro; vibrante, ricordiamo che la dea Pallade nacque dalla
testa di Zeus ‘vibrando’ l’asta) ricaviamo l’insediamento ‘vibrante’ di
vita dell’Aquila in Malkuth (il Regno), punto di partenza del passato
per la scalata dell’Albero (v. Albero cabalistico dell’Aquila). Tu sai ch’el fece in
Alba sua dimora per
trecento anni e oltre, infino al fine
che i tre a’ tre pugnar per lui ancora. 39
E sai ch’el fé dal mal de le
Sabine al dolor di
Lucrezia in sette regi,
vincendo intorno le genti vicine. 42
“…Tu sai che esso (il simbolo
dell’aquila) stabilì per 300 anni la sua dimora in
Alba
(Albalonga), fino alla lotta dei tre (Curiazi, albani)
contro i tre (Orazi,
romani, che vinsero e diedero inizio alle vittorie di Roma). E tu sai
anche ciò che esso ricavò dal rapimento delle
Sabine
(con le quali i romani popolarono la loro città) e dalla sofferenza di
Lucrezia
(= regina dei boschi; che, violentata dal figlio di Tarquinio il
Superbo, si uccise), vincendo tutti i popoli confinanti con il potere
dei sette re (di Roma) …”
All’inizio l’Aquila rimane in
Alba
(= inizio del giorno), tutto il tempo necessario a formare la sephirah
Malkuth (il Regno), cioè per 300 anni; dal 300 ricaviamo il significato
della lettera Shin (valore numerico 300) corrispondente al sentiero
(cinerah) dell’Archetipo del ‘Mondo’: ‘Compimento’. Dalla lotta dei 3
contro i 3, ricaviamo il 6 del simbolo di Salomone: la Saggezza (i due
triangoli incrociati), ed anche il 6 dell’Archetipo del Bivio: la
‘Prova’. Dal 7 (dei re di Roma) ricaviamo l’Archetipo del Carro: la
‘Maestria’, il ‘Trionfo’. Dalle
Sabine e dal sacrificio
di
Lucrezia
ricaviamo l’Archetipo della ‘Forza’, dell’energia necessaria all’impresa
(v. in
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Archetipi, le relative Lezioni-spettacolo).
In questa prima fase (Alba, sette re di
Roma) si verifica la conquista del piano assianico: saggezza, prova,
trionfo, sacrificio, potenza sono le qualità che permettono all’Aquila
(imperiale) di avanzare sull’Albero.
Sai quel ch’el fé portato da li egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
incontro a li altri principi e collegi; 45
onde Torquato e Quinzio, che dal
cirro negletto fu nomato,
i Deci e ’ Fabi ebber la
fama che volontier mirro. 48
“…Tu sai anche ciò che questo simbolo
arrecò ai valorosi Romani contro
Brenno (= il vigoroso,
oppure il corvo; capo dei Galli che saccheggiò Roma nel 390 a. C., e fu
poi sconfitto e scacciato da Marco Furio Camillo), e contro
Pirro
(= l’ardente; re dell’Epiro, sconfitto nel 275
a.
C. dai Romani a Benevento) e contro altri regni e principati, per cui
(il vincitore dei Galli, Tito Manlio)
Torquato (= da torque =
con la collana, che strappò a
Brenno e se ne ornò) e
Quinzio (quinto), detto
Cincinnato per i capelli ricci, e i
Deci
(= decimi) e i
Fabi
(= dal greco ‘phag-o’ = mangio; famiglie romane di guerrieri morti per
la patria) ebbero quella fama che volentieri onoro…”
Per i nomi qui citati
Brenno
= corvo, uccello relativo alla profezia (Yesod);
Pirro
= ardente, relativo al fuoco (Tiphereth);
Torquato = ornato di
collana (Tiphereth);
Quinzio = quinto
ricciuto (Tiphereth);
Deci
= decimi (Malkuth);
Fabi
= mangiatori, consumatori (Tiphereth), possiamo considerare il periodo
storico repubblicano relativo a questi ‘personaggi’ come la conquista da
parte dell’Aquila del livello yetziratico, del piano astrale, attraverso
la via centrale dell’Albero, da Malkuth a Yesod, da Yesod a Tiphereth.
Esso
atterrò l’orgoglio de li Aràbi
che di retro ad Anibale passaro
l’alpestre rocce, Po, di che tu labi. 51
Sott’ esso giovanetti trïunfaro
Scipïone e Pompeo; e a quel colle
sotto ’l qual tu nascesti parve amaro. 54
Poi, presso al tempo che tutto
’l ciel volle redur lo
mondo a suo modo sereno,
Cesare per voler di Roma il tolle. 57
“…Quel simbolo imperiale (l’aquila)
piegò l’orgoglio dei
Arabi
(qui si intende Cartaginesi) che dietro ad
Annibale (= dono di
Baal) passarono le Alpi, da cui discende il Po. Sotto di esso
trionfarono benché assai giovani
Scipione (=che ha il
bastone del comando; vincitore di Annibale a Zama 202 a. C.) e Gneo
Pompeo
(= in pompa, grande; si distinse nella guerra civile tra Mario e Silla
83-81 a. C.) e ciò fu doloroso per Fiesole (cittadina di un colle sopra
Firenze; una leggenda narra che fu distrutta dai Romani nella guerra
contro Catilina 62 a. C.). Infine
Cesare (= il
condottiero) ne fece il simbolo dell’Impero di Roma quando il Cielo
volle pacificare tutto il mondo, secondo il suo disegno…”
Con la vittoria su
Annibale,
dono di Baal, (divinità straniera) l’Aquila si appropria delle energie
del nemico (dell’albero
capovolto) ed inizia la conquista del piano briatico che si sviluppa con
Scipione, Pompeo
e Cesare,
i grandi condottieri.
E quel che fé da Varo infino a Reno,
Isara vide ed
Era
e vide Senna e ogne valle
onde Rodano è pieno. 60
Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
e saltò Rubicon, fu di tal volo,
che nol seguiteria lingua né penna. 63
“…E quel che fece dal
Varo
fino al
Reno
lo videro
Isara
(=l’ Isere),
Era
(= la Loira), la
Senna
e tutte le valli del
Rodano. E quel che fece
poi, quando, uscito da
Ravenna oltrepassò il
Rubicone
fu talmente rapido che non lo potrebbe seguire né discorso né scrittura.
(Sono qui ricordate le imprese di Giulio Cesare del 58-50 a. C. in cui
egli conquistò la Gallia)…”
La conquista del mondo briatico è
caratterizzata dai nomi dei fiumi (acque del mentale) che permettono i
collegamenti tra le varie terre ed il possesso di quei territori.
Inver’ la Spagna rivolse lo
stuolo, poi ver’ Durazzo,
e Farsalia percosse sì
ch’al Nil caldo si sentì del duolo. 66
Antandro e Simeonta, onde si
mosse, rivide e là dov’
Ettore si cuba; e mal per
Tolomeo poscia si scosse. 69
Da indi scese folgorando a Iuba;
onde si volse nel vostro occidente,
ove sentia la pompeana tuba. 72
“…Si diresse poi in
Spagna (= rara) quindi
a
Durazzo
(=aspra, difficile) e a
Farsalo (= velo del
sale, in Tessaglia) e il dolore (della guerra) arrivò fino al caldo
Nilo
(= nuovo fango). Rivide i luoghi da cui partì
Ettore (= che
sostiene), il porto di
Antandro (= che
sostituisce l’uomo) e il fiume
Simeonta (=che
esaudisce) e causò grave danno a
Tolomeo (= che lotta;
re d’Egitto che fece uccidere Pompeo ma fu privato del regno). Poi
piombò su
Iuba
(= criniera; re della Mauritania, fautore di Pompeo), quindi tornò in
occidente, dove soffocò le ultime resistenze dei pompeiani. (Sono qui
ricordate le varie tappe della guerra civile fra Cesare e Pompeo del
49-45 a. C.)…”
Le battaglie civili, a livello
interiorizzato, possono essere considerate come lotte sul mentale tra
bene e male: concezioni filosofiche ed esistenziali contrastanti che
creano asperità, difficoltà; ‘veli’, anche se rari, su quello che
dovrebbe essere la sapienza, (il ‘sale’ della vita), e che se non
affrontati con la dovuta energia (sostegno), provocano ‘nuovo fango’ e
invece di esaudire, cioè realizzare l’uomo (nuovo), lo sostituiscono con
contrasti vecchi, ciò che reca altra lotta. Piombare sulla ‘criniera’
del nemico (il male) è l’unico modo per far cessare tali ‘guerre
civili’…
Di quel che fé col baiulo seguente,
Bruto con Cassio ne l’inferno latra,
e Modena e Perugia fu dolente. 75
Piangene ancor la trista
Cleopatra, che, fuggendoli
innanzi, dal colubro la
morte prese subitana e atra. 78
“…Di ciò che l’aquila
fece con il
baiulo
(= dal latino ‘baiulus’ = portatore, duce, sovrano)
seguente (Ottaviano Augusto imperatore) ne danno testimonianza (gli
assassini di Cesare)
Bruto
(= mortale) e
Cassio
(con l’elmo) nell’inferno (canto XXXIV vv. 64-67) e ne soffrirono
Modena
(=che sta in alto)
e
Perugia (= città del
principe; le città in cui Ottaviano sconfisse Marco e Lucio Antonio).
Per lei piange ancora la regina
Cleopatra (= gloria del
padre; amante di Cesare prima e di Antonio poi, quest’ultimo fu
sconfitto da Ottaviano ad Azio nel 31 a. C.; Dante l’ha incontrata
nell’inferno, canto V, v. 63), che, fuggendo dall’aquila,
si diede la morte con un
colubro
( dal latino ‘coluber’ = serpente), un aspide…”
L’Aquila imperiale realizza sull’Albero
bianco con il
baiulo
seguente (l’imperatore Ottaviano) il perfetto equilibrio tra la sephirah
Chesed
(la Giustizia) e la
sephirah Geburah (la Forza)
costringendo alla disfatta
i nemici (le forze dell’albero nero):
Bruto
(che muore),
Cassio
(che inutilmente porta l’elmo), le città di
Modena (inutilmente
alta) e
Perugia (del principe
avversario) e costringendo alla morte per aspide Cleopatra
(la gloria del padre oscuro, cioè l’energia volta al nero).
Con costui corse infino al lito
rubro; con costui puose il
mondo in tanta pace, che
fu serrato a Giano il suo delubro. 81
Ma ciò che ’l segno che parlar
mi face fatto avea prima e
poi era fatturo per lo
regno mortal ch’a lui soggiace, 84
diventa in apparenza poco e
scuro, se in mano al terzo
Cesare si mira con occhio
chiaro e con affetto puro; 87
ché la viva giustizia che mi
spira, li concedette, in
mano a quel ch’i’ dico,
gloria di far vendetta a la sua ira. 90
“…Con Ottaviano l’aquila
imperiale giunse fino al mar Rosso; con lui il mondo fu pacificato tanto
che fu chiuso il tempio di
Giano
(= passaggio; per due secoli non ci furono più
guerre: nacque Gesù, il Cristo). Ma quello che l’aquila, che mi fa
parlare, ha fatto prima e quello che ha fatto dopo, diventa poca cosa a
confronto di ciò che fece per l’umanità con il terzo
Cesare (Tiberio,
imperatore dal 14 al 37 d. C.) se lo si guarda con occhio reso limpido
(dalla fede) e con sentimento puro: la Giustizia divina (col sacrificio
di Gesù sulla Croce) gli concesse la gloria di placare la propria ira
(per il peccato originale)…”
Con Ottaviano l’Aquila giunge fino al mar
Rosso: altri in passato (Esodo 14, 19-31) giunsero fin lì e furono
liberi dal nemico. Il mar Rosso (mare di fuoco) nel mentale rappresenta
il punto più alto dell’elemento acqua di questo piano: è la capacità di
collegamento, la sua punta (fuoco) fa già parte dell’intuizione, che è
il fuoco del mentale (v. Purgatorio canto XXVIII schema dell’Albero di
Dante). Qui si verifica la nascita della Coscienza Cristica lo sviluppo
della Sephirah Daath, l’Io Sono e con la ‘morte e resurrezione’ la
riparazione (Tikkun) della ‘caduta’ o rottura dei vasi (Shevirah).
Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:
poscia con Tito a far vendetta corse
de la vendetta del peccato antico. 93
E quando il dente longobardo
morse la Santa Chiesa,
sotto le sue ali Carlo
Magno, vincendo, la soccorse. 96
“…Ora qui stupisci per quanto aggiungo: con
Tito
(= il difensore; che nel 70 d. C. distrusse
Gerusalemme e provocò la diaspora degli ebrei) poi l’aquila
fece giustizia della ‘giustizia del peccato originale’, cioè vendicò la
morte del Cristo. E quando i Longobardi minacciarono la Santa Chiesa,
con
Carlo
Magno (= il forte e
grande; che li vinse nel 773) l’aquila
la soccorse, proteggendola con le sue ali…”
Con la Resurrezione ed Ascensione del
Cristo è stata sì riaperta la porta del Cielo, ma solo come possibilità
di redenzione
per l’umanità, che ha poi
continuato allegramente a costruire nei secoli il suo albero nero (ed
oggi ne vediamo i bei risultati). L’Aquila dantesca con il suo Impero
Romano ha avuto solo un periodo di relativa pace;
già
Costantino
(= il tenace) l’aveva costretta a rinunciarvi invertendo il corso
naturale della sua evoluzione. Poi i
cento
e cent’ anni e più (100
è il valore numerico dell’Archetipo del Sole, ripetuto ne rafforza il
potere) in cui si è fermata a Bisanzio, anche se l’hanno arricchita di
personaggi come
Giustiniano
(= protettore della Giustizia) non hanno favorito la scalata dell’ultimo
piano dell’Albero, cioè del piano Spirituale, Atzilutico. Più tardi
ancora, un altro imperatore
Carlo
Magno (= il forte, il
grande) cercando di proteggere la Chiesa (impersonando l’Archetipo
dell’Imperatore in armonia con l’Archetipo del Papa) avrebbe potuto
riportare l’Aquila alla sua antica Gloria, ma ciò non è accaduto.
Omai puoi giudicar di quei cotali
ch’io accusai di sopra e di lor falli,
che son cagion di tutti vostri mali. 99
L’uno al pubblico segno i gigli
gialli oppone, e l’altro
appropria quello a parte,
sì ch’è forte a veder chi più si falli. 102
“…Ora puoi comprendere perché
ho accusato coloro (i Guelfi: simpatizzanti dalla casata di Baviera e
Sassonia dei Welfen e i Ghibellini: simpatizzanti della casata di
Svevia, signori del castello di Wibeling) che sono la causa dei vostri
mali. I primi oppongono all’aquila (simbolo dell’Impero) i gigli d’oro
(simbolo dei re di Francia, favorevoli al Papato) i secondi si
appropriano dell’aquila come se fosse un simbolo di partito, e non si sa
chi è maggiormente in errore…”
Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
sott’ altro segno, ché mal segue quello
sempre chi la giustizia e lui diparte; 105
e non l’abbatta esto Carlo
novello coi Guelfi suoi,
ma tema de li artigli ch’a
più alto leon trasser lo vello. 108
Molte fïate già pianser li figli
per la colpa del padre, e non si creda
che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli! 111
“…Che i Ghibellini seguitino pure le loro
attività di parte, ma non sotto l’insegna dell’aquila,
perché non può essere seguace del Segno Imperiale chi l’allontana dalla
giustizia; e certamente non sconfiggerà l’aquila
il nuovo
Carlo
(II d’Angiò; re di Napoli dal 1285 al 1309) con i suoi Guelfi, ma tema
egli piuttosto i suoi artigli che hanno strappato il pelo a re ben più
potenti di lui. Già molte volte hanno pianto i figli per gli errori dei
padri, e che (questo Carlo) non creda che il Signore possa sostituire l’aquila
con i suoi gigli!
L’Aquila, la Coscienza della personalità,
non dovrebbe essere né combattuta, né resa ingiusta, quando ciò accade,
quando sia i Guelfi che i Ghibellini (il Papa interiore e l’Imperatore
interiore) si combattono dimentichi della ‘Giustizia’, il Regno si
sgretola e si ostacola il Piano Divino, il che procura solo sofferenza a
coloro che operano in tal senso ed ai loro discendenti (o alle loro
successive incarnazioni).
Questa picciola stella si
correda d’i buoni spirti
che son stati attivi
perché onore e fama li succeda: 114
e quando li disiri poggian
quivi, sì disvïando, pur
convien che i raggi del
vero amore in sù poggin men vivi. 117
(Ora, per rispondere alla seconda
domanda) ti dirò che questo piccolo astro (Mercurio) si adorna di quegli
spiriti che sono stati attivi per ottenere onore e fama nel mondo, e
quando il desiderio umano tende a questo, deviando dal fine supremo (il
raggiungimento del Divino), lo slancio d’amore verso l’alto diminuisce
d’intensità…”
Operare bene sul piano fisico è meritorio
ma operare bene per il Piano Spirituale è realizzante. La beatitudine
celeste è relativa al piano su cui si è scelto di conoscersi e
svilupparsi.
Ma nel commensurar d’i nostri gaggi
col merto è parte di nostra letizia,
perché non li vedem minor né maggi. 120
Quindi addolcisce la viva
giustizia in noi l’affetto
sì, che non si puote
torcer già mai ad alcuna nequizia. 123
“…Fa parte della nostra
letizia vedere i premi adeguati ai meriti, perché non sono né maggiori
né minori (ma giusti). La Giustizia divina ci ha così purificati che non
possiamo mai più rivolgerci al male…” Diverse voci fanno dolci
note; così diversi scanni
in nostra vita rendon
dolce armonia tra queste rote. 126
E dentro a la presente margarita
luce la luce di Romeo, di cui
fu l’ovra grande e bella mal gradita. 129
“…Voci diverse (cantando)
formano l’armonia; allo stesso modo i diversi gradi di beatitudine
formano l’armonia di questi cieli. All’interno di questa
margarita
(= gemma) splende la luce di
Romeo
(= pellegrino; di Villanova, valido e onesto ministro del conte Raimondo
Berengario IV di Provenza) di cui non fu apprezzata l’opera…”
Ma i Provenzai che fecer contra lui
non hanno riso; e però mal cammina
qual si fa danno del ben fare altrui. 132
Quattro figlie ebbe, e ciascuna
reina, Ramondo
Beringhiere, e ciò li fece
Romeo, persona umìle e peregrina. 135
“…I cortigiani invidiosi lo
calunniarono presso il suo signore
Ramondo (= Raimondo
=protettore
dell’ingegno)
Beringhiere
(= Berengario= valoroso combattente) le cui 4 figlie egli, Romeo, benché
di umile origine, fece accasare come regine; quei Provenzali non ebbero
però poi da essere soddisfatti: agisce male chi considera suo danno il
bene
agire altrui…” E poi il mosser le
parole biece a dimandar
ragione a questo giusto,
che li assegnò sette e cinque per diece, 138
indi partissi povero e vetusto;
e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto, 141
assai lo loda, e più lo
loderebbe».
“…Le
calunnie dei cortigiani spinsero Raimondo a chiedere conto a Romeo del
suo operato: quello rese 12 per 10, poi se ne andò povero e vecchio; e
se il mondo sapesse con quale coraggio egli mendicò il pane boccone per
boccone, benché già lo loda, lo farebbe ancor di più…”
Questo
sesto canto del Paradiso termina con l’elogio di
Romeo
(il pellegrino), un giusto che pur avendo ben operato sul piano fisico
(o forse proprio per quello) è stato dal mondo calunniato, costretto
all’esilio e a mendicare il pane. Questo personaggio rappresenta una
ennesima specchiatura del Nostro che con lui si concede una lode…
Anch’egli nel periodo della sua vita politica (1295-1302) aveva cercato
di fare del suo meglio, ma operare con giustizia sul piano fisico, dove
regna il ‘principe del mondo’
(v. Giovanni 14,30),
produce ingratitudine e molto spesso suscita invidia e odio…Forse prima
di cercare di operare con giustizia sul piano fisico va ricercato
‘altro’ e più propriamente, secondo l’insegnamento evangelico: ‘Cercate
prima il Regno di Dio e la sua Giustizia e tutto il resto vi sarà dato
in sovrappiù’ (Matteo 6, 33).
Albero Cabalistico
dell’Aquila dantesca
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