PURGATORIO - CANTO XXIV


Interpretazione cabalistica di Franca Vascellari
www.taote.it
www.taozen.it
www.teatrometafisico.it

 

 

Né ’l dir l’andar, né l’andar lui più lento
facea, ma ragionando andavam forte,
sì come nave pinta da buon vento; 3

e l’ombre, che parean cose rimorte,
per le fosse de li occhi ammirazione
traean di me, di mio vivere accorte. 6
Né il  colloquio di Dante con Forese rallenta il cammino, né il loro cammino ostacola il loro colloquio; pur ragionando vanno assai lesti, come una nave spinta da un buon vento; ed i penitenti, che sembrano (all’aspetto) cose morte, e che si sono accorti che Dante è un vivente, lasciano trasparire dagli occhi infossati la loro meraviglia.
E io, continüando al mio sermone,
dissi: "Ella sen va sù forse più tarda
che non farebbe, per altrui cagione. 9

Ma dimmi, se tu sai, dov’è Piccarda;
dimmi s’io veggio da notar persona
tra questa gente che sì mi riguarda". 12
Il Nostro, continuando il discorso dice (a Forese): “Egli (Stazio, v. canto precedente) sale più lento di quanto potrebbe a causa altrui (mia). Ma dimmi, se lo sai, dov’è Piccarda (= picca = punta, ma anche dal francese ‘piocheur’ = che scava); monaca, sorella di Forese, fu costretta dal fratello Corso Donati a lasciare il convento e a sposarsi) e dimmi se c’è tra costoro che mi guardano qualcuno da notar (da citare)”.

Piccarda (= picca = punta, ma anche dal francese ‘piocheur’ = che scava) sorella di Forese (= dal latino ‘forensis’ = che viene da fuori) rappresenta la dantesca ‘punta che scava’; per lei il Nostro ‘si scava’ e se Forese è il suo ‘Folle’ interiore (v. canto precedente), Piccarda è la sua ‘Luna’ interiore. La ‘Luna’ va intesa ovviamente come ‘sentiero’ da conoscere dell’immaginazione, dell’illusione, della conquista faticosa della Verità, dell’istruzione per mezzo del dolore e della rinuncia ecc.. ricordiamo che il sentiero sentimentale lunare è un sentiero faticoso e irto di ostacoli, ma che la sua conoscenza è  indispensabile per il raggiungimento  del sentiero razionale del ‘Sole’. (v. in  www.teatrometafisico.it  Archetipi, le relative Lezioni –spettacolo n. 18 e 19)
"La mia sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, trïunfa lieta
ne l’alto Olimpo già di sua corona". 15

Sì disse prima; e poi: "Qui non si vieta
di nominar ciascun, da ch’è sì munta
nostra sembianza via per la dïeta. 18

“A lui Forese risponde: “Mia sorella, che non so se fosse più bella o più buona, si trova già trionfante in Paradiso (Dante la incontrerà nel cielo della Luna), beata con la sua corona (di luce). Qui è necessario dire il nome di ciascuno, perché si è irriconoscibili a causa della pena (il digiuno che provoca la magrezza)…” 

Stabilito che tutta l’energia della ‘Luna’ dantesca (bella e buona) è già stata recuperata, ora conviene approfondire, conoscendone i ‘nomi’ e le caratteristiche, i penitenti di questa cornice (i difetti di Dante che essi rappresentano).
Questi", e mostrò col dito, "è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
di là da lui più che l’altre trapunta 21

ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
dal Torso fu, e purga per digiuno
l’anguille di Bolsena e la vernaccia". 24
“…Costui” e lo mostra col dito “ è Bonagiunta (= buona unione; notaio e poeta, conosciuto da Dante) da Lucca ( dal celtico luk = palude); e quel volto, più incavato degli altri è stato papa (Martino IV), capo della Chiesa, proviene da Torso (Tours = giri) e qui si purifica dei peccati di gola: (era un famoso) buongustaio delle anguille di Bolsena (lago laziale, dall’etrusco ‘velzna’ = terra fertile) affogate nella Vernaccia (vino toscano da ‘vernacolo’ = servile)”.
Molti altri mi nomò ad uno ad uno;
e del nomar parean tutti contenti,
sì ch’io però non vidi un atto bruno. 27

Vidi per fame a vòto usar li denti
Ubaldin da la Pila e Bonifazio
che pasturò col rocco molte genti. 30
Forese nomina a Dante molti altri penitenti e tutti sembrano lieti di essere ricordati, nessuno escluso. Così Dante vede Ubaldin  (= ardito; padre dell’arcivescovo Ruggieri, v. inferno canto XXXIII, v. 14) della Pila (= vaso alto; castello del Mugolio) e Bonifazio (= fortunato; dei Fieschi, arcivescovo di Ravenna) che governò da vescovo molte genti, usare i denti a vuoto per la fame.
Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio
già di bere a Forlì con men secchezza,
e sì fu tal, che non si sentì sazio. 33

Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza
più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca,
che più parea di me aver contezza. 36
Vide il signor Marchese (= che controlla le marche, cioè i confini; degli Argogliosi di Forlì; podestà di Faenza nel 1296, conosciuto per uno che beveva sempre perché aveva sempre sete) che ebbe modo di bere in Forlì (da ‘forum Livii’ = portico dei lividi)  con meno sete (di ora), ma non si saziò. Poi come fa quello che guarda e poi sceglie, così fa Dante con lo (spirito) di Lucca (Bonagiunta) che sembra più lieto degli altri di vederlo.

Ora al Nostro è data la possibilità di notare, cioè di porre l’attenzione, su alcuni di quei ‘penitenti’, sue componenti interiori, inerenti alla sua ‘gola o avidità’, e che lo segnano tutt’ora in qualche modo  (la sesta ‘P’ ancora è incisa sulla sua fronte); Bonagiunta (unione) da Lucca (palude): una certa avidità nella capacità di unificare le conoscenze anche su argomenti scabrosi; il papa (moralità, dovere) da Torso (che ruota), noto buongustaio delle anguille (serpenti) di Bolsena (terra fertile) nella Vernaccia (vino servile): una certa avidità nell’accettare i doveri che provengono dai cambiamenti, preferendo quelli un po` serpentini ma che diventano utili  se uniti allo spirito di umiltà(ricordiamo che Dante è un esule:  cfr. l’esagramma n. 56 ‘Il Viandante’ in www.taozen.it  ‘I King e Kabbalah’); Ubaldin (ardito) della Pila (vaso alto) e Bonifazio (fortunato): l’avidità nell’aspirare ad essere un ‘vaso’ che si innalza; e che ha fortuna, avidità che viene ora mortificata: a vòto usa… li denti. Ed inoltre: Marchese (che controlla i confini) che poté bere in Forlì (nel portico dei ‘lividi’) ma non si saziò: l’avidità di chi, ben conoscendo le proprie grandi possibilità, e sapendo di poter suscitare invidia, vuole ugualmente andare avanti. Tra tutti questi ‘difetti’, Dante sceglie di approfondire quello di Bonagiunta da Lucca.
El mormorava; e non so che "Gentucca"
sentiv’io là, ov’el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca. 39

"O anima", diss’io, "che par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
e te e me col tuo parlare appaga". 42
Costui mormora qualcosa ma il Nostro sente  solo la parola ‘Gentucca’(= gent-il-donna-di-Lucca)  proprio là dove la giustizia punisce i peccatori (nel gruppo dei penitenti). Così Dante gli chiede: “O anima che sembri così desiderosa di parlarmi, fatti capire, appagherai sia te che me”.
"Femmina è nata, e non porta ancor benda",
cominciò el, "che ti farà piacere
la mia città, come ch’om la riprenda. 45

Tu te n’andrai con questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere. 48

Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
’Donne ch’avete intelletto d’amore’ ". 51
Allora quello a lui: “E` già nata una donna, e ancora non porta il velo (= non è sposata; forse certa ‘Gentucca’ Morla, che ospiterà Dante in esilio) che ti renderà gradita la mia città, anche se di essa si parla male. Tu ci lascerai con questa profezia, e se anche ora ne dubiti, la realtà te la mostrerà vera. Ma dimmi se io ho qui davanti a me colui che ha dato l’avvio alla nuova poesia che incomincia ‘Donne che avete intelletto d’amore’”.

Bonagiunta (= unione) da Lucca (palude), questo ‘difetto dantesco’, interpellato sulla parola Gentucca (= gentil donna della palude) che Dante gli ha sentito farfugliare, gli spiega che si può trovare del buono ed imparare anche da ciò che sembra ‘palude’ (dagli argomenti scabrosi), purché si sappia trattarlo  con ‘gentilezza’.

Poi il personaggio passa a interrogarlo e lo sollecita a parlare apertamente della sua arte, cioè del ‘dolce stil novo’, la concezione della poesia che considera l’amore come un’esperienza globale, di carattere quasi mistico-religioso, che idealizza la donna e la rende musa ispiratrice, e di cui i rappresentanti furono Guido Cavalcanti e lo stesso Dante. Ma il ‘dolce stil novo’ dantesco  è anche la ‘sottile nuova tecnica’ realizzativa che presuppone la possibilità di conoscere il Divino, (conoscere il Sé, cioè conoscerSi) attraverso la ‘donna’ spirituale che ogni uomo ha in sé (o l’‘uomo’ spirituale che ogni donna ha in sé).
E io a lui: "I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando". 54

"O frate, issa vegg’io", diss’elli, "il nodo
che ’l Notaro e 
Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo! 57
E Dante a lui: “Io annoto ciò che Amore mi ispira, e scrivo ciò che Lui mi detta”. E quello gli risponde: “O fratello, adesso io vedo ciò che impedì a me, al Notaro (= che conosce i segni; Iacopo da Lentini) e a Guittone (= grande attore; d’Arezzo; seguaci della poesia della tradizione siciliana e toscana) di raggiungere quella nuova poesia (il dolce stile) che però intendo…”.

La ‘tecnica realizzativa dantesca’ è tutta nei vv. 52-54: L’Amore (Tiphereth, centro del cuore, della Kabbalah) detta, la personalità (Malkuth) obbedisce al dettato: esegue. Solo con questa totale sottomissione della personalità al centro della Bellezza, dell’Amore, si realizza il ‘dolce stil novo’ non certo con con l’abilità letteraria (Bonagiunta), o la conoscenza dei ‘segni’(Notaro), cioè delle parole o con l’abilità recitativa (Guittone) dei versi…(tutte cose esteriori).
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne; 60

e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l’uno a l’altro stilo";
e, quasi contentato, si tacette. 63
“…Ecco, (ora) io vedo bene come le vostre penne ubbidiscano (fedelmente) al dettatore (all’Amore), cosa che non fu per le nostre; è questa la differenza tra i due stili” e, come soddisfatto, (Bonagiunta) tace (ha capito la lezione).
Come li augei che vernan lungo ’l Nilo,
alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan più a fretta e vanno in filo, 66

così tutta la gente che lì era,
volgendo ’l viso, raffrettò suo passo,
e per magrezza e per voler leggera. 69
Come gli uccelli (le gru) che svernano lungo il Nilo a volte nell’aria formano una schiera, e poi volando più in fretta vanno in fila, così quella gente, volgendo lo sguardo, affretta il passo, agile sia per la snellezza, sia per la volontà (di purificazione).
E come l’uom che di trottare è lasso,
lascia andar li compagni, e sì passeggia
fin che si sfoghi l’affollar del casso, 72

sì lasciò trapassar la santa greggia
Forese, e dietro meco sen veniva,
dicendo: "Quando fia ch’io ti riveggia?". 75
E come l’uomo che, stanco di correre, lascia andare avanti i compagni e va al passo per rallentare l’affanno del petto (casso), così Forese (= che viene da fuori) lascia andare avanti il gruppo dei penitenti, seguendo Dante e dicendogli: “Quando ti rivedrò?”
"Non so", rispuos’io lui, "quant’io mi viva;
ma già non fïa il tornar mio tantosto,
ch’io non sia col voler prima a la riva; 78

però che ’l loco u’ fui a viver posto,
di giorno in giorno più di ben si spolpa,
e a trista ruina par disposto". 81
E Dante gli risponde: “Non so quanto mi resta da vivere; ma non (ci rivedremo) così presto come vorrebbe il mio desiderio; perché il luogo dove mi trovo (Firenze) diviene di giorno in giorno sempre più povero di ‘bene’ e sempre più avviato alla rovina”.
"Or va", diss’el; "che quei che più n’ ha colpa,
vegg’ïo a coda d’una bestia tratto
inver’ la valle ove mai non si scolpa. 84

La bestia ad ogne passo va più ratto,
crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,
e lascia il corpo vilmente disfatto. 87

Non hanno molto a volger quelle ruote",
e drizzò li occhi al ciel, "che ti fia chiaro
ciò che ’l mio dir più dichiarar non puote. 90
E Forese: “Ora va, che quello che più ha colpa (della rovina di Firenze, è Corso Donati, fratello dello stesso Forese, di parte Nera; sotto il priorato di Dante  nel 1300 fu confinato, poi con l’aiuto di Bonifacio VIII, tornò in Firenze e fece esiliare i Bianchi, tra cui Dante. Più tardi, arrestato dai suoi come traditore, morì nel 1308, ucciso dai soldati) io lo vedo trascinato dalla coda di una bestia nell’abisso (nell’inferno) là dove non è possibile scolparsi. La bestia va sempre più in fretta quindi lo colpisce e lo lascia disfatto (i traditori venivano condannati ad essere trascinati dalla coda di un cavallo; nella profezia Forese fa coincidere il cavallo con il demonio). Non passeranno troppi anni”, Forese alza gli occhi al cielo, “che ti sarà chiaro ciò che dico; dire di più non mi è possibile …”

Forese (= che viene da fuori) profetizza la morte e la ‘pena infernale’ per il ‘fratello’ colpevole della rovina di Firenze (= che fiorisce), cioè di quell’energia relativa al centro Tiphereth di Dante che è stata  invertita totalmente e usata per il male (odio, egoismo, ecc.). Non essendo più recuperabile, essa purtroppo va tutta perduta; infatti Corso (= che è tras-corso), cioè il suo passato negativo, che ha tradito la sua  ‘Firenze’, il centro del cuore, come traditore viene punito; l’impossibilità di usare la sua energia per la costruzione dell’Albero bianco crea la sua disfatta  che consiste  nell’essere  precipitato nell’inferno (giù, nell’albero nero) senza speranza di appello.
Tu ti rimani omai; ché ’l tempo è caro
in questo regno, sì ch’io perdo troppo
venendo teco sì a paro a paro". 93

Qual esce alcuna volta di gualoppo
lo cavalier di schiera che cavalchi,
e va per farsi onor del primo intoppo, 96

tal si partì da noi con maggior valchi;
e io rimasi in via con esso i due
che fuor del mondo sì gran marescalchi. 99
“…(Io vado), ma tu resta; perché  il tempo in questo regno è prezioso ed io ne perdo troppo venendo al passo con te”. Come un cavaliere esce al galoppo da una schiera che sta cavalcando e avanza per avere l’onore del primo scontro, così Forese si allontana  a grandi passi, e il Discepolo rimane sul sentiero con i due marescalchi (= marescialli), grandi maestri del mondo (Virgilio e Stazio). 

E quando innanzi a noi intrato fue,
che li occhi miei si fero a lui seguaci,
come la mente a le parole sue, 102

parvermi i rami gravidi e vivaci
d’un altro pomo, e non molto lontani
per esser pur allora vòlto in laci. 105
Forese si è allontanato e gli occhi di Dante lo hanno seguito come la sua mente ha seguito le parole (della profezia); ed ecco che appare al Nostro un altro albero, (come quello del canto XXII) gravido di ‘pomi’;  non è molto lontano, ma egli lo scorge solo ora, perché ora si è girato da quella parte.

Lasciato dalla ‘follia di gioventù’ (Forese) il Nostro rimane con le sue due guide: la Ragione (Virgilio) e la piccola Illuminazione (Stazio), guide che dovrebbero essere le grandi maestre della  vita  umana, ed ecco che Dante è pronto per un’ulteriore conoscenza legata alla sesta cornice: ecco che gli appare il secondo albero di pomi (cfr. canto XXII vv. 130-135 per il primo).
Vidi gente sott’esso alzar le mani
e gridar non so che verso le fronde,
quasi bramosi fantolini e vani 108

che pregano, e ’l pregato non risponde,
ma, per fare esser ben la voglia acuta,
tien alto lor disio e nol nasconde. 111
 
Poi si partì sì come ricreduta;
e noi venimmo al grande arbore adesso,
che tanti prieghi e lagrime rifiuta. 114
Dante vede una schiera di penitenti sotto l’albero che alzano le mani e gridano qualcosa che non intende; sembrano bambini avidi e sciocchi, che pregano (per ottenere qualcosa) e il pregato non risponde, ma per aumentare il loro desiderio tiene alta la cosa desiderata e non la nasconde. Poi quella gente si allontana come ricreduta (disingannata) e i tre poeti si avvicinano a quel grande albero che respinge lacrime e preghiere.

"Trapassate oltre sanza farvi presso:
legno è più sù che fu morso da Eva,
e questa pianta si levò da esso". 117

Sì tra le frasche non so chi diceva;
per che 
Virgilio e Stazio e io, ristretti,
oltre andavam dal lato che si leva. 120
“Passate oltre, senza avvicinarvi: più in alto c’è l’albero di cui Eva (= che da vita) morse il frutto, questa pianta deriva da quell’albero.” Questa voce proviene dalle foglie, ma non si sa chi parla. Intanto i tre, Virgilio, Stazio e Dante, stretti tra loro, passano oltre, aderendo al lato che si innalza (alla roccia).

Questo secondo albero come il primo (del canto XXII) deriva dall’Albero della Conoscenza del Bene e del male ( v. in www.taozen.it  Testi sacri ‘Commento alla Genesi cap. 3) il cui frutto fu assaporato da Eva ( dalla natura umana con peccato di gola e di superbia) e come quello rifiuta i propri frutti a chi in vita li ha usati per la gola e  l’avidità, ma  mentre il primo albero esorta alla ‘temperanza’, questo narra di  ‘intemperanza’ punita.

"Ricordivi", dicea, "d’i maladetti
nei nuvoli formati, che, satolli,
Tesëo combatter co’ doppi petti; 123

e de li Ebrei ch’al ber si mostrar molli,
per che no i volle Gedeon compagni,
quando inver’ Madïan discese i colli". 126
La Voce dice ancora: “Ricordatevi  dei dannati nati dalla nuvola e che avevano la doppia natura (metà uomini e metà cavalli, i Centauri, che al banchetto delle nozze di Piritoo e Ippodamia, ebbri, tentarono di violentare le donne intervenute –Metamorfosi di Ovidio XII, 210-535) furono uccisi da Teseo (= che stabilisce); e (ricordatevi) degli Ebrei (da ‘eber’ = aldilà, passati oltre) che furono rifiutati (dal Signore) perché quando Gedeone (= che spezza, che ha forza) doveva combattere contro i Medianiti si mostrarono molli (deboli, ingordi) nel bere (alla fonte di Carod - dal libro dei Giudici 7, 4-7)”. 

Nel primo esempio, dove la gola diventata violenza e lussuria, vediamo uccisi da Teseo (= che stabilisce il giusto) i maledetti (Centauri) che invece di onorare e rispettare il banchetto di nozze, per eccesso  di ebrezza tentano di violare la sposa e le altre ospiti; nel secondo esempio abbiamo gli Ebrei (coloro che già sono passati oltre) che vengono rifiutati dal Signore per mezzo di Gedeone (il forte) perché molli e quindi incapaci di distruggere il nemico (i Medianiti). In entrambi i casi si tratta di vizi di ‘gola’ (scorie della sephirah Chesed)  che assorbono l’energia dell’Albero destinata la prima alle ‘nozze’ quindi  alla sephirah Daath (lo sviluppo della Coscienza) e la seconda al sephirah Geburah (alla protezione della Forza).
Sì accostati a l'un d'i due vivagni
passammo, udendo colpe de la gola
seguite già da miseri guadagni. 129

Poi, rallargati per la strada sola,
ben mille passi e più ci portar oltre,
contemplando ciascun sanza parola. 132
Così i tre passano accosto all’argine mentre ascoltano le colpe del vizio della gola e le relative dolorose conseguenze. Poi riflettendo in silenzio, e allargandosi sulla strada ormai deserta, percorrono oltre mille passi.
"Che andate pensando sì voi sol tre?",
sùbita voce disse; ond’io mi scossi
come fan bestie spaventate e poltre. 135

Drizzai la testa per veder chi fossi;
e già mai non si videro in fornace
vetri o metalli sì lucenti e rossi, 138

com’io vidi un che dicea: "S’a voi piace
montare in sù, qui si convien dar volta;
quinci si va chi vuole andar per pace". 141
Quindi (odono) una Voce dire: “Che andate pensando, voi tre da soli?” Al che Dante si scuote come una bestia spaventata e pigra. Drizza la testa per vedere chi sia: mai ha visto in una fornace vetro o metallo così incandescenti come vede quell’(angelo) che continua: “Se desiderate salire, dovete girare qui; di qui si sale per andare verso la Pace”.
L’aspetto suo m’avea la vista tolta;
per ch’io mi volsi dietro a’ miei dottori,
com’om che va secondo ch’elli ascolta. 144

E quale, annunziatrice de li albori,
l’aura di maggio movesi e olezza,
tutta impregnata da l’erba e da’ fiori; 147

tal mi senti’ un vento dar per mezza
la fronte, e ben senti’ mover la piuma,
che fé sentir d’ambrosïa l’orezza. 150


 E senti’ dir: "Beati cui alluma
tanto di grazia, che l’amor del gusto
nel petto lor troppo disir non fuma, 153

esurïendo sempre quanto è giusto!".

La visione (abbagliante) ha tolto la vista al Nostro che si gira verso i due Maestri, come uno che va, ma segue ciò che ascolta. E come l’aria di maggio, quando annuncia l’alba, spira e profuma di erba e fiori, così egli sente come una brezza sulla fronte: è la piuma (dell’ala dell’Angelo che cancella la sesta ‘P’: è il Guardiano della soglia della sephirah Chesed che permette il ‘passo’ alla settima cornice e)  che emana profumo d’ambrosia. E sente ancora la Voce dell’Angelo pronunciare la Beatitudine: “Beati coloro che, illuminati dalla Grazia, avendo sempre fame del ‘giusto’ non eccedono nel desiderio del gusto” (Mt. V, 6: ‘Beati coloro che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati’).

 

Indietro