PURGATORIO - CANTO XXVI


Interpretazione cabalistica di Franca Vascellari
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Mentre che sì per l’orlo, uno innanzi altro,
ce n’andavamo, e spesso il buon maestro
diceami: "Guarda: giovi ch’io ti scaltro"; 3

feriami il sole in su l’omero destro,
che già, raggiando, tutto l’occidente
mutava in bianco aspetto di cilestro; 6

e io facea con l’ombra più rovente
parer la fiamma; e pur a tanto indizio
vidi molt’ombre, andando, poner mente. 9
I tre Pellegrini continuano a percorrere la settima cornice uno dietro l’altro (tra le fiamme e il precipizio), e spesso Virgilio dice a Dante: “Stai attento, ma ti sia di giovamento la mia guida”; il sole, che sta cambiando a occidente il celeste in bianco (cioè sta iniziando a tramontare) colpisce sulla spalla destra il Nostro, la cui ombra (proiettata sul fuoco della parete) sembra renderne più rovente (da ‘rubere’= rosseggiare) la fiamma; e molti spiriti penitenti, pur camminando, notato questo particolare indizio (da ‘index’ = che indica).
Questa fu la cagion che diede inizio
loro a parlar di me; e cominciarsi
a dir: "Colui non par corpo fittizio"; 12

poi verso me, quanto potëan farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
di non uscir dove non fosser arsi. 15
Così cominciano a parlare fra loro di Dante dicendo: “Costui non sembra avere un corpo fittizio (da ‘finctus’, simulato, sottile)” ; poi avanzano sicuri verso di lui, per quanto possono, badando di non uscire dal fuoco.

La differenza tra il corpo ‘vero’, fisico  di Dante, Discepolo sul Sentiero ed i corpi fittizi, non veri (da finctus, simulati, sottili) dei penitenti e che loro notato sempre con stupore e ammirazione è uno dei motivi ricorrenti della Commedia  e ribadisce quello che dicevamo nel canto XXV, vv. 1-9: con il corpo fisico, cioè da vivo, Dante può ancora fare quello che i morti non possono più fare: può progredire, crescere spiritualmente in virtù e grazia, alimentando e facendo fiorire le sephiroth del suo Albero bianco. Certamente può anche regredire se pecca, ma tutto dipende dalla sua volontà; inoltre, da vivo, può aiutare i morti ed è quello che gli chiedono spesso i personaggi che incontra nelle varie cornici (anche quelli di questa settima).

"O tu che vai, non per esser più tardo,
ma forse reverente, a li altri dopo,
rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo. 18

Né solo a me la tua risposta è uopo;
ché tutti questi n’ hanno maggior sete
che d’acqua fredda Indo o Etïopo. 21

Dinne com’è che fai di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora
di morte intrato dentro da la rete". 24
“O tu che cammini dietro agli altri due, non perché non sai andare più in fretta, ma forse solo per rispetto, rispondi a me che ardo per la sete e per il fuoco. E la tua risposta non sia solo per me, ma per tutti costoro (il gruppo) che  hanno più sete di quanta ne abbiano gli Indiani o gli Etiopi dell’acqua fresca. Dicci come mai fai da parete al sole (fai ombra), come se tu non fossi ancora entrato nella rete della morte”.

Il termine morte (dal sanscrito ‘mriyate = egli muore, si spegne) indica la fine di ciò che sta di qua, nel mondo fisico, ma, per chi crede nell’esistenza dell’anima, è pure ciò che introduce nell’aldilà; è quindi solo il passaggio tra due stati di coscienza, dal ‘luogo’ della vita terrena, a quello della vita ultraterrena; tale ‘passaggio’ viene però da questo penitente considerato una rete, cioè una trappola, in cui gli impreparati cadono come pesci o uccelli; perché? Forse perché non avendo ancora raggiunto la beatitudine, pensa che per lui è stata una ‘trappola’: in un certo qual modo egli si dispiace di non aver saputo usare nel bene, più di quanto abbia fatto, la sua vita, cosa che invece Dante, essendo ancora vivo, può fare con la sua. Oppure proprio perché la morte è in sé una rete in quanto ‘setaccio’, ‘vaglio’, ‘filtro’ che separa ciò che va conservato (l’energia positiva delle Sephiroth) da ciò che va riciclato (l’energia negativa delle qelipoth).
Sì mi parlava un d’essi; e io mi fora
già manifesto, s’io non fossi atteso
ad altra novità ch’apparve allora; 27

ché per lo mezzo del cammino acceso
venne gente col viso incontro a questa,
la qual mi fece a rimirar sospeso. 30
In tal modo uno di loro interroga il Nostro ed egli sta già per rispondergli, quando viene attirato e distratto da un nuovo avvenimento: in mezzo al fuoco, ma dalla parte opposta procede un altro gruppo di penitenti.
Lì veggio d’ogne parte farsi presta
ciascun’ombra e basciarsi una con una
sanza restar, contente a brieve festa; 33

così per entro loro schiera bruna
s’ammusa l’una con l’altra formica,
forse a spïar lor via e lor fortuna. 36
Le due schiere si avvicinano e sollecite si baciano gli uni con gli altri, senza fermarsi, lieti della loro breve gioia, proprio come fanno le formiche che si ammusano  (= annusano) tra loro (quando si incontrano) forse cercando la loro strada e il loro destino.

Come le formiche quando si incontrano le due schiere ammusandosi ‘scambiano’ certamente amore, ma forse anche informazioni sulle loro situazioni di penitenti, abituandosi gradualmente, visto che oramai sono all’ultima cornice dell’espiazione, ad essere uno con tutti e col Tutto.
Tosto che parton l’accoglienza amica,
prima che ’l primo passo lì trascorra,
sopragridar ciascuna s’affatica: 39

la nova gente: "Soddoma e Gomorra";
e l'altra: "Ne la vacca entra Pasife,
perché 'l torello a sua lussuria corra". 42
Terminate le effusioni, prima di continuare il cammino, i nuovo arrivati tutti insieme gridano: “(Ricordiamo) Sodoma e Gomorra” (le città che furono distrutte dal Signore con una pioggia di fuoco perché i suoi abitanti praticavano l’omosessualità; Genesi 19, 23-29; v. ns/ ‘Commento alla Genesi’  in
www.taozen.it  Testi sacri) e gli altri: “Pasifae (dal greco ‘pasi’ = a tutti e ‘fero’ = mostro) entra nella vacca affinché il toro esaudisca la sua lussuria” (Pasifae, moglie di Minosse, re di Creta, si introdusse in una vacca di legno costruita da Dedalo, per accoppiarsi con un toro e generò il Minotauro. v. il relativo mito in www.taote.it   miti).
Poi, come grue ch’a le montagne Rife
volasser parte, e parte inver’ l’arene,
queste del gel, quelle del sole schife, 45

l’una gente sen va, l’altra sen vene;
e tornan, lagrimando, a’ primi canti
e al gridar che più lor si convene; 48

e raccostansi a me, come davanti,
essi medesmi che m’avean pregato,
attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti. 51
Poi, come le gru che migrano alcune verso i monti Rifei (= monti Iperborei; a nord) e le altre verso i deserti (a sud) queste per evitare il troppo freddo e quelle il troppo caldo, così fanno le due schiere di penitenti: (si separano), una va, l’altra viene e tornano, piangendo, ai primi canti (v. Purg. canto XXV, v. 121) e alle grida che più gli si addicono; e quei stessi che prima si erano incuriositi, si avvicinano ora a Dante per ascoltare attenti la sua risposta.
Io, che due volte avea visto lor grato,
incominciai: "O anime sicure
d’aver, quando che sia, di pace stato, 54

non son rimase acerbe né mature
le membra mie di là, ma son qui meco
col sangue suo e con le sue giunture. 57

Quinci sù vo per non esser più cieco;
donna è di sopra che m’acquista grazia,
per che ’l mortal per vostro mondo reco. 60
E il Discepolo, che per due volte (per la seconda volta) ha capito ciò che desiderano, risponde: “O anime sicure della salvezza, il mio corpo non è deceduto di là, né da giovane, né da vecchio, ma è qui completo con il sangue e le articolazioni. Salgo (il monte) per non più peccare; sopra (in cielo), c’è per me una Donna per la cui Grazia compio il mio viaggio attraverso questo mondo di purificazione…”
Ma se la vostra maggior voglia sazia
tosto divegna, sì che ’l ciel v’alberghi
ch’è pien d’amore e più ampio si spazia, 63

ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba
che se ne va di retro a’ vostri terghi". 66
“...Possa il vostro maggior desiderio essere esaudito al più presto, cosicché il cielo vi accolga con amore nella sua ampiezza; ma ditemi, affinché  io possa scrivere (di voi) chi siete e chi sono quelli che vanno dalla parte opposta”.
Non altrimenti stupido si turba
lo montanaro, e rimirando ammuta,
quando rozzo e salvatico s’inurba, 69

che ciascun’ombra fece in sua paruta;
ma poi che furon di stupore scarche,
lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta, 72

"Beato te, che de le nostre marche",
ricominciò colei che pria m’inchiese,
"per morir meglio, esperïenza imbarche! 75
Come il montanaro rozzo e abituato a vivere nei boschi, quando arriva in città ammutolisce e rimane stupito e turbato, allo stesso modo si comportano le anime di quel gruppo, ma terminato lo stupore, cosa che succede presto in chi è saggio, ecco che quello che prima aveva posto la domanda, esclama: “Beato te che fai esperienza di questi ‘luoghi’ per poi avere una morte migliore!…”

Il Nostro mette in bocca a questo spirito in una sola terzina l’insegnamento base della sua Commedia: sperimentare i propri mondi sottili prima del ‘passaggio’ per poi viverlo nel modo migliore. E come? Interiorizzando il proprio ‘sogno’, la propria vita, la propria personale ‘Commedia’, vale a dire ‘visitando’ se stessi nella parte più intima (interiora terrae) e poi, ‘rectificando’ ciò che in essa è errato, riuscire a raggiungere la beatitudine (cfr. inferno canto I ns/ commento ai vv. 130-135).
La gente che non vien con noi, offese
di ciò per che già Cesar, trïunfando,
"Regina" contra sé chiamar s’intese: 78

però si parton "Soddoma" gridando,
rimproverando a sé com’ hai udito,
e aiutan l’arsura vergognando. 81
“…La gente che non viene con noi (e va nella direzione opposta) peccò (di sodomia) come Cesare (= capo) che durante il trionfo si sentì chiamare ‘regina’ (Giulio Cesare fu deriso dai suoi soldati perché lo sapevano amante del re di Bitinia); per questo vanno gridando ‘Sodoma’: rimproverano se stessi e la vergogna aumenta la loro pena…”
Nostro peccato fu ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie l’appetito, 84

in obbrobrio di noi, per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge. 87
“…Il nostro peccato (invece) fu ermafrodito (una ninfa si innamorò del bellissimo figlio di Hermes e di Afrodite, rifiutata da lui, chiese agli dei di non esserne separata; insieme formarono un essere nuovo dalla doppia natura maschile e femminile, appunto: Ermafrodito), fu peccato di lussuria secondo natura (eterosessuale), ma poiché non fummo moderati nel desiderio, ma bestiali, per nostra vergogna, quando ci separiamo gridiamo il nome di colei che si fece bestia (vacca) nella figura di legno …”

I penitenti della settima cornice sono dunque i lussuriosi e vengono divisi in due categorie: quelli contro natura (sodomiti) e quelli secondo natura (ma bestiali). Definiamo innanzi tutto che cosa è la lussuria: dal latino ‘luxus’= eccesso, è lo sfrenato desiderio dei piaceri sensuali. Se il desiderio e il piacere non sono uniti all’amore, inteso come donazione di sé e comunione con l’altro, diventano automaticamente erotismo, eccitazione, voluttà di possesso, con la conseguente saturazione e rifiuto dell’altro non appena soddisfatti. Ricordiamo a questo proposito l’episodio biblico di Tamar e Ammon del Secondo libro di Samuele (13, 1-29 v. in www.teatrometafisico.it  sceneggiature bibliche ‘Davide 2’ e relativa interpretazione cabalistica) in cui la bellissima Tamar, la figlia di Davide, viene dal fratellastro Ammon pazzamente desiderata, poi con l’inganno posseduta, e subito dopo rifiutata e scacciata. Ma gli episodi di lussuria non mancano certo nella Bibbia, solo in Genesi ritroviamo il racconto già citato di violenza carnale omosessuale dei Sodomiti (Gn. 19, 1-12), quello di Dina, figlia di Giacobbe, violentata dal principe Sichem (Gn. 34, 1-31); vi è anche narrato il tentativo della moglie di Potifar di sedurre il giovane servo Giuseppe, il figlio preferito di Giacobbe, venduto dai fratelli, ‘bello di forma e avvenente di aspetto’ (Gn. 39, 4-20) cfr. in www.taozen.it  Testi sacri  i relativi episodi in ‘Commento alla Genesi’.

Per la Kabbalah, come già detto nel canto XXV, la ‘lussuria’ è il vizio scoria della sephirah Netzach (= Vittoria) la cui virtù è la castità. Netzach, che è chiamata la sfera di Venere, deve essere compresa in complementarità con Hod, la sfera di Mercurio; Netzach rappresenta la Natura, la Forza generatrice, ciò che crede e spinge, ciò che fonde il piacere, gli istinti e le emozioni a cui Hod dà la corretta forma, se gli istinti e le emozioni vengono capovolti di valenza, entrambi i centri vengono falsati e resi distruttivi. Netzach inoltre agisce sulla personalità attraverso tutte le arti: la poesia, la danza, il suono, il colore; a questa sepirah attingono tutti gli artisti e attraverso di essa l’arte viene assorbita e trasferita nell’astrale collettivo, e quando si impone un nuovo modello artistico, anche non volendo, tutti lo recepiscono attraverso il suo centro corrispondente, cioè il plesso solare. Per questo coloro che sono dotati artisticamente dovrebbero sentirsi responsabili di quello che attraverso il loro Netzach comunicano ai Netzach  dei loro ammiratori o seguaci, specialmente dei giovani, ancora incapaci di proteggersi dalle influenze negative, ma per potersi sentire ‘responsabili’ tali artisti dovrebbero aver sviluppato il centro della Coscienza Daath…e allora forse, molta ‘arte’ di oggi cioè tante musiche, canzoni, films, quadri, spettacoli, ecc.. finirebbero dritti nella spazzatura!
Or sai nostri atti e di che fummo rei:
se forse a nome vuo’ saper chi semo,
tempo non è di dire, e non saprei. 90

Farotti ben di me volere scemo:
son Guido Guinizzelli, e già mi purgo
per ben dolermi prima ch’a lo stremo". 93
“…Ora conosci le nostre azioni ed i nostri peccati, ma se vuoi conoscere i nostri nomi, non c’è tempo per farlo, né io saprei (dirteli). Ma posso soddisfare la tua curiosità su di me: sono Guido (= dal celtico ‘avido’ = saggio) Guinizzelli ( dal celtico ‘winzig’ = piccolo; poeta bolognese, 1230-1276; maestro degli Stilnovisti - Purg. IX, v. 97) e mi trovo già qui perché mi sono pentito dei miei peccati prima della fine”.
Quali ne la tristizia di Ligurgo
si fer due figli a riveder la madre,
tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo, 96

quand’io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d’amor usar dolci e leggiadre; 99

e sanza udire e dir pensoso andai
lunga fïata rimirando lui,
né, per lo foco, in là più m’appressai. 102
Come nel lutto di Ligurgo (= che allontana il lupo) i figli alla vista della madre divennero desiderosi di abbracciarla (= Licurgo, re di Nemea, aveva condannato a morte la schiava Issifile colpevole di non avergli custodito il figlioletto ucciso da un serpente; i figli di lei, affrontando le guardie, la abbracciarono e la salvarono), così il Nostro, al sentirne il nome, diventa desideroso di abbracciare il padre suo e di tutti i poeti stilnovisti, che egli considera migliori di sé e che hanno scritto rime d’amore dolci ed eleganti; ma non osa farlo e rimane a lungo a guardare e a pensare, senza avvicinarglisi (troppo) a causa del fuoco.

Proprio perché Dante si trova nella cornice relativa a Netzach, il centro delle ispirazioni artistiche ecco che egli vi incontra  Guido Guinizzelli (= la piccola saggezza - nell’arte); egli lo riconosce come il padre suo (della sua poesia, del dolce stilnovo); tale personaggio corrisponde al suo artista interiore (Netzach), quello che gli ha permesso di diventare il poeta che è, infatti ha generato in lui, con la sua piccola (modesta) saggezza l’arte delle rime d’amore; ora si sta purgando col fuoco che sublima la torbida passione in purezza e castità; questa  componente interiore, ed ennesima specchiatura, genera nel ‘figlio suo’  ammirazione, rispetto, ed ovviamente un certo timore del fuoco che la redime.

Poi che di riguardar pasciuto fui,
tutto m’offersi pronto al suo servigio
con l’affermar che fa credere altrui. 105

Ed elli a me: "Tu lasci tal vestigio,
per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro,
che Letè nol può tòrre né far bigio. 108

 Ma se le tue parole or ver giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
nel dire e nel guardar d’avermi caro". 111
Dante, sazio di guardare, alla fine offre, con il giuramento che rende gli altri sicuri (della cosa giurata), i suoi servizi (a Guido). Ed egli a lui: “Per quel che sento, tu lasci in me un tale ricordo che il Lete (= dal greco ‘lete’ = dimenticanza; il fiume dell’oblio che si trova in cima al Purgatorio) non cancellerà, né affievolirà, ma se hai giurato il vero, dimmi perché mi dimostri con la parola e lo sguardo tanta affezione”
E io a lui: "Li dolci detti vostri,
che, quanto durerà l’uso moderno,
faranno cari ancora i loro incostri". 114

"O frate", disse, "questi ch’io ti cerno
col dito", e additò un spirto innanzi,
"fu miglior fabbro del parlar materno. 117
E Dante a lui: “Per i vostri dolci versi, che renderanno ancora più cari i vostri incostri (= inchiostri)”. E (Guido) a lui: “Fratello, questo, che ti indico col dito”, e addita uno spirito, lì vicino “è stato migliore artista della lingua volgare…”
Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi. 120

A voce più ch’al ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti. 123
“…Fu il più grande (fra gli scrittori) di versi d’amore e prose in volgare, e non ascoltare quelli che dicono che il più grande fu il trovatore nato a Lemosì (= Limoges = del paese degli olmi; Girault (= Gerardo = ardito; de Bornelh -1175-1220); costoro ascoltano più le dicerie che la verità e danno la loro opinione senza ascoltare l’arte e la ragione…”
Così fer molti antichi di 
Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ ha vinto il ver con più persone. 126

Or se tu hai sì ampio privilegio,
che licito ti sia l’andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio, 129

falli per me un dir d’un paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro". 132
“…Cosi` fecero molti in passato con Guittone (= grande briccone; d’Arezzo 1230-1324, caposcuola della Scuola Toscana) tributandogli lodi di voce in voce, finché è stato vinto dalla verità dei molti. Ora, se tu sei tanto privilegiato che puoi tornare sulla terra, in chiesa, fa dire per me un paternostro (una preghiera) che è quanto più ci occorre qui (in Purgatorio) dove non si può più peccare”

Guido Guinizzelli (il piccolo saggio) mette in guardia la personalità dal credere alla ‘voce della gente’ che spesso sbaglia a giudicare. Il merito (in ogni campo) va attribuito solo a chi ne è degno, e va valutato con la vera arte e la ragione, altrimenti si rischia di conferire onori a chi è come Guittone, cioè solo un gran briccone, (e questo vale per la poesia ma anche per qualunque altra qualità o dote umana)…

Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l’acqua il pesce andando al fondo. 135

Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
e dissi ch’al suo nome il mio disire
apparecchiava grazïoso loco. 138
Poi (Guido Guinizzelli) sparisce nel fuoco, come un pesce che si reimmerge nell’acqua, forse per lasciare spazio ad un vicino. Dante intanto si avvicina a quello che lui gli ha indicato chiedendogli per favore il nome.

Guido Guinizzelli (la piccola saggezza) accetta commosso l’ammirazione di chi lo considera il padre suo ma indica modestamente un altro come miglior fabbro del parlar materno: è Arnaut (= Arnaldo = possente aquila): non è con la ‘piccola saggezza’ che si può essere di esempio nell’arte e fondare una scuola di poesia esoterica, ma piuttosto diventando come ‘un’aquila possente’; ricordiamo a questo proposito la simbologia dell’aquila (cfr. canto IX, v. 1-33): uccello solare per eccellenza essa rappresenta tutti gli dei del cielo, in particolare il sole, la maestà, l’autorità, il potere spirituale, l’ascesa, la Vittoria e l’aspirazione all’elevazione nella conoscenza e nella Coscienza.
El cominciò liberamente a dire:
"Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. 141

Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’ esper, denan. 144
 Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!". 147

Poi s’ascose nel foco che li affina.

E quello comincia a dire: “Tanto mi è gradita la vostra graziosa domanda che non posso nascondermi a voi. Sono Arnaut (=Arnaldo = aquila potente; Daniello (= eletto del Signore), trovatore provenzale del 1200, maestro del ‘trobar clus’ = della ‘maniera oscura’, Dante lo imitò nelle ‘rime petrose’), che piange e canta; vedo la passata follia (il peccato) e con gioia la beatitudine futura. Ora vi prego, per il Valore Divino che vi guida in cielo, di ricordare il mio dolore al momento giusto”. Poi si nasconde nel fuoco che li purifica.

E` dunque l’eletto del Signore (Daniello),  Arnaut, (e non Guido), l’aquila possente, che ha diritto di essere omologata al centro ‘Netzach’ del Nostro: questo suo potente centro ‘aquilino’  offre nella sua arte l’insegnamento sublime, però ancora non l’ha svelato del tutto perché lo sta affinando nel foco che lo nasconde…

 

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