PURGATORIO - CANTO XXXII
Interpretazione cabalistica di Franca
Vascellari
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Tant’eran li occhi miei fissi e
attenti a
disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m’eran tutti spenti. 3
Ed essi quinci e
quindi avien parete
di non caler - così lo santo riso
a sé traéli con l’antica rete! -; 6
quando per forza mi
fu vòlto il viso
ver’ la sinistra mia da quelle dee,
perch’io udi’ da loro un "Troppo fiso!"; 9
e la disposizion
ch’a veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi,
sanza la vista alquanto esser mi fée. 12
occhi del Nostro sono tanto fissi e
intenti a saziare la sete decennale (di Beatrice che, morta da 10 anni,
non ha più visto) che gli altri suoi sensi sono (come) spenti, sopiti. A
loro non interessa assolutamente niente altro che il
santo riso
di Lei che li ha avvinti con l’antico fascino; ma ecco che le dee (le
Virtù) attirano l’attenzione di Dante verso la parte sinistra dicendo:
“(Guardi) troppo fisso!” e così egli resta
sanza vista,
(abbagliato) come quando si fissa il sole e se ne rimane feriti.
Le Virtù rimproverano a Dante di
‘guardare troppo fisso’ il volto di Beatrice. Come possiamo interpretare
questo ammonimento, se proprio loro, nel canto precedente (vv. 115
-145), l’ avevano esortato a farlo? Probabilmente vogliono evitargli il
pericolo di rimanere abbagliato e di non riuscire ad apprendere la
lezione che segue. Allorché la personalità ha conosciuto la beatitudine
del contatto col Sé (Io Sono, Daath, Coscienza ecc.) non può perdersi
totalmente nell’estasi, ma, essendo ancora viva, deve adempiere il
‘Servizio’ che le viene richiesto, cioè, dopo aver sviluppato il braccio
verticale della sua Croce interiore deve sviluppare quello orizzontale,
e passare agli altri l’insegnamento ricevuto, ma per poterlo fare, deve
innanzi tutto apprenderlo appieno.
Ma poi ch’al poco il viso riformossi
(e dico ’al poco’ per rispetto al molto
sensibile onde a forza mi rimossi), 15
vidi ’n sul braccio
destro esser rivolto
lo glorïoso essercito, e tornarsi
col sole e con le sette fiamme al volto. 18
come la sua vista riprende a vedere
gli oggetti
deboli,
deboli rispetto alla forte senzazione (di vedere Beatrice), ecco che
egli nota il
glorioso
(da una radice sancrita ‘klu’ = che risuona)
corteo girarsi verso oriente, con i sette candelabri in testa.
Come sotto li scudi per salvarsi
volgesi schiera, e sé gira col segno,
prima che possa tutta in sé mutarsi; 21
quella milizia del
celeste regno
che procedeva, tutta trapassonne
pria che piegasse il carro il primo legno. 24
una schiera sotto gli scudi per
salvarsi si gira con l’insegna, prima che tutti possano mutare la
posizione, così quel drappello del Regno Celeste, sfila tutto, prima che
il carro abbia voltato.
Indi a le rote si tornar le donne,
e ’l grifon mosse il benedetto carco
sì, che però nulla penna crollonne. 27
La bella donna che
mi trasse al varco
e Stazio e io seguitavam la rota
che fé l’orbita sua con minore arco. 30
anche le Virtù si girano e il
Grifone
muove il carro, senza che le sue penne si alterino. Dante, Stazio e
Matelda (che l’ha portato fin lì) si dispongono accanto alla ruota
destra.
Sì passeggiando l’alta selva vòta,
colpa di quella ch’al serpente crese,
temprava i passi un’angelica nota. 33
Forse in tre voli
tanto spazio prese
disfrenata saetta, quanto eramo
rimossi, quando Bëatrice scese. 36
percorrono la foresta, rimasta
deserta per colpa di colei (Eva) che credette al
serpente
mentre un canto angelico dà il ritmo ai loro passi. Percorso un tragitto
di circa tre
voli di saetta,
Beatrice
scende dal carro.
Tutto il corteo, allegoria
dell’Albero dell’umanità, con Dante (la personalità che deve apprendere
ora un insegnamento di carattere universale), accompagnato da Stazio (la
sua capacità di ricevere illuminazioni) e da Matelda (la sua energia
psichica purificata) percorre un cammino di ‘tre tiri di
saetta’:
la
saetta
‘vola’, e il pensiero
del Nostro
deve imparare a volare come la
saetta
per assimilare quel che segue; Beatrice, (la Coscienza) scende dal
carro, e si fa spettatrice degli avvenimenti per meglio istruire il suo
Discepolo.
Io senti’ mormorare a tutti "Adamo";
poi cerchiaro una pianta dispogliata
di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo. 39
La coma sua, che
tanto si dilata
più quanto più è sù, fora da l’Indi
ne’ boschi lor per altezza ammirata. 42
"Beato se’, grifon,
che non discindi
col becco d’esto legno dolce al gusto,
poscia che mal si torce il ventre quindi". 45
tutti sussurrano ‘Adamo’
(= fatto di
terra) e circondano un albero completamente spoglio in tutti i suoi
rami. Il suo sviluppo in ampiezza che è proporzionato all’altezza,
sarebbe ammirato anche dagli indiani nelle loro foreste. “Beato te,
Grifone
che non danneggi col becco il suo legno che è
dolce al gusto
e veleno nella digestione”.
Secondo l’interpretazione classica
l’albero qui descritto rappresenta l’Albero della Conoscenza del bene e
del male, reso spoglio dalla Giustizia divina a causa del peccato
originale commesso dalla coppia primigenia Adamo-Eva. Il
legno
di questo Albero, come i suoi frutti, è
dolce al gusto,
ma terribili sono le conseguenze una volta che se ne è assaggiato il
sapore.
Cfr. Bhagavad Gita canto XVIII v. 38:
…Quella felicità che deriva dal contatto dei sensi e dei sensibili che
al principio è simile al nettare e alla fine è come veleno, viene detta
rajasica…ecc.. Rajas, attributo di natura passionale che ha origine
nella bramosia e nell’attaccamento lega lo Spirito col vincolo
dell’azione… B. Gita canto XIV, v. 7. In
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Testi sacri v. ns. relativo commento
alla B. Gita.
Così dintorno a l’albero robusto
gridaron li altri; e l’animal binato:
"Sì si conserva il seme d’ogne giusto". 48
E vòlto al temo
ch’elli avea tirato,
trasselo al piè de la vedova frasca,
e quel di lei a lei lasciò legato. 51
gridano gli altri intorno all’albero possente alla Fiera con due Nature
e a loro Quella risponde: “Così si conserva il seme di ogni Giustizia”.
Quindi si volta verso il timone del carro che ha tirato e lo trascina al
piede dell’albero senza foglie e lì lo lascia dopo avercelo legato.
Come le nostre piante, quando casca
giù la gran luce mischiata con quella
che raggia dietro a la celeste lasca, 54
turgide fansi, e poi
si rinovella
di suo color ciascuna, pria che ’l sole
giunga li suoi corsier sotto altra stella; 57
men che di rose e
più che di vïole
colore aprendo, s’innovò la pianta,
che prima avea le ramora sì sole. 60
sulla terra le piante si fanno
turgide
(si gonfiano) quando il sole è congiunto alla costellazione che viene
dopo quella dei Pesci (cioè alla costellazione dell’Ariete, in
primavera) e poi tutte si rinnovano, ognuna col suo colore, prima che il
sole si congiunga con la costellazione successiva, così quell’albero,
prima tutto spoglio, si rinnova (ora) coprendosi di fiori (di colore)
rosso e viola.
Io non lo ’ntesi, né qui non si canta
l’inno che quella gente allor cantaro,
né la nota soffersi tutta quanta. 63
S’io potessi ritrar
come assonnaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro; 66
come pintor che con
essempro pinga,
disegnerei com’io m’addormentai;
ma qual vuol sia che l’assonnar ben finga. 69
quella gente inizia a cantare un inno
così dolce che in terra noi non ne conosciamo e neppure Dante lo può
ascoltare per intero. Egli difatti si addormenta e non riesce a
descrivere com’è successo. Se, come un pittore fiammingo che ha il
modello, riuscisse a disegnare Argo quando, udendo narrare (da Mercurio)
la storia della ninfa
Siringa
(e del suo amante Pan), si addormentò (e quel sonno gli costò la vita),
lo disegnerebbe; ma chi riesce a dipingere l’addormentarsi?
Però trascorro a quando mi svegliai,
e dico ch’un splendor mi squarciò ’l velo
del sonno, e un chiamar: "Surgi: che fai?". 72
Quali a veder de’
fioretti del melo
che del suo pome li angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel cielo, 75
Pietro e Giovanni e
Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la parola
da la qual furon maggior sonni rotti, 78
e videro scemata
loro scuola
così di Moïsè come d’Elia,
e al maestro suo cangiata stola; 81
tal torna’ io, e
vidi quella pia
sovra me starsi che conducitrice
fu de’ miei passi lungo ’l fiume pria. 84
arriva direttamente a raccontare del
risveglio. Uno splendore e una voce: “Alzati, che fai?” lo destano,
squarciando il
velo del sonno.
Come
Pietro
(= roccia), Giovanni
(= grazia del Signore) e Giacomo
(= protezione divina), condotti a vedere un assaggio del melo (l’Albero
della Conoscenza) che rende gli angeli desiderosi dei suoi frutti e
celebra perpetue nozze in cielo, furono vinti dal sonno (Matteo 17, 1-8)
e si riscossero alla Voce del Cristo, che ha interrotto sonni ben più
profondi (ha resuscitato Lazzaro da morte: Giovanni 11, 34-44) e videro
che i Maestri
Moisé
(= il salvato dalle acque) ed
Elia
(= YHVH è il mio Signore) se ne erano andati, e la veste di Gesù era
tornata normale, allo stesso modo si sveglia il Nostro, e vede sopra di
sé Matelda, che gli ha fatto da
guida lungo il
fiume.
Noi ci chiediamo il perché del sonno
del Nostro a questo punto della rappresentazione: egli ne dà come causa
la dolcezza del canto, ma ci sembra piuttosto un modo per sfuggire
all’esperienza cruciale della Conoscenza del Mistero della Redenzione
operata dal Grifone:
Dante non è ancora abbastanza ‘pronto’; difatti se ne rammarica
paragonandosi agli apostoli che non ressero alla Trasfigurazione di Gesù
e si persero il meglio di quella visione. E tutto in
dubbio dissi: "Ov’è Beatrice?".
Ond’ella: "Vedi lei sotto la fronda
nova sedere in su la sua radice. 87
Vedi la compagnia
che la circonda:
li altri dopo ’l grifon sen vanno suso
con più dolce canzone e più profonda". 90
Matelda, pieno di dubbi, Dante
chiede: “Dov’è
Beatrice?”
E quella: “E` lì seduta sulla radice dell’Albero tutto rinverdito. Nota
chi le è rimasto vicino; gli altri sono risaliti in cielo dietro al
Grifone
cantando un inno dolce e profondo”.
E se più fu lo suo parlar diffuso,
non so, però che già ne li occhi m’era
quella ch’ad altro intender m’avea chiuso. 93
Sola sedeasi in su
la terra vera,
come guardia lasciata lì del plaustro
che legar vidi a la biforme fera. 96
In cerchio le
facevan di sé claustro
le sette ninfe, con quei lumi in mano
che son sicuri d’Aquilone e d’Austro. 99
Nostro non sa dire se ha aggiunto
altro, perché i suoi occhi si sono riempiti subito di Colei che tutto lo
assorbe. Beatrice è seduta sola sulla nuda terra come a guardia del
carro legato lì dalla Fiera dalla doppia Natura. Attorno a lei fanno
corona le sette ninfe (le Virtù) con, nella mano, i sette candelabri che
non temono né il vento
Aquilone
(del nord) né il vento
Austro
(del sud).
Per il significato dei candelabri v.
canto XXIX, vv. 43-60; essi, che appartengono al piano spirituale,
Atzilutico, non temono certo i ‘venti’ né del nord (del piano Briatico)
né del sud (del piano assianico).
"Qui sarai tu poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano. 102
Però, in pro del
mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive". 105
Così Beatrice; e io,
che tutto ai piedi
d’i suoi comandamenti era divoto,
la mente e li occhi ov’ella volle diedi. 108
Dante:
“Qui nel bosco tu
resterai per poco tempo, poi sarai in eterno con me, cittadino di quella
Roma
(Celeste)
di cui è cittadino Cristo. Ma intanto, a
vantaggio del mondo terreno che vive nel peccato, fissa gli occhi sul
carro e, tornato là, fa in modo di narrare ciò che vedi”. Il Discepolo,
tutto pronto ai Suoi ordini, volge la mente e gli occhi secondo il
volere di Lei.
Tornato ad immergersi nella
contemplazione dell’Io Sono, Daath, la Coscienza, Dante, la personalità,
viene prima rassicurato sulla sua ormai raggiunta stabilizzazione sul
piano intuitivo (rimarrà per sempre con Beatrice) e poi indirizzato
all’accurata e attenta visione di una Rappresentazione a cui sta per
assistere: una serie di quadri, che dovranno essere trasmessi agli
‘altri’, nel mondo terreno, per ‘Servizio’.
Non scese mai con sì veloce moto
foco di spessa nube, quando piove
da quel confine che più va remoto, 111
com’io vidi calar
l’uccel di Giove
per l’alber giù, rompendo de la scorza,
non che d’i fiori e de le foglie nove; 114
e ferì ’l carro di
tutta sua forza;
ond’el piegò come nave in fortuna,
vinta da l’onda, or da poggia, or da orza. 117
fulmine che quando piove cade dalle
zone più lontane non va mai tanto veloce come l’uccello
di Giove
(l’aquila) che il Nostro vede calare giù per l’Albero, spezzando rami e
fiori e foglie nuove; essa colpisce con tutta la sua forza il carro che
si piega come una nave nella tempesta, vinta dalle onde ora sottovento,
ora sopravvento.
Il carro, secondo l’interpretazione
classica, rappresenta la Chiesa, l’aquila che lo colpisce simboleggia
l’Impero che all’inizio perseguita la Chiesa.
Noi, al di là di questa
interpretazione storica, possiamo considerare ‘l’aquila’ come simbolo
dell’Archetipo dell’Imperatore interiore che
si mette in
lotta con l’Archetipo del Papa interiore (v. in
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Archetipi, le Lezioni-spettacolo ad
essi relative) ed immaginare le conseguenze di questa lotta nella
personalità (carro): predominio degli interessi temporali (ricchezze,
gloria, fama, ecc.) sugli interessi spirituali (ricerca del Divino,
Servizio, donazione di sé ecc..).
Poscia vidi avventarsi ne la cuna
del trïunfal veiculo una volpe
che d’ogne pasto buon parea digiuna; 120
ma, riprendendo lei
di laide colpe,
la donna mia la volse in tanta futa
quanto sofferser l’ossa sanza polpe. 123
il Nostro vede avventarsi contro la cassa del carro una
volpe
famelica; la Donna, Beatrice, la rimprovera di colpe orrende e la mette
in fuga, quanto lo permette la sua magrezza.
Per l’interpretazione classica la
volpe rappresenta le eresie dei primi secoli, fugate dalla Teologia,
cioè da Beatrice.
La
volpe
nella tradizione occidentale rappresenta
l’inganno e la malizia, in quella orientale è dotata in più di poteri
soprannaturali, magici e camaleontici. Nei bestiari di lei si dice che
corre descrivendo circoli tortuosi e, fingendosi morta, cattura gli
uccelli che le si posano sopra e inoltre che ha la stessa natura del
diavolo. Per il nostro Albero cabalistico Daath, la Coscienza,
(Beatrice) mette in fuga la
volpe,
cioè smaschera e scaccia il ‘diavolo’
(l’avversario, l’albero nero) e, lasciandogli
l’ossa senza polpe,
ne recupera in parte le energie.
Poscia per indi ond’era pria venuta,
l’aguglia vidi scender giù ne l’arca
del carro e lasciar lei di sé pennuta; 126
e qual esce di cuor
che si rammarca,
tal voce uscì del cielo e cotal disse:
"O navicella mia, com’ mal se’ carca!". 129
poi vede di nuovo l’aquila scendere
dall’alto giù dentro il carro e lasciarlo pieno delle sue penne e, come
esce dal cuore una voce che si rammarica, così egli ode una voce dal
cielo che dice: “O navicella mia, quale cattivo carico ti ritrovi!”
Per l’interpretazione classica questa
allegoria rappresenta le donazioni di Costantino che
arricchiscono
la Chiesa, ma le provocano numerosi danni.
Dal nostro punto di vista
interiorizzato possiamo considerare l’aquila
anche come il mentale (Briah) dell’Albero che invece di volare verso il
cielo, verso lo Spirito (Atziluth), adopera le sue ‘penne’, le sue
risorse, per arricchire la parti più basse dell’Albero stesso (astrale,
Yetzirah e fisico, Assiah) appesantendole di un
malo
ed inutile
carco,
cioè di passioni e ricchezze materiali, che dovranno essere poi
faticosamente ridotte o addirittura eliminate.
Poi parve a me che la terra s’aprisse
tr’ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
che per lo carro sù la coda fisse; 132
e come vespa che
ritragge l’ago,
a sé traendo la coda maligna,
trasse del fondo, e gissen vago vago. 135
poi vede ancora la terra che si apre
tra le due ruote e ne esce un
drago
(dal sanscrito ‘darca’ = vista) che ficca la sua coda puntuta sul fondo
del carro, poi la ritrae, come una vespa che ritira il pungiglione,
portando con se` parte del fondo stesso, quindi se ne va serpeggiando.
Per l’interpretazione classica questa
allegoria rappresenta gli scismi o le dottrine delle nuove religioni.
Per la ns/ interpretazione
interiorizzata il
drago
(= che paralizza con lo sguardo), simbolo del lato oscuro della natura
umana e del suo potenziale distruttivo, spuntando tra le due ‘ruote’ del
carro, che possono essere omologate al tempo passato e futuro (v. canto
XXIX vv. 106-154), ci rammenta che nel piano della manifestazione legata
al divenire e a tutto ciò che è caduco, il pericolo è sempre in agguato.
Il
drago
è l’antico serpente, la cui forza è nella
coda (la coda è simbolo dell’albero capovolto); con quella esso penetra
‘il carro’, la personalità, rubando parte della sua struttura e
rendendola così monca (mancante, incompleta).
Quel che rimase,
come da gramigna
vivace terra, da la piuma, offerta
forse con intenzion sana e benigna, 138
si ricoperse, e
funne ricoperta
e l’una e l’altra rota e ’l temo, in tanto
che più tiene un sospir la bocca aperta. 141
Trasformato così ’l
dificio santo
mise fuor teste per le parti sue,
tre sovra ’l temo e una in ciascun canto. 144
Le prime eran
cornute come bue,
ma le quattro un sol corno avean per fronte:
simile mostro visto ancor non fue. 147
che rimane del carro, come la terra
si riveste di gramigna, così si ricopre con le piume (lasciate
dall’aquila) forse offerte con intenzioni giuste e buone e, nel tempo di
un sospiro, ne invade le ruote e il timone. Così trasformato il santo
edificio mette fuori sette teste: tre bicornute sul timone e quattro
unicornute ai quattro lati: un mostro mai visto prima.
Secondo l’interpretazione classica
questa allegoria significa che la Chiesa si corrompe a causa
dell’avidità dei beni terreni. Le sette teste sono i sette vizi
capitali.
Per la nostra interpretazione
interiorizzata la
piuma
che ricopre il ‘carro’ cioè la personalità, non è altro che il
materialismo voluto dal suo pensiero egoico (l’aquila) che la pervade
tutta e che la trasforma in un ‘edificio’ di peccati, cioè in un albero
tutto nero, in cui l’energia delle
sephiroth è
trasformata in qelipoth.
Sicura, quasi rocca in alto monte,
seder sovresso una puttana sciolta
m’apparve con le ciglia intorno pronte; 150
e come perché non li
fosse tolta,
vidi di costa a lei dritto un gigante;
e basciavansi insieme alcuna volta. 153
Ma perché l’occhio
cupido e vagante
a me rivolse, quel feroce drudo
la flagellò dal capo infin le piante; 156
poi, di sospetto
pieno e d’ira crudo,
disciolse il mostro, e trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi fece scudo 159
a la puttana e a la
nova belva.
Infine Dante vede, sicura come una
fortezza su di un monte, una puttana discinta seduta sul mostro con gli
occhi invitanti; accanto a lei, come ad evitare che gli sia sottratta,
c’è un
gigante; i due si baciano. Ma poiché la donna volge gli occhi bramosi al
Nostro, il gigante la flagella su tutto il corpo, poi pieno di sospetti
e irato, scioglie il mostro (il carro trasformato in mostro a sette
teste) e lo trascina con la puttana nella foresta fino a celarne la
vista.
Per
l’interpretazione classica questa allegoria rappresenta la Chiesa che
viene assoggettata dal re di Francia, che ne fa trasportare la sede in
Avignone.
Per il nostro discorso interiorizzato
la
puttana sciolta
(cfr. Apocalisse 17, 1-6) rappresenta ancora quella parte della
personalità nella sua componente femminile (astrale), che si
‘prostituisce’ per vantaggi egoici, mentre il
gigante
ne raffigura la parte maschile (mentale) che la
bascia,
che le si accoppia per piacere, ma che poi, vedendola sempre in cerca di
distrazioni, per gelosia, la
flagella
(la frusta, la punisce) e la rapisce insieme al carro (il fisico)
trasformato in mostro dai vizi, procurando sofferenza a se stesso
(mentale), alla puttana (astrale), e al carro (fisico).
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