Non Ti Pago - di
Eduardo de Filippo In una serie di studi e lezioni sul tema dell’umorismo, Baudelaire scriveva: “Il riso è profondamente umano, dunque è diabolico. Gli angeli non ridono (sono troppo preoccupati in numero inverosimile sulla punta di uno spillo); il diavolo sì. Ha tempo da perdere, tutta un’eternità per coltivare il proprio disagio. Al comico che chi ride si sente così sicuro della sua verità da poter guardare con superiorità alle contraddizioni altrui. Questa sicurezza, che ci fa ridere delle disgrazie di un’inferiore, è naturalmente diabolica.” Quale sorta di ridere provoca l’umorismo di Eduardo de Filippo con il suo rovesciamento grottesco e buffonesco? Mi ricordo delle compagnie teatrali italiane che venivano in Jugoslavia a presentare le opere di Eduardo de Filippo. Per noi andare a vedere “Filumena Marturano”, “Napoli milionaria”, “La grande magia” era una festa; significava regalarsi una serata particolarmente piacevole e partecipare ad un autentico viaggio attraverso l’italianità. Il pubblico di Eduardo de Filippo, da tutte le parti del mondo, spontaneamente rinunciava al distacco e alla superiorità di cui parlava Baudelaire, proprio perché Eduardo proiettava la sua Napoli nella sfera senza confini dell’esperienza umana e questa città diventava un microcosmo, una metafora del mondo, così come lo è per Joyce la Dublino dell’Ulisse, “l’ombelico del mondo”. Quando domenica scorsa ho assistito alle immagini misteriose, arcane, prive di colonna sonora della vecchia commedia “Non ti pago” (anche se ho trovato un po’ di difficoltà con il dialetto e mi stavo ricordando delle parole dello stesso Eduardo che una volta disse: “Le commedie quanto più sono in dialetto, tanto più diventano universali”) ho avuto la sensazione che la commedia si avvantaggiasse di questo modo così ipnotico di riproporlo. I personaggi e le situazioni che venivano da un tempo remoto (che però, conservava gli aspetti essenziali dell’opera classica) avevano assunto una castità e una leggerezza incredibili. C’è un soggetto tradizionale e grottesco nello stesso momento, trattato con il modo del buon teatro d’osservazione e di carattere. Si chiama Ferdinando ed è il gestore del botteghino del lotto. Gioca sempre, ma non azzecca mai il numero, mentre il suo impiegato Mario vince sempre. Per colmo, indovina una quaterna che gli ha dato in sogno proprio il padre di Ferdinando. Quando Ferdinando si rifiuta di pagargliela e si tiene la cartella perché considera sua la vincita, si realizza un rapporto tra i due personaggi apertamente farsesco. Eduardo de Filippo ha creato questo rapporto complicato e concitato con un crescendo di fantasie paradossali, litigi, trovate spiritose e lazzi sfrenati. Secondo la logica paradossale di Ferdinando, suo padre ha sbagliato persona perché Bertolini abita proprio nella casa dove abitava lui quando suo padre era ancora vivo. Ricorre anche all’avvocato e al prete nel tentativo di trovare l’appoggio alla sua tesi. Chiede aiuto allora, al proprio padre rivolgendosi al quadro appeso al muro. E questo aiuto pare che proprio arrivi: ogni volta che l’impiegato tenta di incassare la vincita, arriva una disgrazia. Da un lato c’è il modo napoletano di reagire all’angoscia e alla miseria del vivere, dall’altro ineluttabile presenza della morte attraverso l’esorcismo o, per meglio dire, la superstizione. Eduardo de Filippo ha creato un personaggio complesso rappresentando la sua ira sbalordita, la convinzione testarda e l’irragionevolezza, salendo dai toni che suscitano il riso a quelli che sfiorano il dramma. Lui stesso ha interpretato Ferdinando e l’ha fatto con una ambigua prodigiosità, non lasciando mai scoprire il limite fra passione e ragione, follia e simulazione, esibizionismo e delirio. In tale modo ha portato la commedia verso una specie di dolorosa esasperazione di comicità, lasciandola però, qualche volta, alla ricerca della più folle ilarità. Proprio per questa ilarità ancora una volta ero piena di gratitudine verso questi attori, di quella gratitudine che si prova verso chi fa del bene. E non sono forse i de Filippo, benefattori dell’umanità, come Totò o come tutti coloro che sanno smemorarti e riproporti un momento liberatorio attraverso il ridere? Anche se in questo modo forse tradiamo la nostra parte diabolica di cui parlava Baudelaire. |