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        Maurizio: dal Genesi 15   Il
          problema che si pone questo capitolo della Genesi è sostanzialmente
          quello di offrire ad Abramo una predizione sulla sua discendenza.    1.     
          Abramo si cruccia di non avere eredi, eccettuato il fedele
          servitore Eliezer. Abbiamo già visto che Eliezer significa “Dio
          aiuta” e che il suo valore numerico in Gematria è 318, lo stesso
          numero dei combattenti che Abramo aveva utilizzato nella guerra
          descritta precedentemente. Evidentemente, però, il Patriarca non si
          accontenta di una generica consapevolezza dell’aiuto delle energie
          positive che possono sorreggerlo nel corso della vita. Egli vorrebbe
          una visione del futuro più chiara e confortante: desidererebbe che il
          suo albero genealogico non si estinguesse con lui.  2.     
          Da un punto di vista strettamente letterale Abramo avverte la
          profonda esigenza di continuare a vivere attraverso la prosecuzione
          del suo ‘seme’. Questo offre la possibilità di fare alcune
          considerazioni: a)     
          quella della sopravvivenza, al livello più elementare, è una
          motivazione presente nel mondo animale che, attraverso i dettami
          istintuali della natura, cerca di preservare le specie: non è tanto
          importante il singolo individuo quanto la razza, la stirpe, un certo
          patrimonio genetico.  b)     
          Nell’uomo, man mano che si sviluppa una coscienza
          individuale, la stessa urgenza legata all’istinto viene a colorirsi
          di caratteristiche psichiche egoiche: la mia
          razza, patria, schiatta, famiglia. Quando poi gradualmente la psiche
          si struttura attorno ad un senso dell’io sempre più autonomo
          rispetto all’ambiente e al gruppo sociale, allora la preoccupazione
          diviene inequivocabilmente legata all’individuo stesso:
          psicologicamente ciò implica un confronto personale con la morte e il
          desiderio di continuare a vivere, cosa che si relaziona con le
          credenze sulla sopravvivenza di un’anima immortale. c)     
          Una volta che la mente dell’uomo abbia raggiunto,
          nell’evoluzione, un sufficiente grado di preparazione filosofica,
          egli diviene cosciente che l’’io’ è un ‘aggregato psichico’
          soggetto anch’esso a mutamento e disgregazione: ad un accurato esame
          – considerando l’anima
          (in greco psyché)
          l’insieme dei pensieri, delle caratteristiche emozionali, dei
          ricordi e anche dei limiti della ‘persona’ – non si può
          ipotizzarne logicamente la sopravvivenza in
          eterno, come per un conglomerato di caratteristiche condizionate
          che però risulti indistruttibile e immodificabile.  Questa
          consapevolezza genera impostazioni ideologiche differenziate, fra le
          quali possiamo riconoscere le seguenti principali: Þ   
          l’unica ‘sopravvivenza’ possibile è quella attraverso le
          opere, l’umanesimo, l’aiuto agli altri: la lotta con la morte,
          persa in partenza, risulta in un certo modo vittoriosa solo attraverso
          l’edificazione di valori. Ciò significa privilegiare il ruolo che
          il ‘senso’ può avere nelle nostre vite: se non
          esiste un significato universale, se la morte è un evento definitivo,
          è l’uomo che ha il compito di dare uno scopo alla propria azione ed
          esperienza. Þ   
          L’altra impostazione, pur ammettendo l’illusorietà
          dell’io, ipotizza comunque un qualcosa di incorruttibile, di
          infinito, di eterno, di trascendente: se l’uomo è capace di creare
          valore, è possibile che questo sia già presente nella profondità
          della vita stessa, al di là del mutamento e, quindi, della morte.
          Questa intuizione è già di per sé una vittoria sulla morte quale
          assenza di significato. L’esistenza dell’eternità e
          dell’infinito porta, attraverso la logica, ad affermare la presenza
          di un principio divino: il mondo della mutabilità, quindi, avrebbe al
          suo interno, oltre le apparenze, un senso, uno scopo, una finalità,
          un ordine. Ne consegue la riformulazione della transitorietà e
          dell’impermanenza quali aspetti illusori di un significato
          sottostante e reale. Anche l’uomo, pur essendo l’’io’ un
          fenomeno illusorio, deve avere in sé un Assoluto non riconoscibile o
          percepibile dalla mente, non coincidente con il ‘nome’ e la ‘forma’,
          ma presente oltre le contingenze in cui normalmente egli stesso si
          identifica. 3.     
          Probabilmente Abramo non si cruccia per la sua sopravvivenza
          personale: come capo tribale ha a cuore la continuità di coloro che
          gli sono stati affidati e, possiamo dire, anche dell’insegnamento
          filosofico-religioso che essi veicolano. Jahweh,
          il ‘Signore’, pare interessato alla stessa cosa, cioè che il suo
          messaggio trovi una rappresentanza duratura e sempre più ampia nel
          mondo. Naturalmente, essendo la Genesi per definizione un ‘Testo
          Sacro’, dobbiamo ravvisare nelle preoccupazioni del Patriarca un
          contenuto alto, spirituale: è lo scopo dell’esercizio rappresentato
          dalle nostre divagazioni interpretative. Abramo insomma, fuori della
          metafora dell’’erede’,
          desidera costruire un valore duraturo, che rappresenti una vittoria
          sulla morte intesa come vuoto e insignificanza. Egli conosce il
          passato, vive il presente, però gli manca un ponte verso il futuro.
          Il suo Dio e l’intuizione gli assicurano che questo ponte esiste e
          che ha i caratteri dell’infinità e dell’eternità, cioè divini e
          trascendenti, come simbolicamente raffigurato dalla visione
          dell’universo stellato: l’uomo
          Abramo ha, o avrà, un
          contatto diretto con ciò che sta oltre la morte, un legame concreto
          con l’Illimitato. 4.     
          Portando ancora oltre il concetto e facendo i nostri consueti e
          azzardati accostamenti con le esperienze spirituali orientali –
          sperando di non offendere la sensibilità di quanti sentono per la
          Genesi un rispetto legato al significato proprio
          del testo - possiamo leggere in quanto espresso una predizione
          d’Illuminazione. Ciò che nella cultura tribale e nomade del
          Patriarca Abramo è rappresentato dalla visione di infiniti
          discendenti futuri, in un chiave di lettura più interiorizzata
          equivale al raggiungimento dell’Anuttara-Samyak-Sambhodi,
          un termine buddhista per ‘Saggezza Suprema e Onnicomprensiva’ o,
          più letteralmente, ‘Supremo e Perfetto Risveglio’. La vastità di
          questa Illuminazione corrisponderebbe alla vastità delle toledot (discendenze), mentre la sopravvivenza 
          del ‘seme’ tribale oltre il tempo equivarrebbe in senso
          buddhista alla Liberazione dal Samsara, cioè dalla ‘ruota delle nascite e delle morti’. 5.     
          Tuttavia Jahweh predice al Patriarca, prima della concreta
          acquisizione di una ‘terra promessa’, cioè della ‘realizzazione’,
          anche un periodo di dura prova e di prigionia per i suoi discendenti:
          quattrocento anni di schiavitù in un paese straniero, riconosciuto
          generalmente dagli esegeti nell’Egitto. Il numero 400 si identifica
          in Gematria con la lettera Tav.
          Il significato tradizionale di questa lettera dell’alfabeto ebraico
          è ‘segno’, ‘sigillo’. Da essa ricaviamo, in rapporto al
          racconto di questo capitolo, le seguenti riflessioni: a)     
          Tav è l’ultima lettera dell’alfabeto in questione, per
          questo ne rappresenta la ‘chiusura’ ed è chiamata nella
          tradizione rabbinica ‘Sigillo della Creazione’. Per lo stesso
          motivo è spesso identificata con la Sefirah finale, il ‘sigillo’
          dell’Albero della Vita: Malkuth.
          Essendo Malkuth una rappresentazione simbolica della dimensione più
          esterna, ‘terrena’, possiamo interpretare l’affermazione di
          Jahweh sui quattrocento anni di schiavitù come una figurazione del
          cammino da percorrere nel ‘Samsara’ per raggiungere
          l’Illuminazione. La saggezza si raggiunge dopo un periodo di
          ‘esperienze’ formative. Il ‘paese straniero’ sarebbe dunque,
          in questa chiave, la dimensione ‘assiahnica’, esteriore, nella
          quale l’uomo sperimenta la separazione dalla sua natura profonda, il
          dolore e l’oscurità fondamentale della vita. b)     
          
          I più antichi grafemi della
          Tav sono  
           6.     
          Ritornando al testo, analizziamo il rito oracolare del
          sacrificio animale. Siamo di fronte a qualcosa di primordiale,
          arcaico. Sacrificare animali, probabilmente, aveva un tempo il senso
          simbolico di assoggettare la propria natura istintuale. In questo caso
          Abramo ottiene uno stato di ‘trance’ sciamanica identificabile nel “torpore” e anche nel
          “terrore” che lo colgono prima dell’oracolo predittivo e dopo
          aver scacciato “uccelli rapaci”, cioè paure e pensieri
          semi-inconsci, ostacoli da superare come preludio di un certo grado di
          assorbimento meditativo. Riguardo agli animali sacrificati,
          osserviamo: a)     
           la giovenca, in
          ebraico eglah, è in rapporto etimologico con agol, che significa ‘ruotare su un asse’ e agalah, ‘carro’; b)     
          la capra, in ebraico ez, viene
          da una radice primitiva, azaz, che
          vuol dire ‘prevalere’ oppure ‘essere forti’; c)     
          l’ariete è ayil, termine
          che può significare anche
          ‘uomo forte’, ‘leader’, ‘capo’; d)     
          la tortora è in ebraico tor,
          e la stessa parola significa ‘girare’, da una radice primitiva che
          ha anche il senso di ‘cercare’, ‘esplorare’; e)     
          il piccione, gozal, viene
          da gazal che vuol dire ‘rubare’,
          ‘strappar via’. Mi
          sembra abbastanza evidente da ciò che ogni bestia scelta per il rito
          sia in forte relazione con le attività e le caratteristiche che
          accompagnano i popoli nomadi, quali erano gli abramiti: cercare ed
          esplorare viaggiando su carri, con frequenti incursioni predatorie al
          seguito di un abile e forte capo. E’ sorprendente: scopriamo che il
          Patriarca ‘sacrifica’ la struttura stessa della sua vita e della
          sua esperienza per avere il responso oracolare; in altre parole si
          mette in discussione. In particolare ‘divide in due’, cioè
          potremmo dire analizza
          (‘analisi’ viene da un verbo greco che vuol dire ‘scomporre’)
          quegli animali che simbolizzano le sue prerogative di guida tribale:
          la giovenca-carro, la capra-forza e l’ariete-leader; non
          ‘analizza’ – cioè non mette in discussione - ma offre
          comunque al suo Dio gli animali che simbolizzano le attività
          imprescindibili per un nomade: ‘esplorare’ e ‘depredare’. 7.     
          La terra promessa da Jahweh va dall’Egitto fino al fiume
          Eufrate. ‘Egitto’ in ebraico è Mizrayim:
          questa parola indica un luogo difeso, una trincea, un assedio; si
          tratta infatti di un paese che per gli antichi ebrei ha rappresentato
          un limite, una difficoltà sia ad entrare che ad uscire. ‘Eufrate’
          invece, in ebraico Perath, significa
          ‘fertilità’, ‘abbondanza di frutti’. I confini della terra
          promessa, dunque, sono nel loro stesso nome un programma,
          l’anticipazione di un percorso dall’oscurità alla luce, dalla
          difficoltà all’abbondanza. 8.     
          Secondo la predizione e l’alleanza con Jahweh vi sono dieci
          popoli che i discendenti di Abramo assoggetteranno, domineranno e
          forse assorbiranno nel loro ‘seme’. Secondo alcune versioni della
          Bibbia, però, sono undici. Non conosco il perché di questa
          discrepanza, ma noto che l’undicesimo popolo, quello che talvolta
          non viene nominato, è quello degli Evei o Eviti. Il loro nome ha la
          stessa radice etimologica di ‘Eva’, la Grande Madre: deriva da chavvah, che vuol dire ‘vita’. Lo stesso termine significa anche
          ‘città’, quindi ‘Eviti’ potrebbe indicare gli abitanti delle
          città locali. Tuttavia il significato originario di ‘vita’ è
          interessante, soprattutto perché descrive una popolazione che non
          sempre è citata: circostanza che ne evidenzia, occultandola, la
          presenza. Da questo ricavo l’interpretazione che anche gli altri
          popoli sono ‘Eviti’, ‘viventi’, connessi con la ‘vita’.
          Qui di seguito elenchiamo i significati dei nomi delle altre tribù
          citate: 
 1.      
          Keniti: ‘fabbri’; 2.      
          Kenizziti: ‘cacciatori’; 3.      
          Kadmoniti: ‘aborigeni’; 4.      
          Hittiti: ‘popoli che incutono terrore’; 5.      
          Perizziti: ‘abitanti dei villaggi’; 6.      
          Refaim: ‘giganti’; 7.      
          Amorrei: ‘parlatori’; 8.      
          Cananei: ‘mercanti’; 9.      
          Gergesei: ‘lavoratori dell’argilla’; 10.    
          Gebusei: ‘trebbiatori del grano’. 
 Non diamo, per una volta, un’interpretazione cabalistica in relazione con le 10 o 11 Sefiroth, che sarebbe anche possibile. Ci limitiamo ad osservare che tutti questi nomi descrivono delle attitudini, dei mestieri, delle attività. Insieme danno l’idea di una molteplicità composita e organizzata, di una grande città con aspetti sedentari e stanziali legati alla coltivazione della terra; insomma di una società ricca e multifunzionale. Forse questo per il nomade Abramo doveva davvero rappresentare una grande promessa di integrazione e realizzazione: diventare ‘Eviti’, ‘cittadini’, ‘viventi’, non più profughi e raminghi. In senso simbolico e interiorizzato, insomma, viene qui annunciato il passaggio dal Caos al Cosmo, obiettivo di ogni percorso reintegrativo e realizzativo. |