Maurizio: dal Genesi 8
(Riflessioni
un po' fuori tema)
“Dio si ricordò di Noè…”
“Allora Noè… offrì olocausti sull’altare.
Il Signore ne odorò la fragranza e disse tra sé: “Non maledirò più il
suolo a causa dell’uomo…”
Nella Genesi è anche
scritto che ‘Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza’; ma
osservando il comportamento particolarmente antropomorfo del Dio in
questo capitolo, verrebbe da accreditare piuttosto il contrario: ‘l’uomo
fece Dio a sua immagine e somiglianza’. Ad un primo esame, questa
osservazione può sembrare irriguardosa verso chi ha una concezione
religiosa in linea con la tradizione giudaico-cristiana, ma a ben
riflettere essa esprime un concetto bello e importante: l’uomo si
specchia nel divino e, osservando sé stesso, andando per tentativi,
conosce gradualmente anche Lui. Nell’induismo, ad esempio, è normale e
accettabile che l’Assoluto possa avere infiniti aspetti nel manifestarsi
all’uomo: ognuno di questi attributi, forme, espressioni, è in grado di
soddisfare le necessità di una particolare persona, di un determinato
servizio devozionale, di un certo approccio alla spiritualità. In questa
religione tutte le ‘divinità’ sono favorevolmente accolte quali aspetti
del Tutto: in un certo senso l’uomo è ‘autorizzato’ a farsi un Dio ‘a
sua immagine e somiglianza’ quale mezzo per visualizzare in una forma
concreta – magari ampliandola e modificandola successivamente – la sua
idea del divino. Anche il buddhismo adotta, in un certo senso, questo
tipo di approccio quando ricorre agli Upaya, gli ‘abili mezzi’,
gli ‘espedienti’ del Buddha per condurre le persone all’illuminazione.
In particolar modo nel Sutra del Loto, testo molto venerato e
valorizzato in Estremo Oriente (paragonabile al Vangelo per l’occidente
cristiano e alla Bhagavad Gita per l’India), il Buddha si rivela come
una sorta di entità eterna, identificabile con la profondità della vita
stessa, dotata di immensa compassione per tutte le creature e disposta a
utilizzare qualsiasi espediente per innalzarne la consapevolezza. Il
Buddha utilizza, pertanto, insegnamenti ‘provvisori’, verità ‘di
passaggio’ per rapportarsi alle capacità degli ascoltatori, mostrando
aspetti dell’insegnamento per essi immediatamente comprensibili e
fruibili. Per esempio, in un noto racconto buddhista, egli assegna ad un
fabbro la meditazione sul respiro, considerando l’esperienza di questi
con il mantice; e assegna ad un lavandaio la meditazione sulle ‘impurità
del corpo’ vista la sua dimestichezza quotidiana con l’argomento. Uno
dei suoi maggiori discepoli, che invece aveva prescritto alle stesse
persone le meditazioni in maniera inversa, cioè quella sulle impurità al
fabbro e quella sul respiro al lavandaio, non era stato in grado di
aiutarli a raggiungere l’illuminazione. L’insegnamento buddhista,
quindi, deve necessariamente adattarsi alle possibilità di comprensione
delle persone a cui è rivolto e alla loro umanità. In modo analogo nella
mistica ebraica, pur essendo l’Assoluto indefinibile, cioè Ayin –
Nulla, nel senso di al di là di qualsiasi concetto (come lo
Shunya, il Vuoto del buddismo Mahayana, e come il Tao di Lao
Tzu) – tuttavia Egli si manifesta misericordiosamente nei Partzufim,
le forme tangibili e avvertibili, le configurazioni fruibili
dall’intelletto e dal sentimento, fra le quali la tradizione annovera
Abba e Imma, il Padre e la Madre, le grandi immagini
genitoriali spesso associate alle concezioni sulla divinità. Come anche
la psicologia moderna insegna, dunque, parliamo di grandi archetipi
attraverso i quali il trascendente diviene, in qualche modo,
concepibile, afferrabile. Nella cabala meditativa l’attenzione viene
posta proprio su simboli reintegrativi in relazione con i Partzufim,
e questi simboli possono essere nomi di Dio o lettere ‘sacre’ talvolta
visualizzate, talaltra cantate in modo ripetitivo (come i mantra
orientali), e sono chiamati Yichudim, ‘unificazioni’ –
stranamente in analogia quasi letterale con il significato etimologico
della parola greca ‘symbolon’.
“Nel settimo mese, il
diciassette del mese, l’arca si posò sui monti dell’Ararat. Le acque
andarono via via diminuendo fino al decimo mese. Nel decimo mese, il
primo giorno del mese, apparvero le cime dei monti.”“L’anno seicentouno
della vita di Noè, il primo mese, il primo giorno del mese, le acque si
erano prosciugate sulla terra.” “Nel secondo mese, il ventisette del
mese, tutta la terra fu asciutta.”
Affrontando, come per il
capitolo precedente, gli spunti ‘numerologici’ offerti dal Testo,
possiamo fare le seguenti notazioni:
-
Settimo mese, decimo mese, primo mese,
secondo mese: attraverso
l’avvicendarsi dei periodi dell’anno viene descritto il progressivo
ritirarsi delle acque diluviali, che lasciano, dunque, la terra ‘rinnovata’.
In particolare, secondo il calendario ebraico, i mesi descritti sono,
nell’ordine: Nisan, Tammuz, Tishri, Heshvan. Essi
contrassegnano – all’incirca - i periodi governati rispettivamente dai
segni astrologici dell’Ariete, Cancro, Bilancia, Scorpione.
Abbiamo già visto come il simbolo dello Scorpione, all’inizio del
diluvio nel capitolo 7 e ora alla sua fine, ne rappresenta
simbolicamente l’essenza: corrisponde infatti al mese di
ottobre-novembre, tradizionalmente legato alla morte dell’anno, al
disfacimento, all’acqua, alla ‘purificazione’ attraverso la
sofferenza. Gli altri tre segni astrologici sono in relazione a tre
importantissimi momenti del ciclo annuale, nell’ordine: l’equinozio di
primavera, il solstizio d’estate e l’equinozio d’autunno. Il loro
significato più ovvio e immediato è: inizio della crescita, il
culmine, inizio del declino. E’ abbastanza evidente che, qui, ci si
riferisce alla modalità delle acque diluviali che, in tal modo,
vengono a seguire lo stesso ritmo del ciclo annuale del sole, come del
resto tutti i moti vitali: ascesa, apice, discesa.
-
Diciassettesimo giorno, primo giorno,
ventisettesimo giorno:
facendo anche questa volta – come per il capitolo 7 - il parallelo fra
i giorni del mese (il cui numero nel calendario ebraico è di 29 o 30,
più l’aggiunta periodica di giorni intercalari) e le cabalistiche
‘Trentadue Vie della Saggezza’, le ‘Vie’ interessate sarebbero,
nell’ordine: Sekhel ha-Hergesh (17), Sekhel Mufla (1), Sekhel
Murgash (27). Come già visto Sekhel ha-Hergesh, traducibile
in ‘Intelletto del Sentimento’, corrisponde alla ‘fede’; questa
‘Via’ unisce tradizionalmente le Sefiroth Binah e Tifereth
e corrisponde alla settima lettera dell’alfabeto ebraico, la
Zayin, che significa ‘spada’. Binah è il Grande Mare, il
Mistero, talora associato a Saturno – il pianeta della ‘prova’,
del ‘taglio’ doloroso, dell’eliminazione del superfluo, della morte,
cui ci si può rapportare con l’apertura del cuore (Tifereth). Sekhel
Mufla significa ‘Intelletto Meraviglioso’ e indica la mistica
consapevolezza dell’Uno, della Legge Universale, dell’Unità di
tutte le cose: tale consapevolezza è fondamentale in un momento di
purificazione quale quello descritto simbolicamente dal diluvio per
rimanere in sintonia con il Tutto, per non sentire la separazione fra
la realtà difficile che si vive e il Senso ultimo delle cose;
inoltre, insieme alla lettera Alef che rappresenta, questa
‘Via’ è anche la nascita, il reinizio, il rinnovamento. Sekhel
Murgash significa ‘Intelletto Palpabile’: tradizionalmente si
identifica con la ‘Via’ che unisce le Sefiroth Netzach e Hod,
alla lettera Peh, che significa ‘bocca’, e si riferisce
alla comprensione non soltanto ‘intellettuale’ delle grandi verità,
bensì calata nel sentimento, nella percezione concreta, nel ‘suono’
pronunciato e condiviso, e sta giustamente a segnare la conclusione
dell’esperienza del ‘diluvio’.
-
“Trascorsi quaranta giorni, Noè aprì
la finestra che aveva fatta nell’arca e fece uscire un corvo per
vedere se le acque si erano ritirate…”
: facendo tutti i calcoli nel seguire il racconto biblico, notiamo che
dall’apparire delle cime dei monti fino al prosciugarsi delle acque su
tutta la terra trascorrono esattamente tre mesi: dal 1° giorno del
decimo mese dell’anno 600, fino al 1° giorno del primo mese dell’anno
601 (la somma di 6+0+1, notiamo, dà 7, numero così presente nella
mistica di tutti i popoli). Dopo l’attesa iniziale di quaranta giorni,
ci troviamo nell’undicesimo mese, Av, quando Noè fa uscire il
corvo; poi c’è un periodo non meglio definito; infine c’è un’ultima
parte che dura 14 (7+7) giorni con le tre uscite della colomba e,
dunque, si situa tutta nel dodicesimo mese, Elul; dopodichè
siamo al 1° giorno dell’anno successivo. Elul, nella tradizione
ebraica, è il mese della purificazione, del pentimento, del
perdono: durante tutto il mese si suona lo shofàr,
strumento musicale che, con il suo suono, ricorda questi sentimenti.
Praticamente i tre mesi in questione sono i mesi estivi, dal solstizio
d’estate fino all’equinozio d’autunno. In effetti, se dobbiamo pensare
ad un periodo in cui sia possibile il prosciugarsi di acque diluviali,
non possiamo che indicare l’estate! In particolare il periodo di
maggior calore, quello corrispondente a luglio-agosto, vede uscire il
corvo. Il colore nero dell’animale può indicare il periodo più
‘bruciante’ della stagione che, trascorsi quaranta giorni circa dal 21
giugno, viene a situarsi proprio verso il 10 di agosto. La colomba,
invece, esce tre volte nella seconda metà dodicesimo mese, cioè
probabilmente in settembre; il colore dell’animale non indica più il
rovente ‘fuoco’ estivo, bensì il candore luminoso della luce un po’
prima dell’inizio d’autunno; inoltre è in relazione simbolica con il
segno della Vergine, che domina nello stesso periodo ed esprime
‘purezza’. Il ‘lavacro’ è avvenuto, l’acqua diluviale e il fuoco
solare hanno operato la loro purificazione: la ‘terra’ è pulita,
reintegrata. Allo stesso modo, dopo che nella nostra vita si è operata
una pulizia di scorie, ostacoli, incomprensioni, cristallizzazioni per
mezzo delle ‘acque superiori’ dello spirito, il calore bruciante della
coscienza può ‘cauterizzare’ le eventuali ferite. Dopo di che ne
usciamo rinnovati e, novelli Noè, siamo in grado di seguire l’Anima
(colomba, Vergine) che ci indica nuovi approdi ed esperienze,
ulteriori fasi di crescita.
“Finché durerà la
terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte
non cesseranno.”
Un ultimo concetto mi sembra
veramente importante: dopo l’offerta dei sacrifici compiuta da Noè, il
Dio decide di non interferire più in un modo così eclatante con
l’equilibrio naturale delle cose: traducendo l’evento in termini meno
favolistici, il significato riposto sembra essere il seguente:
nell’evoluzione della coscienza individuale, quando questa è ancora non
sviluppata e quindi presenta aspetti molto legati al ‘piccolo io’, ad
una visione limitata di sé stessi e del mondo, si fa un certo tipo si
esperienza. Pur essendo una esperienza ‘impura’, macchiata dall’egoismo,
servirà ad imparare e, gradualmente, ad evolvere fino al prodursi di una
consapevolezza nuova, il Noè-neo del racconto biblico, più cosciente del
Tutto, in grado di ‘dialogare’ con il divino e avvertirne le
sollecitazioni. Dopo di che si renderà necessario un grande lavacro, una
eliminazione delle scorie, dei limiti, dei ‘gusci’ personalistici, delle
maschere ormai non più funzionali ad ulteriori sviluppi. Questo lavacro,
che corrisponde ad una grande ‘conversione’, potrà anche avvenire in
seguito ad avvenimenti dolorosi, a eventi sovrastanti paragonabili al
‘diluvio’ biblico, a momenti in cui la vita propone dei ‘training’
forzati che costringono al cambiamento: possiamo pensare per esempio
alla conversione di Paolo in seguito ad uno ‘shock’, a quella di
Francesco dopo essersi impegnato in guerra, al travaglio interiore del
Buddha prima di lasciare la casa paterna. A quel punto la ‘conversione’
risulterà soprattutto quella da una coscienza incentrata su sé stessi ad
una coscienza più ampia, altruistica, consapevole delle interconnessioni
universali. Di qui, da questa coscienza rinnovata e ampliata, nasce
quello che nel buddhismo si chiama ‘spirito dell’offerta’: si è ora
disposti a mettere la propria vita ‘a servizio’ del ‘piano divino’ e
degli altri. Un racconto buddhista narra di un bambino che, essendo
poverissimo e non avendo nient’altro, offrì al Buddha, con tutto il
cuore, una ‘torta di fango’. Per questo motivo, cioè per questa
apertura, per questo desiderio di dare qualcosa di sé al Sè, il bambino
rinascerà nella vita successiva come il re Ashoka, il più grande e
illuminato sovrano della storia dell’India. Possiamo legare questa
leggenda all’episodio biblico: Noè, dopo gli avvenimenti narrati,
dimostra un sincero ‘spirito dell’offerta’; ciò indica il rinnovamento
dell’uomo, il passaggio ad una fase successiva della sua evoluzione,
quello che nel buddhismo viene indicato come ‘stadio di non-regressione’:
da ora in poi non sarà più possibile ricadere in stadi precedenti, ormai
la coscienza altruistica è nata, si è sviluppata. Non saranno più
necessarie esperienze di cambiamento totale, di totale conversione, come
quelle simboleggiate dal diluvio. Da ora in poi, per procedere nel
cammino, sarà sufficiente il normale alternarsi delle polarità, delle
energie, delle operazioni interiori ed esteriori: solutio et coagulatio,
acqua e fuoco, ma ad un livello meno deflagrante, anche se sempre in
relazione con lo scioglimento dei limiti e l’assimilazione della verità. |