Maurizio: dal Genesi 9
(Riflessioni un po' fuori tema)

 
 

Elohim stabilisce, nel momento della riconciliazione post-diluviale, delle norme di rispetto fra la natura e l’uomo e viceversa. Esistono molti miti relativi al diluvio, praticamene in tutte le culture antiche. Il mito greco spiega la distruzione del mondo ad opera di Zeus come una conseguenza del cannibalismo dell’umanità pre-diluviana, in particolare del popolo dei Pelasgi: ciò si lega bene alle norme qui stabilite dal Dio della Genesi, connesse con l’alimentazione e con la necessità di non consumare il sangue delle creature, identificato con la loro vita.  Effettivamente da questi passi del testo derivano alcune regole alimentari dell’ebraismo, come anche dell’Islam e il rifiuto di assumere il sangue in qualsiasi forma di alcune frange del cristianesimo. Cosa potremmo rintracciarvi dal nostro punto di vista? Vorrei citare, a questo proposito, le Upanishad: “Tutto è annam.” ‘Annam’, in sanscrito, significa ‘cibo’. Tutto è cibo, dunque: ogni creatura si alimenta di ogni altra, e ciò va interpretato anche e soprattutto in senso metaforico, perché siamo nutriti dall’esperienza e dall’insegnamento che tutti gli esseri e i fenomeni ci forniscono. Tutto può alimentare la nostra consapevolezza, accrescere la nostra coscienza, farci evolvere. Tuttavia l’imparare – come senso profondo dell’alimentarsi – si fonda sul rispetto dell’altro e la gratitudine per quanto ci viene offerto, senza i quali non potremmo valorizzare nulla: senza estrarre valore dal messaggio fornitoci dall’esperienza e dal rapporto con il mondo esterno, cioè comprendendone il significato, non assimileremmo nulla. Sul riconoscimento del senso profondo delle cose o, per dirla con il linguaggio biblico, del sangue, dell’anima, fonda ogni cammino di reintegrazione della coscienza. Parecchie divinità antiche utilizzano arco e frecce per infliggere all’uomo delle punizioni o per altri fini particolari: nell’arma si concentra la potenza del dio. Indra, ad esempio, è una divinità dell’India vedica e manifesta il suo potere con l’Indradhanu, l”Arco di Indra”, che significa anche arcobaleno. Il dio mesopotamico Marduk nell’antico testo “Enuma Elis”, utilizza un arco per scagliare il diluvio: “Si preparò un arco, che designò come sua arma; vi sistemò una freccia e ne tese la corda… poi il Signore sollevò Diluvio, sua grande arma.” Anche il dio della Bibbia viene spesso descritto mentre manifesta la sua ira attraverso fenomeni atmosferici e scagliando strali; nel Salmo 18, ad esempio, leggiamo: “E dai cieli tuonò Jahweh, e l’Altissimo emise un grido profondo, con grandine e carboni di fuoco. Scoccò le sue frecce e li mise in fuga, scagliò lampi e li disperse.” Non occorre qui ricordare gli attributi e il comportamento del Zeus greco, perfettamente analoghi e sovrapponibili a quelli descritti. Nel testo in lingua ebraica della Bibbia, quando si parla di arcobaleno, si utilizza la parola ‘qeshet’, che significa semplicemente ‘arco’. L’arco messo da Dio fra le nubi come emblema del patto di alleanza con l’uomo, dunque, equivale a riporre le armi, a stipulare una sorta di patto di non belligeranza, un gesto di pacificazione. L’arcobaleno e le nubi rappresentano nella letteratura cabalistica, per esempio nel Sefer ha-Zohar (Il Libro dello Splendore), i due opposti, il maschile e il femminile e le colonne dell’Albero: il primo, l’arco, come emblema della Misericordia divina e della colonna di destra; le seconde, le nubi, nel loro significato di potere minaccioso e di oscurità, rappresentano il Rigore e la colonna di sinistra. Inoltre la speculazione cabalistica è stata incline a considerare soprattutto i colori fondamentali dell’arcobaleno, associando anch’essi alle colonne: al Rigore il rosso, alla Misericordia il blu, e alla colonna centrale dell’Equilibrio, il giallo (o il bianco): con ciò sottolineando che la Giustizia di Dio non è mai arbitraria anche se talvolta dolorosa, e mira sempre all’equilibrio, cioè all’evoluzione della consapevolezza, alla scoperta della vera pace; purtroppo la comprensione limitata dell’uomo spesso non afferra il fine misericordioso - d’amore - della vita, poiché esso è velato, appena visibile attraverso le nubi del Rigore. Per ciò che riguarda l’intero spettro dei colori che costituiscono l’arcobaleno, ci limitiamo a ricordare che si tratta di una differenziazione, su varie lunghezze d’onda e con varia vibrazione, della luce: ecco perché, dunque, possiamo parlare dell’arcobaleno come rappresentazione dell’Illuminazione. Estrapolando notevolmente dal contesto biblico e uscendo in buona misura ‘fuori tema’, riassumerei le considerazioni precedenti osservando che il vero patto di alleanza simboleggiato dall’arcobaleno, la vera promessa dopo la purificazione del Diluvio, non è altro che una promessa d’Illuminazione. Ricordiamo che negli immaginifici e altamente simbolici Sutra del buddhismo Mahayana, il Buddha – particolarmente prima di impartire gli insegnamenti più importanti – emette dalla fronte o da vari punti del corpo, dai chakra, dei raggi di luce colorata o bianchissima. In altre parole, il colore è sinonimo di corretta e ampia visione, di passione, di partecipazione di comprensione: le sfumature dell’iride fanno pensare alle infinite gradazioni di significato della vita e dell’esperienza. Percepirle significa avere una visione sensibile, capace di accettare la complessità, le sottigliezze e, nel contempo, godere di una grande vitalità e freschezza. Perfino il vino è connesso con l’insegnamento, con il senso profondo delle cose, o piuttosto, con l’esperienza di esso. La parola ebraica per vino, yayin, è accostabile cabalisticamente a quella per ‘segreto’, sod, perché hanno lo stesso valore numerico, il 70. Il 70, inoltre, è tradizionalmente il numero dei significati ricavabili da ogni passo della Scrittura. Nelle nostre lingue neo-latine, c’è un’assonanza fra ‘segreto’, cioè ‘nascosto’ e ‘secreto’, quest’ultimo termine in qualche modo riferentesi alla produzione di un’essenza, un distillato. Anche il procedimento di preparazione del vino, dalla pigiatura alla fermentazione e oltre, ha paralleli con le fasi alchemiche attraverso le quali ricaviamo dalla vita e dalle esperienze il ‘succo’, il senso riposto, l’insegnamento mistico. Nell’ebraismo c’è un accostamento tradizionale fra la pigiatura del vino e la danza sacra: il liquido inebriante, si dice, sgorga da sotto i talloni di Binah (la Grande Sacerdotessa, Iside, l’Intelligenza Occulta). Questi due elementi, il vino e la danza estatica, sono anche estremamente presenti nell’antica Grecia con Dioniso e con i Misteri. E’ degno di nota, inoltre, che nel mito greco del Diluvio, il corrispondente di Noè si chiami Deucalione, che significa ‘marinaio del vino nuovo’, e la moglie è Pirra, che significa ‘rosso brillante’, il colore del distillato dell’uva. Noè, come primo rappresentante dell’umanità post-diluviale, ha il compito di tramandare la Conoscenza dell’era precedente, di raccoglierne e trasmetterne il ‘vino’, al di là degli errori  in cui poteva essere incorsa e delle ‘impurità’ accumulate (i ‘sedimenti’). In questo senso, Noè è il depositario dell’iniziazione ai Misteri. Ci siamo già riferiti al Diluvio come al momento della prova e del rinnovamento dell’individuo; se tale rinnovamento è profondo quale quello indicato dal racconto biblico in esame, una purificazione di tutta la terra (cioè della costituzione psico-fisica, la mente, anche nel senso di intenzione, determinazione), esso può corrispondere ad una conversione o, meglio, all’iniziazione. Noè come uomo nuovo, dunque, capace di colloquiare con il Sé, è quella parte di noi in grado di accogliere e possedere una visione e una conoscenza superiori rivalutando, coltivando e facendo giungere a maturazione il vino dell’esperienza. Da quanto si è detto a proposito della funzione conoscitiva e iniziatica di questa bevanda, comprendiamo come l’ubriacatura del Patriarca all’interno della sua tenda – per paradossale che possa sembrare -  è interpretabile come uno stato di interiorizzazione, di meditazione o preghiera. I Sufi accostano spesso l’ubriacatura all’esperienza mistica, e lo stesso fanno alcuni taoisti. Questi mistici, spesso, assimilano in maniera velata e simbolica l’esperienza dell’ebbrezza alla percezione di significati oltre la mente ordinaria e la morale comune. Cam, dunque, introducendosi nella tenda paterna, coglie Noè in un momento estatico, di contemplazione, in cui la nudità, l’abbandono e il sonno (il superamento della personalità-maschera) sono interpretabili come segni dell’estrema sacralità del momento. Egli, però, non comprende: introducendosi nel luogo dei Misteri e allontanandosene in maniera ‘profanica’, cioè rivelando la lettera di quanto ha visto e non l’essenza, inconsapevole del significato riposto, disattende completamente il senso esoterico dell’evento. E’ interessante osservare che anche l’arcobaleno – altro importante elemento simbolico di questo capitolo della Genesi – secondo la tradizione talmudica non può essere osservato, in segno di rispetto profondo per una manifestazione del divino: si tratta di una proibizione a guardare direttamente (cioè con sguardo esteriore, superficiale) l’arco-nelle-nubi, come se questo rappresentasse il Santo, la parte più nascosta del tabernacolo, quella riservata ai Grandi Sacerdoti, agli iniziati.  Sem e Jafet, a differenza di Cam, comprendono e preservano il Mistero paterno. Noè, allora, pronuncia dei decreti rispetto ai tre figli: Sem è riconosciuto vicino a Jahweh (la forma unitaria di Dio) - “Benedetto sia Jahweh, il Dio di Sem” – e per questo viene a rappresentare simbolicamente la tradizione sacerdotale, lo slancio verticale, il collegamento coscienziale fra cielo e terra, l’aspetto soggettivo e esoterico della conoscenza; il secondo figlio, Jafet, è sostenuto da Elohim (la forma molteplice di Dio) e ha caratteristiche connesse con la direzione orizzontale – “Dilati Elohim Jafet e dimori egli nelle tende di Sem” - la conoscenza oggettiva, exoterica, subordinata a quella esoterica, la propagazione e la tradizione regale. Cam, vista la sua tendenza superficiale e profanica, l’incapacità di afferrare la verità iniziatica, viene sottomesso ai fratelli e si vede assegnato un ruolo servile. Il nome Cam è accostabile, secondo alcune ipotesi degli studiosi, a Kemi, uno dei nomi dell’Egitto, che significa ‘nero’ o ‘terra nera’.  Considerando la particolare valorizzazione dei colori dell’arcobaleno fornita da questo capitolo della Genesi, non ci stupisce che qui il nero, cioè l’assenza di colore, l’oscurità, venga a rappresentare anche la mancanza di contatto consapevole con il mondo dell’Illuminazione, intesa nel senso interiore. Nell’India antica ritroviamo, nel sistema delle caste, alcune delle caratteristiche attribuite da Noè ai figli: Sem è avvicinabile alla casta dei Brahmani, l’elite spirituale; Jafet potrebbe rappresentare gli Kshatriya, la casta politico-militare; mentre Cam ricorda gli Shudra, la casta infima, destinata ai lavori servili. Mancherebbe, rispetto alla quadripartizione indiana, una casta intermedia, quella dei Vaishya, i commercianti, di livello appena più alto degli Shudra. Tuttavia, poiché i discendenti di Cam, cioè Canaan, sono dichiarati schiavi due volte, sia in relazione al primo che al secondo fratello, potremmo ravvisarvi la presenza di due caste, di due differenti forme di sottomissione. Essendo i Brahmani i depositari dell’insegnamento spirituale, il loro dovere specifico è la comunicazione della Conoscenza: i Vaishya potrebbero quindi esserne la controparte profana, in quanto, attraverso il commercio, svolgono funzione di comunicazione e di scambio fra tutte le parti della società; allo stesso modo, essendo gli Kshatriya preposti al mantenimento dell’ordine, della struttura governativa, e all’azione militare, gli Shudra vengono a riproporre in un’accezione inferiore lo stesso concetto: mantengono l’ordine attraverso i lavori di pulizia, strutturano attraverso l’edificazione manuale delle città, dei villaggi e quant’altro, procedono all’uccisione – ove ritenuto necessario – di esseri viventi, particolarmente animali. Questo tipo di analisi, tuttavia, assegnando a Cam e alla sua discendenza un ruolo tutto sommato positivo anche se esteriore, sembra disattendere il fatto che il pronunciamento di Noè nei suoi riguardi è piuttosto una maledizione che un’assegnazione di ruoli subordinati. Nonostante ciò,  interpretare la ‘maledizione’ come un riconoscimento della differenziazione fra funzioni sacrali e  funzioni profaniche – evidentemente necessaria nell’era post-diluviale - mi sembra un modo legittimo di andare oltre il significato letterale del Testo, non fermandomi all’apparenza come Cam. Noè, inoltre, con questo pronunciamento, darebbe una struttura funzionale alla nuova società umana e, in senso più interiorizzato, fornirebbe una quadripartizione dei livelli di consapevolezza e la scala di valori dell’individuo rinnovato. In questo modo, avremmo:

 

1.  Sem: casta dei Brahmani, mondo atziluthico delle cause prime, conoscenza soggettiva, intellettiva e spirituale.

2.  Jafet: casta degli Kshatriya, mondo briahtico della manifestazione concreta, conoscenza oggettiva e razionale.

3.  Cam 1: casta dei Vaishya, mondo yetzitahtico del sentimento, degli scambi, della comunicazione, della formazione della sottile rete di interrelazione fra tutti gli esseri viventi.

4.  Cam 2: casta degli Shudra, mondo assiahnico dell’azione sul piano fisico, della strutturazione oggettiva e della purificazione.



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