Così parlò Zarathustra
di Friedrich Nietzsche



 

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TRATTO DA: 7: Cosi parlo Zarathustra : un libro per tutti e per nessuno / Federico Nietzsche ; traduzione di Domenico Ciampoli. - Milano : Monanni, stampa 1927. -

 

Interpretazione cabalistica di Franca Vascellari

Prologo

 

1.

Allorchè Zarathustra ebbe raggiunto il trentesimo anno, abbandonò il paese nativo ed il nativo lago e andò sulle montagne. Ivi godè del suo spirito e della sua solitudine e non se ne stancò per dieci anni. Ma alla fine il suo cuore si cangiò – e un mattino, levatosi con l'aurora si mise di fronte al sole e gli disse:

O grande astro! Che sarebbe della tua beatitudine, se tu non avessi coloro ai quali risplendi?

Iniziamo col prendere in considerazione il significato del titolo di quest’opera. Il nome: Zarathustra = ‘astro d’oro’ già ci permette di capire la sua funzione: Zarathustra rappresenta il Sole interiore (Tiphereth, relativo al centro del cuore) del poeta Nietzsche. Il fatto che a 30 anni questo ‘Sole’ lasci il suo paese nativo e il relativo lago per andare sulle montagne ci illustra un iniziale iter di ascesi che egli  compie  nell’Archetipo del ‘Sacrificio’ (30 è il numero relativo a tale Archetipo – vedi in www.teatrometafisico.it  ‘Archetipi’ la relativa Lezione-spettacolo n. 12),  iter la cui durata è di 10 anni (un Albero cabalistico di tempo) nel godimento della solitudine e dello spirito.

Ma Zarathustra, (essendo stato il suo godimento della solitudine e dello spirito probabilmente egoico e non ‘impersonale’ come dovrebbe essere) al termine dei 10 anni ha ‘40’ anni (40 è il numero relativo all’Archetipo n. 13 della Morte, vedi idem c. s.) e il cangiamento del suo cuore gli fa proiettare all’esterno il Sole interiore, come ‘altro’ da lui, quasi a farne un interlocutore a cui chiedere ragione della sua grandezza e beatitudine e attribuendogli, con un atto di superba sfida, la necessità di avere un pubblico applaudente.

Da dieci anni vieni quassù nella mia caverna; ti saresti tediato della tua luce e di questo cammino, se non fosse per me, per l'aquila mia e pel mio serpente.

Ma noi ti attendevamo ogni mattina, prendevamo il tuo superfluo, benedicendoti in cambio.

Ora dinanzi all’astro splendente (al suo Sole interiore, ora esteriorizzato), Zarathustra si riconosce come composto di tre parti: il se stesso poeta, il serpente e l’aquila. Del simbolismo del serpente abbiamo già detto altre volte: è polivalente: solare e lunare, maschile e femminile, rappresenta il bene e il male, guarisce e avvelena ecc. ecc.. e così pure di quello dell’aquila abbiamo parlato a lungo vedi in www.taozen.it  Appuntamenti, Divina Commedia, il ns/ commento al canto IX del Purgatorio (v. 1-33) e al canto VI del Paradiso (v. 1-36): essa è in genere legata allo Spirito e nell’iconografia classica lotta col serpente e lo vince, ma dal momento che qui l’aquila di Zarathustra è solo accostata al suo serpente, possiamo considerarla come una componente della sua psiche; quindi le tre parti di Zarathustra-Nietzsche, vengono ad essere le componenti della sua personalità: lui stesso, il suo fisico (mondo assianico), il serpente, il suo astrale (mondo yetziratico) e l’aquila, il suo mentale (mondo briatico). Fino a quando egli rimane sulla montagna riceve la luce e la bene-dice, la dice bene, cioè la qualifica nel Bene, ma egli confessa anche che, pur vivendo sulla montagna, la sua dimora è una caverna cioè un luogo sotterraneo molto profondo, in cui difficilmente il sole può penetrare illuminandone tutti gli anfratti.

Guarda, mi è venuta in disgusto la mia sapienza; come l'ape che ha raccolto troppo miele, ho bisogno di mani che si tendano a me.

Vorrei donare e distribuire fin che i savi tra gli uomini fossero ridivenuti lieti della loro follia e i poveri della loro ricchezza.

Quando la sapienza viene in disgusto (= a noia, e il serpente e l’aquila sono sciolti, non governati), inizia la ‘caduta’ (v. in www.taozen.it Testi sacri ns/ commento alla Genesi cap. 3).

Il poeta si paragona ad un’ape che ha raccolto troppo miele e vorrebbe donare ad altri la sua troppa sapienza: ma sappiamo tutti che il ‘troppo’, come il ‘poco’, è squilibrato e necessita di correzione. Se una lampadina di 50 watt riceve una scarica di corrente superiore al suo wattaggio si brucia e non passa il suo surplus di corrente ad altra lampadina, perché non è nelle sue possibilità. Solo un vero Saggio può rendere lieti della loro follia i savi e della loro ricchezza i poveri, realizzando (in sé e) negli altri la ‘coniunctio oppositorum’ (= la congiunzione degli opposti, mèta della Grande Opera); tentare di farlo senza averne la qualifica conduce al disordine e al caos.

Perciò debbo discendere nel profondo: come tu fai la sera quando scomparisci dietro il mare e dispensi la luce tua anche al mondo degli inferi, tu astro fulgentissimo!

Al pari di te, io debbo tramontare, come dicono gli uomini, tra i quali voglio discendere.

Qui Zarathustra sembra non ricordare che l’astro fulgentissimo quando la sera apparentemente scompare dietro il mare non illumina il mondo degli inferi, ma solo un’altra porzione della terra; tuttavia che egli debba scendere nel ‘suo’ profondo è corretto e giusto: la discesa agli inferi è proprio il vero inizio del viaggio della conoscenza di se stessi: Dante, e prima di lui Omero e Virgilio, ci hanno mostrato la via: bisogna scendere nel proprio personale inferno per conoscere i propri vizi e bruciarli nel fuoco della purificazione, recuperando, quando possibile, l’energia erroneamente qualificata.

Gli uomini tra i quali il poeta vuole discendere non sono altro che i suoi burattini interiori, sui quali egli deve far luce per conoscerli e trasmutarli.

Benedicimi dunque, occhio tranquillo, che puoi contemplare senza invidia anche una felicità troppo grande!

Benedici il calice che sta per traboccare, affinchè l'acqua ne esca dorata e porti da per tutto il riflesso della tua gioia!

Vedi! Questo calice vuol essere vuotato un'altra volta e Zarathustra vuol ridivenire uomo. Così cominciò la discesa di Zarathustra.

Richiedere solo due volte la bene-dizione all’occhio tranquillo dell’astro è incompleto e perciò manca di forza; Zarathustra-calice per ottenere un risultato positivo avrebbe dovuto chiedere 3 volte di essere bene-detto. Il 3 forma un triangolo equilatero con la sua granitica forza di volontà, il 2 forma solo un angolo che rimane aperto a tutti gli influssi; inoltre la discesa agli inferi del poeta inizia non nel segno dell’umiltà ma in quello dell’orgoglio, della hybris, perché egli si reputa già profeta e non più semplice uomo.

 

Così parlò Zarathustra

2.

Zarathustra discese solo, dalla montagna, e non si incontrò con alcuno. Ma quando giunse nei boschi subito gli si levò dinanzi un vecchio che aveva abbandonato la sua sacra capanna per cercare radici nella selva. E così parlò il vecchio a Zarathustra:

Il poeta discende dunque dalla montagna, dal luogo del godimento della solitudine e dello spirito senza incontrare alcuno, ma giunto nei boschi, nella selva, (ricordiamo quella dantesca, v. in www.taozen.it Appuntamenti, Inferno canto I), luogo dove possono esserci animali e persone sconosciute, luogo che promette avventure forse pericolose, ma affascinanti ed istruttive, ecco che un primo personaggio gli si fa incontro: un eremita in cerca di radici, che gli parla. E’ ovviamente l’incontro col suo primo burattino, il suo Eremita interiore (v. la Lezione spettacolo n. 9 idem): questi è in cerca di radici, è rimasto cioè senza cibo, e ha bisogno di trovarne, oppure è alla ricerca delle ‘sue’ proprie radici... l’incontro potrebbe essere fruttuoso per entrambi.

«Non mi è straniero questo viaggiatore; molti anni or sono egli passò di qui. Si chiamava Zarathustra; ma ora è mutato.

Portavi allora la tua cenere al monte; – vuoi tu oggi portare il fuoco nelle valli? Non temi il castigo degli incendiarî?

Sì, io riconosco Zarathustra. L'occhio suo è puro e sulle labbra non nasconde segno di disgusto. Non s'avanza egli simile a un danzatore?

Zarathustra si è trasformato; è ridivenuto un bambino; Zarathustra è un ridesto; che vuoi tu ora fra i dormienti?

Tu vivevi nella solitudine come in mezzo al mare, e il mare ti cullava. Ahimè, vuoi tu approdare? Ahimè, vuoi novellamente trascinare da te stesso il tuo corpo?».

L’Eremita riconosce Zarathustra come un viaggiatore, un Viandante (v. Archetipo n. 56 dell’I King e ns/ relativo commento in www.taote.it I King e Kabbalah) visto in passato, ma che ora è mutato e lo rimprovera. Colui che prima portava cenere al monte (arricchiva la parte più alta di sé) vuole ora portare fuoco nelle valli (incendiare la parte più bassa di sé). Le caratteristiche di tale viandante sono: occhio puro, ma labbra disgustate; sembra un danzatore, ma è solo un bambino... un ridesto, cioè uno richiamato fuori di sé (‘destare’ deriva dal latino deexcitare) che, lasciato il mare della solitudine, desidera di riapprodare nella terrestrità.

Zarathustra rispose: «Io amo gli uomini».

Al rimprovero del suo Eremita per la decisione presa, Zarathustra oppone una debole scusa: Io amo gli uomini (= amo la mia umanità, sono ad essa ancora tenacemente attaccato).

«Perchè – disse il santo – mi rifugiai nella selva e nel deserto? Non forse perchè amai troppo gli uomini?

Ora amo Dio e non amo gli uomini. L'uomo è per me una cosa troppa imperfetta. L'amore per gli uomini mi ucciderebbe».

E l’ Eremita a lui: “Io sono quella parte di te che ha scelto la selva e il deserto per amare Dio, la tua componente Spirituale, se tu scegli l’amore per la tua componente umana,  (a scapito di quella divina) mi uccidi”.

Zarathustra rispose: «Non parlai d'amore! Io reco agli uomini un dono».

«Non dare loro nulla – disse il santo. – Togli loro piuttosto qualche cosa o aiutali a portarla – codesto gioverà loro più di tutto: purchè giovi anche a te! E se vuoi donar loro qualcosa, non dare più di una elemosina e attendi che essi te la chiedino!»

Alla protesta di Zarathustra che insiste nel voler recare un dono all’umanità, l’Eremita consiglia saggiamente invece di toglierle qualche cosa o aiutarla a portarla. E che cosa può essere tolto all’umano se non la sua umanità, cioè  il suo ‘peso’ dovuto alla ‘caduta’? Ma è lei stessa che deve chiederlo al suo Zarathustra, al suo ‘Sole interiore’.

«No, rispose Zarathustra, io non dispenso elemosine. Non sono abbastanza povero per far ciò».

Il santo rise di Zarathustra e parlò così: «Allora, vedi un po' se essi accettano i tuoi tesori! Essi diffidano dei solitari e non credono che noi veniamo per donare.

I nostri passi risuonano troppo solitari traverso le loro strade. E come quando di notte, dai loro letti, odono camminare un uomo, molto prima del levar del sole, si chiedono: dove va codesto ladro?

Ma ‘questo’ Zarathustra rifiuta il suggerimento del santo, benché egli cerchi di spiegare che fare doni, cioè donare energie solari al veicolo umano (fisico, assianico) significa rubarle ai veicoli superiori ed essere quindi considerato, a ragione, ladro.

Non andare tra gli uomini e rimani nella selva! Va piuttosto tra gli animali! Perchè non vuoi tu essere come me – un orso tra gli orsi, un uccello tra gli uccelli?»

«E che cosa fa il santo nella selva?» domandò Zarathustra.

Rispose il santo: «Io compongo canzoni e le canto; e quando le compongo, rido, piango e mormoro: così lodo Iddio.

Col cantare, col piangere, col ridere e col mormorare, io lodo Iddio che è il mio nume. Ma che cosa ci porti tu in dono?».

L’Eremita poi prega Zarathustra di divenire Eremita come lui, cioè di unificare quelle sue componenti interiori che, insieme, indirizzate ad un unico scopo, possano veramente far acquisire le qualità positive atte a glorificare il Signore: dedicarGli  dunque le canzoni, i mormorii, il piangere e il ridere, cioè le gioie e i dolori della vita, che gli appartengono.

Quando Zarathustra ebbe udito queste parole, salutò il santo e disse: «Che cosa avrei io da darvi? Ma lasciatemi partir presto, perchè non vi tolga nulla!». E così si separarono, l'un dall'altro, il vecchio e l'uomo, ridendo come ridono due fanciulli.

Ma il consiglio dell’Eremita (che avrebbe potuto diventare il Virgilio del poeta) viene completamente rifiutato, la strada definitivamente scelta; le risa che accompagnano tale scelta sono come quelle dei fanciulli (fanciullo = dal latino ‘infans’ che non sa ancora parlare, incapace)...

Ma quando Zarathustra fu solo, parlò così al suo cuore: «Sarebbe dunque possibile! Questo vecchio santo non ha ancora sentito dire, nella sua foresta, che Dio è morto!».

Ed ecco la conclusione derivata dalla scelta: per colui che sceglie la via della disintegrazione invece di quella della Reintegrazione, anche se si chiama Zarathustra, anche se ha avuto in sé un vecchio santo, ‘Dio è come morto!’.



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