Borges
(Il cantore di Buenos Aires)
 

 

Quando gli esploratori spagnoli la fondarono nell'anno 1536, dettero a Buenos Aires un impianto a maglie ortogonali, creando quella che alcuni secoli dopo sarebbe stata una delle più grandi scacchiere urbane di questo pianeta. Sulle strade di quei cuadros (isolati), sugli edifici di quelle lunghe strade che si perdevano nelle lontane periferie, sui cortili, sui giardini, sui balconi, sugli alberi di quelle arterie, Borges avrebbe ricamato la sua opera poetica, riuscendo a dare corpo a quanto il suo cuore provava alla vista di tanta bellezza. Buenos Aires era figlia di personaggi leggendari, di eroi d'altri tempi, ma allo stesso tempo era madre di una sterminata schiera di antieroi. Ebbene, tale metropoli, fra il 1899 ed il 1986 - date di nascita e di morte di Borges - è diventata un mito grazie alla poesia d'un suo figlio.. 

 

     In Fervore di Buenos Aires del 1923, per ammissione dello stesso autore, è prefigurato quanto lo stesso avrebbe fatto poi. Con la prima delle poesie di tale raccolta - Le Strade - comincia per Borges una sorta di pellegrinaggio per le arterie della sua anima: Le strade di Buenos Aires / sono ormai le mie viscere. Penetrando nelle vene della sua città, comincia un viaggio interiore fatto di passi pesanti, di passi ancorati ad ogni istante di tempo e di vista, di tatto e di olfatto, di sensi. Ad ogni momento di vita deve necessariamente corrispondere un momento di poesia che non lo lasci sfuggire in un passato morto definitivamente. Una recherche del tempo che è, che potrebbe irrimediabilmente essere perso per sempre. Quelle strade indolenti del quartiere non sono intenerite solo di penombra e di crepuscolo,  ma di un amore così grande da costringere il cantore allo smembramento: ogni verso non deve essere solo il frutto di un poetare, ma di una vita poetante che si dona in brandelli ad ogni attimo. C'è mancato davvero poco perché Borges divenisse un maestro di saggezza. Adottando il solo punto di vista del pellegrino solitario, s'è lasciato sfuggire il punto di vista della totalità (che a volta lambisce), quello stesso che lui tenta di realizzare attraverso uno sconfinato abbraccio alla sua città ed alla sua nazione. La sua vera natura è Buenos Aires, questa Coscienza Cosmica, questo Sé, questo Dio. Possiamo persino azzardare che non lui cantava Buenos Aires, ma la città, come metafora del Sé, cantava attraverso di lui. La segreta cisterna, l'odore del gelsomino, l'arco dell'androne, l'umidità - tali cose, forse, sono la poesia.  (sottolineatura nostra) Sì, tali cose sono - e senza forse - la poesia. Esse si cantano da sole. Nessuno le canta: chi scrive poesie è solo un trascrittore. Questa misteriosa Vita che in noi si vive, in noi anche si canta. Questa vita che in noi prende forma di noi, prende anche l'aspetto di infinite altre forme, perché essa vuole danzare in infiniti modi. E se ogni forma, ardendo, dimentica per qualche istante di essere tramite di Vita, subisce una strana metamorfosi: ogni casa diventa un candelabro / dove le vite degli uomini ardono / come candele isolate (Strada sconosciuta).  Ma Buenos Aieres è anche un grande palcoscenico dove le cose del mondo danzano le loro ore. Una sera qualunque, in questa magica città, potrebbe anche prendere possesso di una piazza per assumere qualifiche incredibili: La sera intera era ristagnata nella piazza, / serena e sostanziosa, / benigna e sottile come una lampada, / chiara come una fronte, / grave come il contegno di un uomo in lutto (La piazza San Martìn).
Il pellegrinaggio continua come continuano le metamorfosi borgesiane. Ciò accade in quegli angoli di città che come un gorgo risucchiano Jorge Luis Borges per restituircelo poesia pura sotto forma di amico d'una pianta o una pietra: E' bello vivere con l'amicizia oscura / di un atrio, di una pergola e di una cisterna.  L'amicizia è anche quel particolare collante che sa ricomporre in unità due forme di una stessa Sostanza. Eppure, a questa stessa Sostanza, a questa Realtà innegabile Borges sa che possiamo essere ammessi (Semplicità). Ed intuisce anche di essere quella Coscienza Una per tutti entro cui il mondo appare: Io sono l'unico spettarore di questa strada; / se smettessi di vederla morirebbe (Camminata).
A volte si ha proprio la certezza che Buenos Aires si canti da sola. Ed ecco Finestre con inferriata; una strada esaltata dalla chiara moltitudine di un ponente; campanacci che raccolgono la tristezza dispersa dalla sera; alberi che si alzano e durano come divinità tranquille.  Che documentario d'anima innamorata, povera di tutto, ma ricca della luce di Buenos Aires: diventa voce innanzi alle case / la confessione della mia povertà: non ho guardato i fiumi né il mare né la sierra, / Ma mi fu intima la luce di Buenos Aires / ed io forgio i versi della mia vita e della mia morte con questa luce di strada. / Strada grande e paziente, / sei l'unica musica di cui ha sapore la mia  vita (Strada con emporio rosa, dalla raccolta Luna di fronte). Questa unicità, questa specialità della sua terra e della sua città lo divora, e quel che ci viene restituito di lui è poesia: Pampa: / io scorgo la tua ampiezza che sprofonda i dintorni, / io mi sto dissanguando nei tuoi crepuscoli (All'orizzonte di un sobborgo - stessa raccolta). Questo morire dissanguato davanti ad un paesaggio argentino è possibile perché in quella magica terra, e particolarmente a Buenos Aires, una sera può essere acuminata, una campagna può essere morta di fame e povera come un ragno. Buenos Aires è una citta che si ascolta come un verso, è cioé poesia per il solo fatto di essere. Delle sue case il sole può come un ladro scalare i muri. Questa città è viva d'una Vita più grande di essa, ecco perché Borges può dire sono un uomo della città, del rione, della strada (Dulcia Linquimus arva).  Egli stanca la sua vita di poesia, con versi carichi spesso di malinconia e tristezza. Come un Dioniso si lascia smembrare dal furore poetico, lasciando ad ogni angolo della sua città brandelli di sé. Ma tutto questo, alla fine, non è misticismo, ma uno strano "mestismo" poetico che gli procura grazia e bellezza: in Quasi giudizio finale dice: Ho testimoniato il mondo…ho cantato l'eterno…ho detto stupore dove altri dicono soltanto abitudine…Stanno ancora accanto a me, comunque, le strade e la luna…l'acqua continua ad essere dolce nella mia bocca e le strofe non mi negano la loro grazia. Sento lo sgomento della bellezza:… Borges, è evidente, va in "estasi"attraverso la bellezza e la grazia che gli vengono dai suoi stessi versi: la poesia riesce a lambire la Beatitudine, il nocciolo della vera natura del poeta e di ognuno di noi. Il Bello sa scrostare il superfluo: Ho visto un sobborgo infinito dove si compie un'insaziata immortalità di tramonti. /  Ho assaporato numerosa parole  (scrive in La mia vita intera); Oggi sono stato ricco di strade… (in Ultimo sole a villa Ortùzar); Io presentii le viscere della voce i sobborghi, / parola che nella terrra mette l'azzardo dell'acqua / e che dà ai dintorni la loro avventura infinita / e ai vaghi campicelli un senso di spiaggia (in Versi di quattordici).
Borges è una persona onesta, umile, un'anima sveglia: quando dice che i suoi versi sono dono dello Spirito dice il vero. Per scrivere versi così "potenti" occorre proprio essere completamente abbandonati all'Assoluto. Occorre allargare la propria coscienza, la propria psiche (anima) fino a farla diventare Buenos Aires, città dagli orizzonti sfuggenti, città dilagante, in piena, senza età: A me sembra una fandonia che Buenos Aires ebbe inizio: / la giudico tanto eterna come l'acqua e l'aria (Quaderno San Martin). Qui la città diventa un archetipo, un'idea, cosa eterna e quindi immortale. E la prova inconfutabile di ciò sta nel fatto che l'anima di tale metropoli s'è fatta poeta. Sì, Borges è l'anima di Buenos Aires, è la voce dei palazzi, delle strade, dei sobborghi, dei muri, di cose ed uomini, di tramonti, di silenzi, di luoghi in cui negli spiazzi profondi si affezionava il cielo (Elegia dei portoni).
Certo, Borges parla molto anche di specchi, di morte: La morte è vita vissuta, / la vita è morte che viene; / la vita non è altra cosa / che morte che fa sfoggio di sé (Morti di Buenos Aires - la Chacarita), di eternità, di avi, di eroi, di Cabala, di letteratura, di filosofia, di duellanti, di tango, di crepuscoli e tramonti, di metafisica e di mille altre cose.  Parla persino di iscrizioni di carro.
Ma noi abbiamo scelto di conoscerlo attraverso le sue poesie. Non parleremo quindi della sua immensa ammirazione per Schopenhauer (per noi esagerata, dal momento che questo filosofo non ha fatto altro che riproporre, adattadola all'occidente, la filosofia del Vedanta); né parlaremo dei suoi studi letterari sui Kenningar (citazioni enigmistiche della poesia islandese); né degli studi su Dante e la sua Commedia, che Borges ritenne il massimo della letteratura mondiale); non parleremo della cecità che lo colpì e che è così presente nelle tarde poesie. Per un poeta che divorava con gli occhi ogni cosa e che sapeva trarre poesia persino dai sassi, tale croce può anche essere vista come una forma di vendetta: quegli occhi hanno osato troppo, hanno talmente scavato, da rubare l'anima di ogni cosa: hanno incenerito cose e persone che come fenici mitiche sono rinate in poesie, ma che hanno preteso un prezzo per avere il poeta portato alla luce le radici della loro bellezza.
E l'offerta continua. Borges, con le sue poesie, offre a noi tutti il suo stupore, il suo amore per gli uomini, le cose e il mondo, il suo incessante canto. Le parole delle sue poesie sono vive: le anima quella Vita che "muove il sole e le altre stelle", quella stessa Vita che in lui si è cantata per ottantasei lunghi anni, quella Vita che in lui confluiva da ogni cosa sotto forma di "bello" e che pretendeva poesia. Ed ecco un fico malinconico, un marciapiede rotto, una matassa di strade che ripetono i tramontati nomi, ecco che ancora una volta Buenos Aires si  traduce in versi ed in maniera quasi spudorata si dichiara eterna: La notte ciclica, una delle poesie di L'altro, lo stesso, tratta proprio del tema dell' Eterno Ritorno: gli atomi fatali ripeteranno le cose che già sono accadute. Ed è qui che si cela il segreto della forza della poesia di Borges: le cose che canta sono idee concrete, viventi dei, atomi di archetipi. Segreto che non è più tale, allorché ci canta chiaro e tondo che: Se è vero (come nel Cratilo è detto) / che l'archetipo della cosa è il nome, / nella parola rosa è già la rosa / e il Nilo nelle lettere di Nilo (Il Golem).  Ma ben altro dà forza ai versi borgesiani: la certezza ch'egli ha d'essere anima immortale che tutto abbraccia: L'anima sa in modo segreto e sufficiente / che è immortale e che il suo vasto e grave / circolo abbraccia tutto e può ogni cosa. Lo scrive in Composizione scritta su un esemplare della gesta di Beowulf nella raccolta L'altro, lo stesso.  Questo sconfinamento, questa grandezza d'anima porta Borges a cantare i grandi di ogni tempo (Omero, Dante, Milton, Swedemborg, Platone, Shakespeare, ecc.) per fare con loro sinfonia. Noi col nostro breve saggio vogliamo rendere omaggio ad un grande poeta a cui è stato negato il premio Nobel. Ma forse ciò è un bene, perché sarebbe stato costretto a fare compagnia a vincitori di tale  premio che di grande posssedevano solo la loro inconsistenza.
E Borges continua a cantare ogni cosa: la Fame: Tu la cui lenta lama rode generazioni / e sugli altri animali precipiti i leoni, / Madre antica e feroce dell'incestuosa guerra, bandito sia il tuo nome dal volto della terra. - Spinoza: Le diafane mani dell'ebreo (Spinoza era figlio d'Abramo) / tagliano nella penombra le lenti (esercitava il mestiere dipulitore di lenti)… / ….Libero da metafora e da mito / intaglia un arduo vetro: l'infinito / ritratto di Chi è tutte le Sue stelle. - Altra poesia dei doni: Voglio rendere grazie al divino / labirinto di effetti e di cause / per la diversità delle creature… / per il viso di Elena e la perseveranza di Ulisse… / per l'amore che ci permette di vedere gli altri / come li vede la divinità… /Per l'acqua libera… per l'algebra…per le mistiche monete di Angelus Silesius…per Schopenhauer…: per il pane e il sale…per il mistero della rosa che dona il suo colore e non lo vede…/ per l'arte dell'amicizia…/ per l'ultimo giorno di Socrate…/  Per Swedemborg… :  e per filosofi, mattini, mare; per il coraggio, per il sonno, la morte, la musica; per il corpo.
Spesso Borges si lascia andare a poesie-inventario come questa, come a volere sottolineare che la sua mente è figlia dell'universo intero, e che il suo spirito è in grado di abbracciare tutto attraverso un amore sconfinato. Sì, Borges è poeta dell'Amore. Lo ha cantato in ogni verso e  in ogni parola. Lo ha indicato anche come collante di tutte le forme. Lo ha celebrato essendolo.
E il canto stavolta va a Junin: Torno a Junin, dove non misi piede, / Nonno Borges, la tua Junin. Mi odi, / Ombra o cenere ultima, o non odi / nel tuo sonno di bronzo la mia rotta / voce?…  
Quando Borges canta così sembra volerci dire: non sentite come  attraverso la poesia ogni cosa é in noi?  Non riuscite a scorgere in ciò il primo passo per rendervi conto che non voi siete nel mondo, ma il mondo è in voi, in questa sconfinata Coscienza Cosmica che è la vera natura di ogni essere, e che Io Sono  è l'unica certezza che abbiamo?  Ce lo grida a modo suo nella bellissima poesia Buenos Aires nella raccolta L'altro, lo stesso: Ti cercavo una volta nei confini / che toccano la sera e la pianura, / nel cancello che serba una frescura / antica di verbena e gelsomini… Ti sentivo / nei cortili del Sud, nella crescente / ombra che va sfumando lentamente / il suo disegno, mentre muore il giorno. / Ora sei in me. Sei la mia vaga sorte, / Sei le cose che estinguerà la morte.
Siamo alla città interiore. Ma un attimo dopo, in una seconda Buenos Aires si riporta dal punto di vista egoico e vede nella sua città quasi una pianta delle sue umiliazioni.
Nel suo grande abbraccio alla sua terra, Borges non poteva certo trascurare il canto popolare. E' così che ha raccolto in  Per le sei corde, le Milonghe.  Sono esse versi da musicare. Nel prologo di presentazione Borges scrive proprio che Nel modesto caso delle mie milonghe, il lettore deve supplire la musica assente con l'immagine di un uomo che canticchia, sulla soglia del suo androne  o in un emporio, accompagnandosi con la chitarra. La mano indugia sulle corde e le parole contano meno degli accordi. Non vuole davvero trascurare nulla, il nostro poeta: della sua terra deve "toccare" ogni corda, sia essa filosofica, sia essa popolare. Queste pure elegie, come lui le chiama, devono essere viste in questa prospettiva, oltre che in quella linguistica-letteraria. A volte, cantando un semplice nome, risale a quanto in esso è celato; altre volte canta un bullo, i mori, gli orientali: Milonga di tante cose / …Milonga di quei mandriani / …Milonga del primo tango / …Milonga di gente gaucha / …Milonga del dimenticato che muore e non si lamenta / …Milonga del domatore di puledri dal piede duro / …Milonga della milonga.  Argentina sempre protagonista.

     Non bisogna mai dimenticare, quando si è davanti ad una persona mansueta e umile come lui, che Borges è stato un uomo di grandissima cultura. L'apparente semplicità dei suoi versi, l'immediatezza della sua poesia, la linearità del suo dire, non devono trarci in inganno. Nel Prologo a Elogio dell'ombra (altra raccolta di poesie), dopo avere messo al corrente il lettore su alcune piccole astuzie che il tempo gli ha insegnato (evitare sinonimi, evitare ispanismi, argentinismi, arcaismi e neologismi; preferire le parole abituali a quelle meravigliose…simulare piccole incertezza…narrare i fatti…), egli dice che  di là dal suo ritmo, la forma tipografica del verso serve ad annunciare al lettore che ciò che l'aspetta è l'emozione poetica, non l'informazione o il ragionamento. Dunque il suo stile è volutamente semplice.
In questa nuova raccolta, che Borges avrebbe potuto intitolare anche "La vita è sogno", il poeta sembra riproporre la sostanza del Qoelet biblico: nei regni spettrali del ricordo, come nei sogni, dietro le alte porte non c'è nulla…nessuno dietro il viso che ci guarda. Diritto senza rovescio / son le cose, moneta ad una faccia… / Siamo il nostro ricordo, / un museo immaginario di mutevoli forme, specchi rotti in un mucchio (Cambrindge).  La vanità delle forme. La vanità e la vuotaggine delle cose materiali. Questa passeggiata per Cambrindge, quando accade, non é di Lunedì, né di Martedì, non è un Giovedì giorno che già si arrende alla domenica, non è in nessun  giorno della settimana: è nei regni spettrali del ricordo…
Ma fra una passeggiata poetica e l'altra per le strade di Buenos Aires, poco dopo Borges chiede a Dio letizia e coraggio per toccare la vetta del  suo viaggio. Forse qualcuno penserà che scavando nella sua vita vissuta per le strade del mondo si possa ricostruire il viaggio che Borges ha fatto fra nascita e morte, ma non è così. La biografia di un poeta può essere solo interiore. Solo il racconto della sua anima (le sue poesie) può farci capire le traiettorie tracciate dal nostro cantore. Ed a volte occorre anche cercarle nella poesia che non ha scritto, che appunto perché non facente parte del tempo e dello spazio, è illimitata, incessante, capace di qualsiasi forma e qualsiasi  colore… come la tela promessa da un pittore che poi è morto: essa vivrà e crescerà come una musica e starà con me fino alla fine…nella promessa è qualcosa d'immortale (The unending gift). Siamo oramai nel periodo di totale cecità: L'uomo, che è cieco,  sa / che non potrà più decifrare / i bei volumi che tocca (Giugno, 1968) - Mancano i giorni ai miei occhi (Il guardiano dei libri).
Ma come è tremendamente profetico quel verso  che in Israele, 1969 così scolpisce e conclude: Solo una cosa ti è promessa: / il tuo posto nella battaglia.
Ed ecco che Buenos Aires irrompe ancora. Nella seconda parte della sua vita essa non è più la sala della biblioteca, la Piazza di Maggio, un muro, un albero, una strada, un'insegna scolorita: Non voglio seguitare; queste cose son troppo individuali, son troppo quello che sono, per essere anche Buenos Aires. Buenos Aires è l'altra strada, quella che non ho calpestata, è il centro segreto degli isolati, dei cortili estremi, è ciò che le facciate nascondono, è il mio nemico, se ne ho uno, è la persona cui danno fastidio i miei versi…è quanto s'è perduto e quanto sarà.
Una Buenos Aieres ancora più intima e segreta vuole la sua parte di poesia. E' quella che lui non  ha potuto tradurre in versi; quella che non ha potuto accogliere, ma che tuttavia, in questa ennesima Buenos Aires trova il suo spazio poetico, come quel quadro mai dipinto o quella poesia mai scritta, come quella cosa mai nata e per questo immortale…

     Ed eccoci a Frammenti di un vangelo apocrifo. In una sorta di anti-discorso della montagna, capovolgendo a volte le beatitudini dettate dal Maestro Gesù, Borges ci comunica che il Povero di spirito non è beato ma sventurato; che sono beati coloro che non hanno fame di giustizia; che bisogna dare quel che è santo ai cani, e che è giusto dare le perle ai porci; ed anche: chi ucciderà per la causa della giustizia, o per la causa ch'egli crede giusta, non avrà colpa, ecc.
Non condividiamo  molto quel che Borges qui dice, soprattutto  "chi ucciderà per la causa della giustizia ecc."  Chi sarà a stabilire ciò che è giusto e ciò che invece è ingiusto?  Solo un maestro realizzato parla veramente . Egli sa che la forma non è l' Uomo. Non per nulla il Maestro dei maestri ha perdonato loro perché non sapevano quello che facevano. Però sappiamo anche della bontà del nostro grande poeta (le sue poesie la testimoniano), e le sue parole possono diventare pericolose solo se bevute da rivoluzionari a tempo pieno, da persone convinte di avere ricevuto alla nascita la verità infusa. Borges sa benissimo (lo dice apertamente in Una preghiera ) che il corpo è solo un compagno di viaggio.   E quando in Elogio dell'ombra, l'ultima poesia che dà titolo alla omonima raccolta, parla della vecchiaia, torna sul tema: nella terza età è morto l'animale, gli istinti del corpo e restano l'uomo e l'anima. E non ci vuole molto per capire che l'uomo, qui, non è il corpo, ma lo Spirito che in esso dimora.  Non si è ancora identificato con Esso, ma lo intuisce in quel verso conclusivo che dice: Presto saprò chi sono. Ha intuito di non essere il corpo e la mente egoica, ma non ha realizzato la sua vera natura, anche se esplicitamente dice (ne Il passato,   della raccolta L'oro delle tigri): Non c'è altro tempo che l'adesso. Cioè non esiste che l'Essere…

      Il cantore di sillabe, come lui si definiva, continua a cantare dopo essersi rassegnato ad essere Borges, con tutta la sua cecità e solitudine, ed a cui è stata preclusa la possibilità di poter vivere una vita alternativa allietata dalla presenza della compagna che non c'è più, e da una vita fatta anche di "vedere". Ma dopo questa accettazione di sé, nella struggente poesia Religio medici, 1643 così prega: Difendimi, Signore… Non dalla spada né dalla rossa lancia. Difendimi bensì dalla speranza.
E' il momento delle Cose. In molte poesie ora Borges si lascia andare a lunghi elenchi di cose che fanno poesia per il solo fatto di essere o di essere state. Un volume, i giorni e le notti, i ritagli delle unghie, La polvere indecifrabile che fu Shakespeare,  una ragnatela, una pietra, un sogno, il pendolo, l'istante inafferrabile, le cose che nessuno guarda… 
Borges comincia a invecchiare più del suo viso (lo dice in 1929 - L'oro delle tigri). E' una vecchiaia totale, che va oltre le rughe e che scava solchi che arrivano alle ossa. E' un'inconscia presa di coscienza di essere morto in vita. Ma la non-conoscenza non dà liberazione, e rassegnarsi ad essere Borges è l'unica strada da seguire. Fino in fondo. Vivere un tempo come Giano bifronte costringe a non essere mai nel qui ed ora: il mio tempo è stato sempre un Giano bifronte / che guarda il tramonto e l'aurora (East lansing).

      Nel prologo di La rosa profonda Borges dice che nelle ultime poesie la cecità ha un timbro lamentevole che non ha nella sua vita, ma avverte il lettore che nella vita di tutti i giorni tale timbro è assente: la cecità è una clausura, ma è anche una liberazione, una solitudine propizia alle invenzioni, una chiave e un'algebra (id.). E poi ha tutto il conforto di Milton che dà coraggio (lo dice nella poesia Il cieco della stessa raccolta): Milton terminò la sua vita da cieco.
Siamo al momento della totale solitudine, quello  che lo vede ignorato persino dai suoi libri (I miei libri) . Quello che aspira alla perdizione di sé: Tutte le notti voglio perdermi nelle acque oscure / che mi lavano del giorno (Efialte).

     Questa raccolta è permeata di tristezza. Borges s'è persino lasciata sfuggire la grandezza di quel libro ricco di filosofia confuciana e taoista che è l' I King: gli esagrammi sono per lui fantasie per popolare l'ozio (l'Oriente).

     Ma eccoci al prologo de La moneta di ferro, ove Borges ci dà forse la chiave per capire più a fondo le sue poesie. Ogni parola è carica di secoli. Riuscire a cantarla così com' è , con tutto il suo peso temporale, e quindi con le sue infinite tonalità che negli anni ha accumulato, è riuscire a cantarne l'Archetipo, l'Idea. Nelle sue poesie le cose sono le parole e viceversa. Solo un'anima "lavorata" può riuscire ad ottenere questo. Solo un forno particolare può sfornare una fragrante vecchia parola.

Borges, oramai pieno di vita e di cose, forse non ha riempito la tazza fino all'orlo, fino a farla traboccare in una sorte di estasi mai appagante. Il suo dover fare poesia ha fatto della sua poesia la sola sua realtà. Ed in tarda età è costretto a dire Io sono un pezzo di limitato acciaio. Poco importa se sta parlando di altri o di altro, perché le parole di Borges sono Borges.
Nella poesia Il rimorso dice ancora di più: Ho commesso il peggiore dei peccati / che possa commettere un uomo. Non sono stato / Felice…  Borges si sta richiudendo in se stesso fino al punto da affermare, parlando di sé, La tua materia è il tempo, l'incessante / tempo. Sei ogni solitario istante. (in Non sei gli altri)

      Borges ha posto sulle sue spalle le cose del mondo come fossero un mantello, ed ora con esse si copre in un guscio di poesia: Io ti supplico: Dio, mio sognatore, continua a sognarmi (Nemmeno sono polvere in Storia della notte).        

                                                                                      

Grazie.  Natale Missale

 

I passi citati sono tratti da Borges -  Tutte le opere - I Meridiani - Mondadori (2 volumi).

 



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