Camillo Sbarbaro - il poeta semplice
Del…
L'opera in versi e in prosa
di Camillo Sbarbaro, il capitolo
Licheni (della raccolta
Trucioli 1930 - 1940 )
è il cuore. Lì è possibile
conoscere questo grande poeta profondamente e capire meglio i suoi versi
e la sua vita.
Camillo Sbarbaro
è un poeta doppiamente grande: per la sua poesia
e per la sua modestia e umiltà vere. La semplicità dona alla sua
poesia quella bellezza che cattura sia il dotto, sia il sempliciotto. E'
raro leggere un poeta così genuino, spontaneo, immediato, e nello stesso
tempo forte, incidente, toccante. A partire dai titoli delle sue
raccolte (Pianissimo, Trucioli,
Fuochi fatui, Rimanenze, Scampoli) si manifesta come colui che porge
se stesso (e il suo mondo condensato di forte emozioni e grandi amori
per la parte più umile del creato) semplicemente. Tutti devono poterlo
comprendere, tutti hanno il diritto di assaporare quanto lui ha
assaporato grazie al dono del suo poetare. I suoi versi, come licheni
strappati alla roccia in alta montagna, vengono volutamente appiattiti e
"confezionati"
su carta
straccia, per ricordare a chi li legge che, ogni cosa rubata alla natura
dal suo amore, proviene dalla natura e non da chissà dove. La sua
formidabile raccolta di Licheni non può essere circoscritta a "lavoro
certosino di botanico": sarebbe davvero riduttivo. Quella libreria
vegetale è il fedele resoconto del suo abbraccio amorevole alle parti
più povere del mondo. Il suo abbraccio all'insignificante,
all'evanenscente, allo scarto, all'inconsiderato. "Nell'amoroso inventario di una minima parte del mondo, quella a me
congeniale, appagavo senza saperlo il supino amore delle cose
…
gli incospicui e negletti
licheni, a salutarli a vista per nome, pare di aiutarli ad esistere",
dirà in
Licheni. Ed in quel
che dice manifesta tutto l'amore e tutta la considerazione che ha per i
negletti, per coloro, cioè, che come i licheni sanno sopravvivere ai
deserti, ai ghiacciai, al tropico, al circolo polare, al buio della
caverna, al cratere del vulcano, e che temono solo la vicinanza
dell'uomo. Questa gente, come i licheni, impara a bastare a se stessa.
Il modo in cui Sbarbaro riesce a trasmettere il suo
amore per i licheni, altro non è che metafora del modo in cui riesce,
nei suoi versi, a comunicare il suo amore per i licheni umani. Dai
"miserabili" del mondo riesce a trarre quella bellezza di colori e
sapori che solo chi vi ha vissuto accanto amandoli poteva fare.
Attraverso la sua raccolta è riuscito a dar vita ad una viva comunione
con il mondo. E se casa sua diventa una sorta di cassaforte del mondo
condensato in licheni, i suoi versi e quindi il suo cuore divengono
cassaforte degli emarginati, dei semplici, degli umili.******
Ma ora avviciniamoci,
pianissimo come lui vorrebbe, alla sua opera, per cercare di capire
come riesca a vedere ogni cosa come un fiore da cui estrarre poesia, e
come, mentre fa questo, si metta da parte come uomo, per permettere al
fior di poeta che è di emanare così, semplicemente, il suo profumo.
Tenendo anche conto del fatto che, i suoi versi sono trincee per
riparare dai guasti del tempo i suoi affetti, per riparare la sua anima
dall'assurdità della guerra, per proteggere i suoi cari dalla paura di
perdere il loro amato in prima linea. Non per nulla, in una lettera del
1916 indirizzata ai suoi, fa presente che, se dovesse succedergli
qualche cosa "non ve ne dolete: il
meglio di me rimane con voi, e nelle righe che lascio scritte (Angelo
Barile le raccoglierà). Il resto, credete, non è che miseria"
(pag. 596 op. cit.). Come dire: di me ha importanza solo il poeta.
Ovvero ancora: quando un fiore ha esploso il suo profumo, ha esaurito il
suo compito di creatura.
Fin dall'inizio Camillo (a volte, per i suoi, si firmava Millo)
presenta se stesso e la sua anima come due sonnambuli che
camminano in un mondo in cui …
gli
alberi son alberi, le case / sono case, le donne / che passano son
donne, e tutto è quello / che è, soltanto quel che è. Il mondo
diviene un grande deserto, ove lui, cieco, sta seduto presso un fiume
e, non potendone vedere le
acque, scambia il loro scorrere per ronzio alle orecchie.
E tutto questo nasce da un gelo al cuore
nato dall'osservare un mondo il cui senso gli sfugge:
"Talor, mentre cammino solo al
sole / e guardo coi mie occhi chiari il mondo / ove tutto m'appar come
fraterno, / l'aria la luce il fil d'erba l'insetto, / un improvviso gelo
al cor mi coglie". Tutto questo gli procura una sensazione
"Perché a me par, vivendo questa
mia / povera vita, un'altra rasentarne / come nel sonno, e che quel
sonno sia / la mia vita presente". Ecco perché aveva detto
sonnambulo: percepisce di essere non-sveglio alla vita reale, di non
essere un risvegliato, un buddha, ma non afferra completamente quale
parte di sé è il "sognatore". Se fossimo stati amici di Camillo e ci
avesse confidato una simile angoscia, gli avremmo detto che, questo
deprimente senso di separazione dal mondo, questo senso di solitudine in
esso, altro non manifesta che l'intreccio di mondi soggettivi mai
comunicanti degli uomini: ognuno si crea un suo mondo di sogno fintanto
che crede di essere quello che di sé vede allo specchio, col suo mondo
fisico, sentimentale e mentale. Fino a quando uno non scopre la propria
vera essenza, fino a che il dormente non si sveglia per scoprire di
essere l'
Essere
e non solo l'
ente che lo manifesta, l'equivoco rimane. Tutti dormiamo, e dormendo
sogniamo di vivere in un mondo tutto nostro con il resto della natura
che fa da contorno. Ora, è ovvio che nel mondo onirico ci si senta
estranei a tutto, perché quel tutto è
proiezione
di sogno, cosa
lontana, finta, gioco di luci. Ed ecco che l'anima
ammutolisce come il corpo,
piena di una rassegnazione disperata. Allora tutto diventa quello
che è, la donna donna, l'albero albero e le case case. Ma se case ed
alberi non possono (almeno così oggi si crede) comprendere la propria
vera natura, gli uomini, con il loro lume d'intelletto possono scoprire
di essere l'
Essere. Ed ecco
perché, con accenti Leopardiani, Camillo, mentre cammina solo al sole,
manifesta tutta la sua solitudine. E' davanti all' Essere (a quella Vita
infinite volte ammirata nei suoi licheni dalle mille forme e colori, nei
suoi fratelli reietti, nella natura in genere) anziché riconoscersi in
Esso, rimane ente. Ed il passo dall'ente al niente è brevissimo. Ma
troppo forte è il richiamo di questa Essenza manifestantesi in infinite
forme, troppo affascinante il canto delle sirene della bellezza
dell'universo, per lasciarsi scivolare nel nichilismo. Camillo, vede
benissimo che lo scorrere delle acque della Vita non è un ronzio delle
orecchie, tant'è vero che lo canta in tutte le salse. La verità è che
egli è un quasi risvegliato e sente estranea e finta ogni cosa. Non è un
dormente, ma uno che sta fra il sonno e la veglia: è alla porta della
verità. E quando dice
Perduto ha
la voce la sirena del mondo, e il mondo è un grande deserto si
riferisce alla voce dell'ego di tutti coloro che credono di vivere, ma
si lasciano vivere da un sogno idiota.
A questa prima poesia abbiamo dato molta
importanza, perché in essa Sbarbaro anticipa tutti i temi di fondo del
suo tormentato esistere. Stiamo esagerando facendo di Camillo un quasi
risvegliato? Crediamo di no. Uno che ha vissuto come lui ha vissuto - in
povertà, modestia, umiltà, a contatto coi meno fortunati e i derelitti;
nel più assoluto pacifismo; in un mondo di buoni sentimenti;
costantemente rivolto alla comprensione di sé; schivo e vestito di
bonaria superbia - uno che comincia a sentirsi estraneo in un mondo di
dormienti che credono di essere svegli; uno che sta con un occhio nel
mondo dei sogni e con l'altro in quello della verità; uno che al fronte,
durante la seconda guerra mondiale, nota
l'indifferenza di tutto ciò che è
eterno alla nostra Grande Guerra; beh, uno così è mezzo risvegliato,
uno che sta per fare il salto e vede che la meta è conseguibile con un
completo distacco, e che il terreno su cui può vincere questa battaglia
è quello della povertà e della semplicità. Non dimentichiamo che "i
poveri di spirito" sono coloro che più di tutti assomigliano ai buddha.
La loro mente è quasi tacitata. Essi rappresentano quel punto della
cironferenza che sta per chiudere il cerchio; sono una sorta di alba: né
giorno, né notte. Sono borderline, di confine, e tutto questo Sbarbaro
lo percepiva in loro e in se stesso mano mano che riduceva il suo ego a
poca cosa. Potremmo accostare Sbarbaro a quel personaggio del
Castello
di Kafka che sta
davanti alla porta del maniero e non si decide mai ad entrare.
Ma "assomigliare"a un buddha non significa "essere-
lo", e le poesie del Nostro lo confermano ampiamente. In
Scampoli
dirà "Come
per via, nella vita rasento i muri. Escluso dal cancello padronale,
indugio con gli occhi nell'ombra dei parchi dove i fiori inutilmente si
sfanno" (Op. cit. pag. 210). Se leggiamo il tutto come metafora
dell'attraversamento della porta che dal sogno porta alla realtà-verità,
in quell'esclusione dal cancello padronale possiamo vedere una libera
scelta che lo vuole lì, davanti alla porta che lascia filtrare qualche
raggio di Vita-Luce dalle fessure, mentre della vita coglie solo
l'attimo in cui essa abbandona la forma, l'attimo in cui l'Essere
abbandona l'ente, l'attimo in cui la "cosa" va incontro alla morte, il
momento in cui ogni elemento torna alla sua fonte: polvere alla polvere:
i fiori che si sfanno. "Mi
specchio nei reietti e nei
diseredati dirà nello stesso
truciolo poco dopo. Come dire: tutto è vano: bellezza, ricchezza,
tutto è destinato a morire. Quindi, tanto vale non dare ad esso
importanza e nulla desiderare se non la compagnia di coloro che nulla
desiderano ed a cui basta un bicchiere di vino ed una cantata per essere
felici. Ma quello che non fa l'uomo Sbarbaro, fa il poeta Sbarbaro, ed
ecco che la
Bellezza,
il fiore
della
Verità
viene perseguita
a suon di versi. Persino dalla più totale tristezza e disperazione è
possibile distillare il bello: un triste canto disperato, che privo di
ogni gravità punta dritto al Cielo; un fior di loto che ergendosi sopra
l'acqua stagnante, affondando le radici nel fango, trova la forza di
mostrare il suo candore appena rosato al sole. E nonostante i tanti
"veleni" che la vita gli regala, anzi
"per tutto questo amaro t'amo,
Vita".
Abbiamo fatto di un quasi nichilista un mezzo
buddha? Certo, molte poesie battono sulla vanità e inconsistenza della
vita, "l'irragionevolezza della
vita". Ma quando la sua anima straripa come fa nei versi: "Il
mio cuore si gonfia per te, Terra, / come la zolla a primavera… / tutto
m'intenerisce e mi dà gioia. / In te mi lavo come dentro un'acqua / dove
si scordi tutto di se stesso. / La mia miseria lascio dietro a me / come
la biscia la sua vecchia pelle. / Io non sono più io, io sono un altro.
/ Io sono liberato di me stesso" (Op.cit. pag. 45)
- quando, dicevamo, la coscienza riesce ad "espandersi" in tal modo,
quando l'amore per la natura fa abbattere la barriera della pelle e fa
dilagare per il creato, in quel momento l'Essere si manifesta malgrado
l'ente si ostini a negarLo. L'abbraccio alla natura Camillo lo realizza
con gli occhi innanzitutto e poi con tutti i sensi: "Ché
tutta la mia vita è nei miei occhi : / ogni cosa che passa la commuove /
come debole vento un'acqua morta"
(Id. pag. 46). Una sorta di follia
mistica pare prenda il Nostro quando, chino su un prato d'erba, apre i
rubinetti del pianto: un pianto di gioia per la nascosta estasi, per
l'uscita di sé da sé. Ma non solo con un prato: la comunione può
avvenire attraverso poche righe che Benedetta aggiunge ad una lettera
che la sorella gli spedisce al fronte; attraverso la scoperta di un
nuovo lichene nascosto in un muro o presso un precipizio; attraverso il
silenzio condiviso con un amico occasionale di trattoria dopo una
allegra bevuta; oppure alla vista dei monti, dei fiori, del cielo, del
padre attraverso un ricordo d'infanzia; della sorella; di una prostituta
o di mille altre cose. E scappare fuori da sé per queste ed altre cose
ancora è frutto di esaltanti follie, cioè di assenze di ego, di
comunione con la natura e la gente: "Io
sono ancora giovane, inesperto / col cuore pronto a tutte le follie"
(id. 50). Follia che scatta anche quando la sua anima, cercando negli
occhi di un altro essere umano qualche somiglianza con essa, si specchia
negli occhi di una giovane prostituta. E' allora che Camillo offre da
mangiare e da bere alla ragazza, poi va a letto con lei, "cadavere
vicino ad un cadavere / bere dalla tua vista l'amarezza / come la spugna
secca beve l'acqua".
Se esaminiamo i contenuti di questi ultimi versi ci
possiamo rendere conto di come Millo con questa povera gente faccia il
pieno di tristezza, di amarezza, di povertà. Attraverso una condivisione
sottile, amorevole, in una totale donazione di sé, assume dell'altro non
i soli contorni ma tutti i colori dell'anima. E in quei momenti, come
diceva per i suoi amati licheni, pare che a questi disgraziati dia una
mano ad esistere. E certamente lo fa doppiamente, perché tutti coloro
con cui ha condiviso l'anima sua vissero allora e vivono ancora oggi,
senza età, nei suoi versi.
Camillo Sbarbaro, però, non è solo questo, è anche
un uomo che spesso, tramite i ricordi, ritorna bambino attraverso la
vista di una vecchia casa, un antico vicolo, un albero, una chiesa. E
gira allora fra quei ricordi come un ragazzetto fra le giostre,
attingendo stupore. Come una spugna attrae arte, che con grande cura
libera dalle erbacce della ricercatezza, per trasformarla in lichene:
ché tutti la comprendano, e soprattutto ché tutti sentano l'amore che il
poeta delle cose semplici ha condiviso con la natura ed ogni suo essere.
Come quando, trovandosi davanti il paesetto Voze: "Voze,
che sciacqui al sole la miseria / delle tue poche case, ammonticchiate
/come pecore contro l'acquazzone… / In te, Voze, m'imbatto nel bambino /
Che fui…" (Id. pag. 94). Quante volte Sbarbaro provò "disagio da
stupore" alla vista di campagne, mare, fiumi, strade, e come tale
disagio sapeva trasformare subito in versi altrettanto carichi da
stupire. Non è un banale fotografare, ma una sorta di "arcivernice" che,
non ricordiamo in quale vecchio fumetto degli anni passati, venendo
spalmata su una figura faceva sì che essa si animasse. Magia poetica: "Un
dì nella città tumultuosa / dove fughe di strade a vista d'occhio /
aprono prospettive d'infinito, / Disagio da stupore in me nasceva…"
(Id. pag. 110). Anche se i disagi sono pure d'amore, come quello
manifestato in una dedica a Benedetta (il cui vero nome era Maria), che
appena sedicenne venne a sostituire in casa loro la sorella (loro madre)
appena morta: "Tua era in casa la sedia cattiva, il posto scomodo: preferenze cui
sapevi sempre trovare disarmanti giustificazioni. Ti chiamavi Maria ma
il nostro cuore ti chiamava Benedetta… Almeno tu ci resti viva finché
viviamo, finché pensarti è inginocchiarci". Camillo Sbarbaro parla
spesso nella sua opera del padre, della sorella Clelia e di Benedetta, e
sempre lo fa con immenso affetto. E giù poesie: una costante ed
estenuante lavorazione alchemica di sé, che sotto la metafora del
falegname dà vita a poetici scarti di lavorazione:
Trucioli,
appunto. Una
curiosità. Chissà se Pirandello aveva letto il truciolo 24 (cfr pag. 140
op. cit.) laddove, parlando di insurrezione di fantocci che danzavano e
ondeggiavano nella mezza luce? - potrebbe avere dato lo spunto
all'incompiuto
finale de
I giganti della montagna?
Un altro aspetto fondamentale di Sbarbaro è la solitudine: "Sento
improvvisamente che non ho mai baciato una donna / e con un leggero
freddo mi vedo / nero prete traversare il mondo". Una solitudine,
quindi, simile a quella di un religioso che, per libera scelta, ha
seguito la sua vocazione. Ma il Nostro non si è fermato al diaconato,
s'è fatto pontefice, ponte fra il cielo (l'arte poetica) e i reietti. Ma
questo pontificato non si limita alla "chiesa" che accoglie i diseredati
e gli umili, esso intende anche fungere da ponte fra il resto del mondo
e la natura: Sbarbaro cerca di attirarci nelle bellezze di essa a forza
di canti: la ricerca della giusta parola, del giusto verso assomiglia
molto alla frenesia con cui il pittore, mischiando i colori sulla
tavolozza, cerca di ottenere "quel" colore e solo quello. Ma non solo:
tutti i colori che egli riesce a creare li sintetizza poi in amore e ci
costringe ad amare "la nebbiolina che annega l'altopiano",
ad osservare il mare di
Camogli, dove
"nella pece
dell'acqua, addentata dai moli, bisce di luce si divincolavano",
ad
essere travolti da una donna che "recava
con noncuranza pel mondo il pericoloso dono della bellezza",
oppure ad assistere ad un
tramonto, allorché "a spegnere
tutto, cominciarono a calare, uccellacci, le ombre",
oppure ancora
ci invita ad osservare e sentir cantare il mare che anche in tempo di
bonaccia nelle scogliere "brontola
schiaffeggiando la magra spiaggetta". E tante altre cose ancora.
Noi, come bravi cherichetti, diciamo amen.
E che dire di qualche aforisma dal vago sapore
filosofico, tipo: "Per due facce è
abitabile il presente, la finestra del passato e quella del futuro;
l'una finta, l'altra cieca" (Id. 490), o ancora: "Una
cosa è quando è detta; è la parola che dà consistenza (e durata) al
mondo" (492). Da Camillo non ci si poteva aspettare di più, essendo
la filosofia appannaggio di menti complicate, ed avendo lui sposato la
semplicità.
Per quanto riguarda traduzioni e lettere dal fronte
(prima guerra mondiale), rimandiamo alla sua citata opera. Per
approfondire lo studio su Camillo Sbarbaro si consiglia di leggere la
breve intervista di Ferdinando Camon al poeta, contenuta ne
Il mestiere di poeta -
ed.
Garzanti anno '82 (la si può leggere anche su Internet insieme con le
oltre 50.000 citazioni del Nostro)
Infine, dopo avere ricordato che Camillo Sbarbaro
nasce a Santa Margherita Ligure il 12 Gennaio 1888, e muore a Savona il
31 Ottobre 1967, vorremmo concludere questo breve saggio con una lettera
aperta a questo grande umile poeta.
Sappiamo bene, caro Camillo, di avere tirato fuori dai tuoi versi
(perché tutta la tua opera, compresa la raccolta di licheni, consta di
soli versi) anche ciò che tu non hai mai detto espressamente. Sappiamo
di come per te la metafisica con tutti i sui alti interrogativi fosse
inutile. Sappiamo anche di come ti importasse poco la critica dei
critici. Sappi, però, che noi abbiamo voluto innanzitutto celebrare la
bontà, la coerenza, la semplicità dell'uomo Sbarbaro ricco di Liguria,
di umili e di natura. Perché per noi anche la tua vita è poesia, avendo
tu inventariato ogni sensazione, sentimento e pensiero nei tuoi versi.
Se abbiamo esagerato, non ce ne volere, e considera un fatto. Come tu
col tuo universo poetico ti sei creato un mondo con al centro il tuo
lavoro di alchimia poetica, anche noi ci siamo creati il nostro piccolo
mondo. E così, mentre tu ponevi nei vari scaffali della tua vita i mille
personaggi, la sterminata raccolta di licheni, gli innumerevoli paesaggi
liguri e non, noi, nei piccoli cassetti della nostra vita, oltre al
resto, abbiamo posto in bella evidenza un buon numero di poeti e
pensatori che riteniamo essere la crema dell'umanità. E fra questi
abbiamo posto te e la tua vita-poesia. Però, come dicevamo nel corso del
nostro breve saggio, ognuno ha un suo mondo che nulla ha a che vedere
con quello degli altri: gli stessi soggetti, gli stessi paesaggi, le
stesse cose sono viste da angolazioni diverse che danno vita a tante
verità quanti sono i punti di vista. Qui non si parla di scienza, ma di
coscienza, per cui se le tue poesie ci fanno vibrare in un certo modo e
fanno scattare in noi particolari riflessioni e considerazioni, ciò non
vuol dire avere frainteso le tue parole ed i tuoi principi, ma soltanto
avere interagito con te e i tuoi pensieri e sentimenti. La nostra non
vuole affatto essere una critica letteraria, ma un omaggio ad un uomo,
ad un essere vivente che ha elevato un canto particolarmente melodioso e
armonioso. D'altronde, a te i critici piacevano poco. Nel nostro piccolo
mondo abbiamo voluto colorare la tua voce con i nostri colori, coi
nostri principi, con le nostre convinzioni.
Con queste poche righe vogliamo solo ringraziare
te, la tua famiglia, la Liguria, tutte le persone che ti hanno sfiorato
lungo il cammino della vita, tutti i paesaggi su cui hai posato lo
sguardo e i piedi ed in cui hai lasciato un po' di anima, e, non ultime,
le tue raccolte di licheni. Grazie per la tua poesia e la tua umanità, e
considera queste nostre semplici e grate parole come umilissimi
trucioli, resti di lavorazione di noi su noi stessi.
Con affetto, Natale Missale
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