Dino Campana
Il Poeta
Anche i poeti
Che sono dello spirito
Debbono essere del mondo
(Holderlin -
L'Unico,
prima stesura - Ed.
Fabbri delle Liriche,
pag.
437).
Cos'è la poesia? Cosa trasforma un insieme di
ordinarie parole in poesia? Chi è il poeta?
La poesia è l'anima delle parole, l'essenza di
esse, cioè
verità.
Qundi a
trasformare un insieme di parole
normalissime in poesia è la
conoscenza,
e colui che conosce è il
poeta.
Quando un poeta osserva
un volto, un albero, una montagna, la neve, la pioggia, il sole, le
stelle, il mondo, riesce a catturarne l'essenza grazie alla propria
essenza (da anima ad anima). Ciò può avvenire consapevolmente o no.
L'autore della B. Gita, per esempio, era certamente una persona
illuminata, aveva conosciuto il Divino in sé e ne parlava per esperienza
diretta. A nostro parere, la maggior parte dei poeti ha una natura
mistica soffocata, a volte, anzi, i poeti mostrano uno sprezzante
ateismo che mal si concilia con la bellezza racchiusa nei loro versi.
Ovviamente parliamo dei poeti veri, quelli con la P maiuscola, quelli
che di solito non fanno parte dei salotti letterari, o se ne fanno parte
sono considerati intrusi, fuori casta, inadatti. Come si fa a
distinguere un poetuncolo da un vero poeta? Semplice: il primo
scrive
quello che
sente, il secondo
canta
quello che
sente. Ed il canto
può nascere quando nasce una canzone. Ma attenzione, non è detto che
siano solo i versi a proporre poesia: anche la prosa può,
paradossalmente, essere poesia, ed i grandi romanzieri, i grandi
scrittori e pensatori in genere ne hanno dato abbondantemente saggio
nelle loro opere.
Ma la poesia non è solo questo, essa per il poeta è
anche una "bocca" con cui può cibarsi di mondo per assimilarne l'essere
, per poi riconsegnare questo oramai
suo
mondo alla parola. Ecco
dunque che la parola poetica è testimonianza dell'essere degli enti. La
poesia perciò è anche una filosofia per gente pratica che non ha tempo
da perdere in asfissianti ragionamenti, in contorcimenti verbali che
nulla possono provare, se non il fatto che ogni filosofia "supera" (?)
la precedente ed è in attesa di essere
"superata"(?). La poesia è intuitiva, aforistica, essenziale.
Dino Campana sa cantare il mondo perché è toccato profondamente
dal fuoco che lo anima. Se dice che le montagne sono arse dal silenzio è
perché di quel silenzio percepisce il fuoco, cioè ne
sente
il calore, il suono, il
movimento, la luce. In una parola: ne coglie il
Fiat. Sì, il mistero dell'essere.
Ma per affinare il
senso
a tal
punto occorre donarsi ogni volta alle cose, a tutto, e questo necessario
smembramento dell'anima, questo frantumarsi quotidiano, questo dilagare
spappola la maschera, la persona, facendo di essa un
caos
da cui è difficile
uscire, perché l'amore del poeta
è totale, la donazione di sé non ha limiti né di tempo né di
spazio. Il poeta, così frantumato, perso il proprio centro sterile, il
nucleo della cosiddetta personalità, è ormai come una nave che, in un
mare in tempesta, ha perso le vele, il timone e la rotta, mentre il
cielo notturno è coperto da montagne di nubi.
Il vero problema della vita gli sfugge. Diviene anonimo testimone
di se stesso nel mondo. Si fa occhio e si vede come un estaneo. Quando
Campana rievoca la sua prima esperienza sessuale, proprio nelle prime
pagine dei suoi
Canti orfici,
nella Notte, egli scompare per far posto al suo
sentire,
un sentire profondo che va aldilà dei sensi, un sentire in
uscita
più che in
entrata: "E la sacerdotessa dei
piaceri sterili, l'ancella ingenua ed avida e il poeta si guardavano,
anime infeconde inconsciamente cercanti il problema della loro vita"
. Ma il senso (vista, udito, tatto, gusto, olfatto) non può cercare il
senso della vita.
Campana nasce a Marradi il 20 Agosto del 1885. Per
quindici anni conduce una vita più o meno normale. Nel 1900 "incominciò
a dar prova - scrive il padre al direttore del manicomio di Imola - di
impulsività brutale, morbosa, in famiglia e specialmente con la mamma".
Nel 1906 conoscerà questo manicomio ove resterà internato per un paio di
mesi. Tre anni dopo, manicomio di Firenze. 1910 manicomio di Tournay in
Belgio. Nel Gennaio del 1918 verrà internato nel manicomio di Castel
Pulci, presso Firenze, da cui non uscirà più. Muore il 1° Marzo 1932
per setticemia. Il resto della sua vita: famiglia, scuola,
amicizie, amori è che una continua lotta, perché lui, nato poeta, era
destinato come tutti i grandi poeti alla solitudine. Holderlin,
Nietzsche, Leopardi, Pavese, Quasimodo, Merini e tanti altri, vivevano
nel mondo, ma da soli, nonostante a volte le intense amicizie, gli
amori, le passioni, le relazioni sociali. Spesso le vere amicizie loro
sono le montagne, i fiumi, le selve, i sentieri, la neve, le nuvole, le
barche, il vento; oppure il volto di una ragazza, una città rievocata,
un profilo d'uomo barbuto, delle passeggiatrici. Holderlin, che come
Campana ha conosciuto e vissuto i manicomi,
ha cantato i luoghi della sua Germania come nessun altro. Ed ecco
allora i "rosseggianti fiori sui rami infiniti del bosco"
(in
Tempo ozioso); ecco il
"sole del mio paese
che
ancora fai rossi i sentieri"
(in
Il viaggiatore); oppure: "l'armonia
dei bisbigli del bosco"). Holderlin, come Campana, canta spesso la
Natura. Ma entrambi sentono fortissimo il tarlo che li rode, la spina
che li punge. Non sono come gli altri uomini: "vivono
i mortali / di lavoro e compenso. S'affaticano / e riposano, e tutto si
fa gioia. / Solo in me veglia sempre la mia spina"
(in
Fantasia della sera
di
Holderlin). Non c'è compenso che li appaghi, e tutto sì, si fa gioia, ma
ad una condizione: che venga trasfigurato dalla poesia. Tale
trasfigurazione però richiede un fuoco costante e forte da alchimisti
temerari, ed i costi da pagare sono altissimi. I poeti, che sono dello
spirito, debbono essere del mondo se vogliono cantare la Natura col
canto del poeta. Devono, i veri poeti, essere folli, perché il loro
amore ricerca l'abbraccio totale, e le distanze sono infinite: ci si
perde. Il mondo allora appare come un
panorama scheletrico,
perché
la Vita di esso si è fatta poesia, parola cantata, carne. Si va in
estasi poetando in un ricordo trasfigurato, e Campana in quegli attimi
si sente "bello di tormento"
e
la sua vita è "tutta un'ansia del
segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull'abisso".
Nasce una fuga mentale verso le montagne alte delle Alpi, laddove
la Natura parla, come una cattedrale, linguaggi speciali, solenni: "e
in fondo al mio cuore salivo".
Ma nel ricordo, esplodendo la poesia,
la stessa città e le vie
appaiono" deserte come dopo un saccheggio". Tuttavia il poeta non s'accorge
che il saccheggiatore è lui stesso, il suo poetare. La sua estasi
poetica dissangua ogni cosa, compreso il suo corpo: "il mio sangue tiepido era certo bevuto dalla terra".
Dino sta ancora rievocando ill
suo primo amore con una prostituta, ma la sua poesia oltrepassa i
confini del puro racconto, dilaga, diventa simbolica, onirica, magica,
metaforica, riuscendo quasi a cristallizzare il tempo. Una notte si
trasforma in regina, una prostituta trasforma se stessa nella donna
regale; la bassezza si fa "altezza": il corvo si trasmuta in aquila: "Solitaria
troneggiava ora la notte accesa in tutto il suo brulicame di stelle e di
fiamme".
Come può uno che
canta così ricordarsi del suo corpo e della sua mente? Come può rimanere
"normale" (?)? - No, Campana non era matto, quello che il suo corpo
continuava a fare altro non era che residuo karma da "scontare",
inerzia. E tutti a guardare i suoi vestiti, le sue scarpe bucate, la sua
barba sporca e gelata. Nessuno sapeva ascoltare l'uomo: l'occhio
focalizzava soltanto i frutti della sua disperata solitudine umana e
artistica. Il vero artista non può più essere uomo, non può più essere
artista. E' borderline, evitato come la peste. Solo un altro grande
poeta può accorgersi di lui, ma costui non può che essere solo a sua
volta, e non ha tempo per posare lo sguardo oltre il suo mondo poetico.
Osserviamo dunque tale grande poesia per rendere omaggio ad un
incompreso, ad un inattuale.
Come in Holderlin, la poesia di Campana lambisce a
volte il pensiero filosofico. Il primo aveva vissuto in compagnia di
giganti della filosofia (Hegel, Schelling, Fichte, ecc.), il secondo
aveva sondato la vita in se stesso e nella Natura, giungendo fino alle
soglie del risveglio: "Tutto è
vano tutto è sogno…Gli uomini come spettri vaganti: vagavano come gli
spettri: e la città (le vie le chiese le piazze) si componeva in un
sogno cadenzato, come per una melodia invisibile scaturita da quel
vagare…Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato
sull'infinito, che tutto ci appare ombra di eternità. A quale sogno
lavammo la nostalgia della nostra bellezza? La luna sorgeva nella sua
vecchia vestaglia…" .
Sarebbe interessante interrogarsi su chi veramente sono i matti da
legare: coloro che credono davvero di vivere, privilegiando la bestia e
non puntando mai gli occhi al "cielo", o chi, come Campana, Holderlin,
Merini e tanti altri, ahimé, conoscitori di manicomi, hanno saputo -
dopo aver conosciuto la propria bestia - elevare canti così strazianti e
potenti da graffiare i contorni del cielo?
Il battito d'ali di queste potenti farfalle dal volo
imprevedibile ci rinfresca l'anima. La loro sconfinata solitudine fa
nascere in noi giammai pietà, ma amore per chi ha osato giungere fino
alle porte dell'abisso su cui Lo Spirito di Dio aleggia da sempre. Hanno
atteso invano un Fiat che è esploso dentro e che non poteva essere
"visto", un Verbo che ha parlato, ma che non è stato udito perché ha
usato il linguaggio del Silenzio. Ed ecco la grande disperazione
esplodere in poesia; ecco un Fiat irregolare: la poesia; ecco il rifiuto
di essere come si dovrebbe, per essere come si è: un sogno, una
nostalgia di bellezza. Ecco infine gli echi di tale bellezza: "Ci
leggi, Signore, negli occhi / almeno, / nell'acerbità dei muscoli del
volto / tesi, / il divenire ineffabile dell'anima, / il nostro
struggimento per un bene / che non può giungere oltre / il poverissimo
limite del pianto" -
dirà la grandissima Alda Merini in
Piccoli canti,
e lo stesso avrebbe potuto dire
Campana. La poesia di questi cantori è dunque anche pianto per un
paradiso perduto, per una bellezza irraggiungibile ormai, per un mondo
che solo i matti - quelli che mai hanno conosciuto e mai conosceranno il
manicomio - possono ritenere reale e non illusione, sogno. Quando
Campana dalle solitudini mistiche vede
staccarsi una tortora
volare
distesa verso le valli immensamente aperte, sta osservando questo
sogno che è la vita, e come un De Chirico ce ne presenta il mistero, il
metafisico, l' oltre mondano,
con versi colorati di bellezza assoluta.
Come dei Bodhisattwa, questi grandi folli poeti
d'amore, si sono fermati alla luna, ma cantano il sole, chi con amore
senza confini, chi con domande profondissime, chi con parole
taglientissime, e chi…
L'Amore Uno canta in ogni poeta con voce diversa.
La nostalgia di questa Unità sottratta dalle apparenti individualità è
la molla che muove i poeti. I tentativi paradossali che essi fanno
mirano alla illuminazione, cioè alla scoperta di essere la Luce che
muove i personaggi di questo infinito universo, e nello stesso tempo
alla conservazione del proprio
io.
Ma finché credi di essere il personaggio dello schermo, o, se sei più
avanti, la pellicola che si muove nel proiettore, non potrai mai
realizzare di essere la Luce che proietta le immagini che si muovono
sullo stesso schermo. Ecco la vera follia dei poeti: intuire di essere
quella Luce, quell'Amore che è l'essenza di ognuno di noi, e volerne
dare testimonianza nella carne che altro non è che energia, elementi,
cibo. Voler essere
Uno
nell'abito del
due. E noi
non-poeti dobbiamo comprendere che, il nome
Alda Merini
non indica quella
simpatica signora che scrive sue poesie, ma quell'Amore indiviso che
canta attraverso il corpo di lei. Il nostro caro Campana, pertanto, pur
avendo conosciuto quasi solo l'amore delle prostitute, è una canzone
d'Amore. Ecco anche perché è impossibile provare pietà o compassione per
questi folli: l'Amore può manifestarsi solo in assenza di colui che sta
poetando. O il Campana, dunque, o la poesia; o la Merini, o la poesia.
Bisogna allora che questi signori vadano
verso le solitudini alte,
lontano da altri io incomprensibili, e lassù dilagare per ogni dove:
verso
le melodie della terra,
verso
il torrente che rovina e si
riposa nell'azzurro eguale,
verso
le navi gravi di vele molli,
verso
la prateria senza fine
deserta senza le case umane -
e lì, sentire l'infinita solitudine richiesta perché Amore riprenda le
redini dell'essere: sì, l'ente non può testimoniare l'essere, perché la
morte lo sorprende ogni giorno. Solo l'Amore può farlo, la Luce soltanto
dà vita ai fantasmi dello schermo. Ci si deve dunque annientare nella
più profonda delle solitudini per essere quel Tutto che si è sempre
stati, che si è, che sempre si sarà. L'universo viene dall'Amore; la
vita viene dell'Amore. Sposare il corpo vuol dire sposare la morte.
Campana ha sposato la poesia, la Vita. Ma lui non è finito in una tomba,
perché, come ognuno di noi, egli è Vita onnipervadente, Coscienza Una
tuttoproiettante. Campana è i
Canti orfici,
ed il suo vero corpo è questo piccolo grande libro.
Dal 1885 al 1932 visse solo un corpo di solitudine:
Di notte nella piazza deserta,
quando nuvole vaghe correvano verso strane costellazioni, alla triste
luce elettrica io sentivo la mia infinita solitudine.
La sottolineatura è nostra. E
questa solitudine durerà fino al giorno in cui tutto gli diviene
indifferente e vede sciogliersi la vita di ogni cosa che crede di essere
quella cosa:
"tutto fonde come la
neve in questo pantano: e in fondo sento che è dolce questo dileguarsi
di tutto quello che ci ha fatto soffrire".
Fino a che le vele della
sua barchetta si schianteranno "nell'ultimo
schianto crudele". Fino a che
la commozione del silenzio intenso
si fa
prodigiosa,
e vi si tuffa
dentro piano piano fino alla stasi, come un treno che lentamente si
ferma alla stazione d'arrivo: "Un treno: si sgonfia arriva in silenzio, è fermo.
E' la fine di un
corpo, perché poco dopo:
"il treno
mi passa sopra rombando come un demonio".
Finalmente Campana, il vero
Campana, la Poesia, si è liberata del grosso fardello del corpo, e le
parole si fanno Silenzio.
Grazie, Natale Missale
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