Dostoevskij-Diario di uno scrittore
Va detto subito che
Diario di uno scrittore
non è un diario. Si tratta di giornalismo.
Dostoevskij aveva accettato la direzione di una rivista mediocre ("Il
Cittadino"), ed in essa, a partire dal 1873 e fino
al 1881, pubblicò
mensilmente questo
Diario. Gli
argomenti in esso trattati sono i più vari: attualità, politica,
religione, fatti di cronaca, qualche racconto, argomenti vari. Esso è
una finestra aperta sulla Russia di quel tempo e sull'animo dell'uomo
Dostoevskij. Attraverso il
Diario è
possibile dare una sbirciata alle radici del popolo russo: l'ortodossia
cristiana. Con sorpresa abbiamo scoperto tracce di antisemitismo,
diciamo così, moderato, in questo grande scrittore, che però mai
manifesta odio contro gli ebrei. Quando scrive "
Gli ebrei e
i polacchi distruggono la Russia" non
fa che ripetere un luogo comune allora in voga. Armando Tonno,
nell'introduzione al Diario
ediz. Bompiani pag. XV
spiega come lo scrittore veda nell'ebreo una mentalità basata sul freddo
calcolo al fine di trarre vantaggi dal commercio senza badare alle
sofferenze altrui, e contrappone ad essa l'abnegazione del russo che va
oltre lo spietato razionalismo ebraico. Ed è proprio qui, in questa
caratterizzazione, che egli ci permmette di vedere le fondamenta
dell'animo russo.
Dopo averlo letto, condividiamo quanto del
Diario
dice Armando Tonno: "agenda, laboratorio, palestra per provare l'impatto
degli argomenti, spazio per dar sfogo alle impressioni, specchio delle
contraddizioni di un 'epoca', luogo dove si pensano idee e personaggi,
gabinetto critico e di scrittura, tribuna politica, angolo dei
pregiudizi…". Certo A. Tonno non dimentica per un solo istante che
Dostoevskij è uno scrittore di romanzi, per cui il Diario è tutto quello
che ha detto. Ma il
Diario
è molto altro ancora: una dichiarazione d'amore
per tutta la terra russa ed il suo popolo, un'apologia del cristianesimo
ortodosso, un lungo discorso sulla slavofilia, il luogo dei sentimenti,
e, non dimentichiamolo, un'opera giornalistica.
Se Dostoevskij "ci spinge nei grandi romanzi disperatamente verso Dio",
nel Diario ci spinge
pazientemente verso
la massima biblica:
ama il prossimo tuo come te stesso.
Lo fa servendosi di fatti di cronaca nera, di sentenze del tribunale, di
politica, di economia, di sociologia, e di tanti altri argomenti
apparentemente banali.
Nel Diario
ci imbattiamo spesso in un Dostoevskij malato che
avverte i lettori della non uscita del suo mensile per qualche tempo;
uno scrittore appassionato al problema slavofilo; sensibile alle
problematiche della famiglia; umorista; una persona ricca di buon senso
e di umiltà capace di riconoscere i propri errori, pronto a confrontarsi
con i suoi lettori, a cui spesso risponde dalle pagine del suo mensile.
Insomma ci troviamo di fronte ad un pensatore a tutto campo, che però,
stranamente, pur essendo letterato, parla pochissimo di letteratura,
limitandosi ad elogi a Puskin e Tolstoij, qualche debole critica ad un
personaggio di Anna Karenina.
Si è detto che questo
Diario
sia stato una sorta di preparazione a
I
fratelli Karamazof e sia stato anche il
pensiero dostoevskiano nel suo divenire (Ettore Lo Gatto). E' proprio
così, perché, ora intervenendo a difesa di una giovane madre condannata
all'ergastolo, ora inserendo nel
Diario
degli strani
racconti, lo scrittore sta sicuramente facendo le prove generali per i
suoi futuri romanzi. Ma non dimentichiamo che, sempre, quando uno
scrittore "racconta", non fa altro che studiare se stesso per
conoscersi, e, così facendo, studiare l'uomo e la collettività.
Ma cominciamo a penetrare in questo
Diario,
e prendendo spunto dai suoi contenuti cerchiamo di renderlo attuale in
quelle tematiche che interessano ancora oggi la nostra malata società.
Già nell'introduzione Dostoevskij
ci invita alla
riflessione attraverso una ironica considerazione sulla stupidità,
ricordandoci che prima di quel tempo, ammettere "io non capisco niente
di questo o di quello" manifestava solo stupidità, mentre "adesso"
(siamo nel 1873), se la stessa cosa si pronuncia con aria seria e
superba, ci si pone subito "ad un'altezza straordinaria". "In
sostanza, conclude,
da noi ognuno sospetta l'altro di stupidità, senza
riflettere e senza rivolgere a se stesso la domanda inversa: ma non sono
forse io lo stupido?"
(Pag. 5 op. cit.).
Già da principio, dunque, Dostoevskij
manifesta le sue radici cristiane
richiamando la pagliuzza e la trave dei Vangeli, ma amplificando il
concetto, senza nominarlo, sembra voler parlare del politico, il quale
spesso, pur non conoscendo nulla, parla come se conoscesse tutto, ed
anche quando sa di non sapere e quindi di essere idiota, ovvero sciocco
e ottuso, gonfia il petto, ammette la propria ignoranza con tecnica
sopraffina, e tutto un popolo di sciocchi lo lascia a quella illusoria
altezza cui lui stesso si è posto. Oggi, con situazioni del genere
potremmo riempire un trattato. Falsi maestri pullulano in tutti i campi.
Ognuno esalta l'altro in un assurdo giro di apologie dell'idiozia.
Stanno distruggendo tutto il distruttibile (valori, morale, etica, buon
senso, tradizioni, principi, consuetudini, ecc.). Dicono: è tutto
vecchio e morto. Ma non mostrano di avere progetti alternativi:
distruggere e basta.. Quando lo sciocco si auto incensa con superba
seriosità è un fatto, ma quando lo sciocco riesce a istupidire le masse
e a farsi incensare per decenni, la situazione diventa drammatica sia
per gli sciocchi "guidatori" che per gli sciocchi "guidati". Dostoevskij
invitava a porre la domanda a se stessi:
non sono forse io lo sciocco?
Noi ce la siamo posta questa domanda e ci
siamo anche data una risposta: sì, siamo anche noi stupidi, perché fino
ad oggi non ci siamo impegnati abbastanza sulla strada della conoscenza,
perché poco o nulla abbiamo fatto per far riaffermare l'ordinario
vecchio buon senso, perché non abbiamo combattuto con tutte le forze
l'idiozia in noi e negli altri, perché non siamo riusciti ancora a far
toccare con mano ai distruttori di tutto i gravissimi danni derivanti
dalla mancanza di progettualità. Noi abitiamo in una nazione, l'Italia,
in cui da oltre sessanta anni è in atto una sorta di guerra civile:
mezza nazione considera idiota l'altra metà, ele due fazioni non
riescono a rendersi conto di stare recitando la puerile e assurda guerra
infinita dell'uovo
dei
Viaggi di
Gulliver: due imperatori si combattono
perché uno asserisce che l'uovo debba essere rotto dalla parte larga e
l'altro asserisce debba essere rotto dall parte stretta. La graffiante
satira dello
Swift di questo romanzo può ancora oggi
graffiare come allora: i nostri governanti, anziché pacificare aizzano,
alimentano il giochino dell'uovo, riuscendo a "idiotizzare" intere
masse, che una volta convinte del giusto punto di rottura dell'uovo
vedono nei loro suggeritori-imperatori degli illuminati, e li eleggono
alla maniera degli Yahu dello stesso romanzo: "Nella
maggior parte delle mandrie c'era una specie di Yahu capo… Questo capo
ha di solito un favorito che gli somiglia il più possibile… Di solito il
favorito dura in carica finché non ne viene scovato uno peggiore di lui:
nel momento stesso in cui è licenziato, tutti gli Yahu del distretto,
giovani e vecchi, maschi e femmine, con alla testa il suo successore,
arrivano in massa e lo ricoprono dei loro escrementi
dal capo ai piedi"
(I
Viaggi di Gulliver - ediz. 1987 Bur, pag. 467 ). Mettiamo la parola
"idiozie" al posto di "escrementi" ed abbiamo un fedele quadro della
situazione.
Purtroppo oggi la satira è usata anche dai nostri odierni Yahu, che,
forti dei poteri che detengono e dei mezzi di divulgazione, riescono a
mettere subito in cattiva luce il buon senso degli odierni pochi
Jonathan Swift, e nel triste panorama di distruzione, gli escrementi (le
idiozie) salgono. La sciocchezza impera. L'idiozia comanda e si allevano
Yahu in casa: "Il
palazzo di un primo ministro è un seminario per tirar su altri nello
stesso mestiere: paggi, lacché, portieri, imitando il loro padrone,
diventano ministri di Stato ciascuno nella propria giurisdizione e
imparano a eccellere nelle tre doti fondamentali, l'insolenza, la
menzogna e la corruzione"
(Op. cit. pag. 456). Swift sta ovviamente parlando
della sua patria, e se noi lo riportiamo non è certo per parlare della
nostra, dove, per fortuna, siamo rimasti al problema dell'uovo…e dove
operano fior di cervelli bacati dal tarlo della saggezza, rosi dalla
febbre della ricerca, fusi nel fuoco della passione per la vera verità.
Uscendo dal mondo di Gulliver e tornando coi piedi per terra, è come se
delle due gambe della nazione, una gamba volesse eliminare l'altra!
Caro Dostoevskij, qui nessuno di questi nostri illuminati fari pare si
sia mai posto quella domanda, se no mai e poi mai sarebbero potuti
passare sessanta lunghi anni di assurda fredda e strisciante guerra
civile che non ha solo reso più virulenti l'odio, la rabbia, la
crudeltà, la malizia, l'ambizione, la faziosità, ha anche alimentato
l'ipocrisia, la follia, la perfidia, l'invidia e mille altri vizi.
Quando Gulliver elencò tutti i difetti dei suoi conterranei attraverso
la narrazione degli ultimi cento anni della storia del suo paese al re
di Brobdingnag, qquesti fu costretto a concludere che la massa dei
compatrioti di Gulliver era
"la
più perniciosa e abominevole razza di insettaglia cui la natura abbia
permesso di strisciare sulla faccia della terra"
(Pag. 242 op.cit.).
Oggi, noi occidentali possiamo considerarci tutti figli di una stessa
nazione, ma se lasciamo che l'idiozia imperversi ancora distruggendo gli
ultimi residui di buon senso, questi nostri capitani ci ricorderanno
molto da vicino gli accademici di Lagado (siamo sempre nei
Viaggi di Gulliver), dove qualcuno
cerca di estrarre raggi solari dai cetrioli, qualcun altro studia il
modo di far tornare cibo gli escrementi, c'è chi è intento a ridurre il
ghiaccio in polvere da sparo, chi propone di fabbricare le case
cominciando dal tetto, chi propone di sostituire i bachi da seta con i
ragni, chi propone invece di scrivere libri di filosofia, politica,
diritto, matematica, teologia e poesia tramite una macchina che compone
frasi a casaccio, per non parlar di chi propone di ridurre le parole a
monosillabi ed eliminare verbi e participi; chi suggerisce di abolire le
parole e di parlare esibendo le cose di cui si voglia discutere. Quanto
ai politici si propone, in caso di discordia fra fazioni, di prendere un
centinaio di faziosi di ogni partito, segare a metà le loro teste, e poi
far combaciare la metà di chi la pensa bianca con la metà di chi la
pensa nera. Relativamente alla tassazione viene proposto di: tassare il
vizio e la follia; oppure lo spirito, il valore e la cortesia; la
bellezza e l'eleganza delle donne; quanto a castità, buon senso e buon
carattere, si
sconsiglia
assolutamente la tassazione.
Insomma le cose più strane e assurde: le comiche.
Sempre nell'introduzione Dostoevskij
dice una cosa
importante: "Di
che parlerò? Di tutto ciò che mi colpirà e mi farà riflettere",
e ne dà subito prova nell'articolo " Gente
d'altri tempi". Parla di Belinskij, un suo amico appassionato
socialista, che credeva nelle basi morali del socialismo, ma che allo
stesso tempo voleva abbattere il cristianesimo perché la rivoluzione
esigeva l'ateismo: "Noi siamo anzitutto
un'associazione ateistica"
dichiarava
l'Internazionale. Il nostro scrittore sottolinea come, nonostante il
grande entusiasmo di questo suo amico e di tanti altri, "rimaneva
la luminosa personalità di Cristo, contro la quale era più difficile che
mai lottare". Dostoevskij
stava mettendo il dito nella piaga appena
apertasi: il tentativo di distruggere le radici cristiane dell'Europa.
Sappiamo tutti come è andata a finire da quelle parti: l'ortodossia è
ancora più viva che mai, mentre quella ideologia che voleva sostituirsi
al cristianesimo è miseramente fallita. Fedor sapeva benissimo che senza
basi morali si crea prima il caos e poi la fine di qualunque
associazione. La disciplina dell'anima e del corpo è essenziale,
basilare per una civile e corretta convivenza, ed il nichilismo porta
solo una cultura di morte.
Come si vede, sono questi temi di scottante attualità, e fanno ancora
riflettere. Nell'articolo successivo
("L'ambiente") Dostoevskij
va più a fondo nell'indagine. Se non ha più
basi morali, un popolo non è più in grado di distinguere il bene dal
male: "giungeremo
a poco a poco alla conclusione che i delitti non esistono affatto,
e di tutto
ha colpa l'ambiente.
Giungeremo, seguendo il filo del ragionamento, a considerare il delitto
persino come un dovere, come una nobile protesta contro
l'ambiente…
insomma …la
dottrina dell'ambiente porta l'uomo a una piena spersonalizzazione, al
suo pieno affrancamento da ogni dovere morale personale, da ogni
indipendenza,
lo porta alla più schifosa schiavitù
immaginabile"
(pagg. 19, 20 op. cit.). Quindi esiste solo questa "infame
organizzazione dell'ambiente, e i delitti non esistono affatto",
e in tanto si spegne la fiducia nella legge.
Diteci voi se non sembra uno dei pochi articoli pieni di buon senso di
qualche raro giornale di oggi. Dostoevskij
è stato
lungimirante, ha capito subito come sarebbe andata a finire per quella
strada. Oggi ci troviamo di fronte ad un buonismo che nulla ha a che
vedere con i dettami evangelici e con una giusta legge. Il cristianesimo
riconosce sì la pressione dell'ambiente, fa osservare il nostro, ma
l'uomo ha il dovere di lottare contro di essa: "pone
un limite dove finisce l'ambiente e comincia il dovere".
E qui il nostro
scrittore, da vero educatore delle masse, con sottile acume psicologico,
dichiara che, quando considera sventurato un delinquente, il popolo sa
benissimo che l'ambiente dipende da lui, dal suo "ininterrotto pentimento ed autoperfezionamento".
In questo articolo Dostoevskij, spingendosi ancora oltre un'analisi
sociologico-giuridica, arriva ad anticipare i concetti freudiani e
Junghiani di
Inconscio e di
Inconscio collettivo.
Ma non potendo riportare tutta l' intera ottima
traduzione di Ettore Lo Gatto, invitiamo il lettore a verificare (pag.
21 e pag. 51). Ma L'analisi acutissima
non finisce qui. Fedor accusa apertamente
gli avvocati di eccessivo buonismo e li esorta: "Smettetela
di agitarvi, signori avvocati, col vostro
ambiente"
.
Da buon russo Dostoevskij
la cristianità la sente fin dentro le ossa
e non perderà mai occasione di ribadirlo. Per esempio in Vlas (un
articolo che porta il nome di un personaggio di poesia) scrive: "Si dice che il popolo russo conosca male il
Vangelo, non conosca i precetti fondamentali della fede. Certo, è così,
ma esso conosce Cristo e Lo porta nel cuore da tempo immemorabile… forse
l'unico amore del popolo russo
è Cristo"
(pag. 52 op. cit.).
Come dicevamo all'inizio, di tanto in tanto nel
Diario
appare un racconto. Il primo (molto divertente) è
Bobòk.
Si tratta di una strana avventura
occorsa in un cimitero a Ivàn Ivànovic: dapprima sente delle voci
indistinte (Bobòk, appunto) e poi piano piano sarà testimone uditivo di
una lunga conversazione fra spiriti di defunti. Uno sternuto di Ivàn
porrà fine ad essa. Riporteremo solo alcune parole pronunciate dallo
stesso qualche attimo prima che cominci a raccontare la sua avventura
cimiteriale: "Il
più savio di tutti, secondo me, è quello che almeno una volta al mese si
dà dello stupido da sé; capacità che ora è inaudita! Prima, al massimo,
lo stupido almeno una volta all'anno sapeva di essere stupido; mentre
adesso mai, non c'è pericolo. E hanno
imbrogliate le cose a tal punto, che non si distingue più uno stupido da
un savio… Non è chiudendo un altro in
un manicomio che si dimostra la propria saviezza"
(Op. cit. pag. 60 - la sottolineatura è nostra).
Incredibile come molte cose scritte da tale anomalo giornalista siano
così attuali. Oggi distinguere uno stupido da un saggio è impossibile,
perché le poche persone dotate ancora di buon senso
si sono tutte nascoste per non esseere derise: il
buon senso è diventato sinonimo di follia o quanto meno di stupidità. E
non staremo a far paralleli con Gulliver e i suoi strani incontri a base
di cavalli intelligenti, perché manca ormai poco al dover constatare che
gli unici esseri intelligenti sulla faccia di questa terra potrebbero
essere gli animali. Non occorre proprio servirci di Swift: basta
guardarsi intorno, leggere giornali e libri, guardare la tv, andare al
cinema o al teatro, ascoltare una canzone, assistere alle pietose
esibizioni di molti dei nostri cosiddetti comici, leggere qualche libro
di filosofia (!) di qualche filosofo (?) contemporaneo, sentir parlare
un politico, ecc.
Dicevamo come spesso Dostoevskij
risponda volentieri ai lettori. A volte gli
succede di vivisezionare l'anima loro attraverso le lettere che scrivono
al suo giornale. In "una mezza lettera di un tale", per esempio, con
genialità dà modo a Freud (ancora una volta) di "scoprire" con molta
meno fatica il processo di "proiezione".
Un tizio parla del suo rivale letterato
(D.), lo ingiuria ed è convinto che l'ingiuriato arrivato a casa correrà
per la stanza come un pazzo, si strapperà i capelli, inveirà contro la
moglie e caccierà i suoi figli. Al che Dostoevskij risponde che sarà
proprio lui a fare tutte le cose che immagina faccia l'altro. E
concluderà: "…Ti
scopri da te stesso" (vedi pag. 94
op. cit.).Lo stesso trattamento riserva ad
un sacerdote che in un giornale (Il Mondo russo) lo
ingiuria. "Sappiate, padre, che sebbene doveste conoscere un
poco il cuore umano, se non altro per la dignità che rivestite, non lo
conoscete per nulla", dirà, e andando
poi più sullo specifico (cioè sull'arte
di un romanziere fortemente criticata da
tale sac. Kastorskij)
lo paragonerà a quel calzolaio che mentre
osservava un quadro indicò all'artista dapprima un errore nei calzari
che subito fu corretto, e poi un errore nel viso e nel seno di una
donna, ma l'artista lo interruppe deciso:
"non
giudicare, amico, più su della scarpa!"; aggiungendo: "Voi, padre, siete
come quel calzolaio, con la sola differenza che neppure nei calzari
avete saputo indicare delle indicazioni…
Qui, vedete, per capire qualcosa dell'anima
umana e 'giudicare più su della scarpa', ci vorrebbe un po' più di
sviluppo intellettuale in un altro senso, un po' meno di quel cinismo,
di quello 'spirituale' materialismo; un po' meno di quel disprezzo per
le persone… un po' più di fede, di speranza, d'amore! Guardate, per
esempio, con che volgare cinismo trattate me, con che sconvenienza,
disdicevole alla dignità che rivestite… Vergogna, sig. Kastorskij… non
siete altro che un mascherato".
Ovviamente l'articolo portava il titolo
La Maschera.
Abbiamo riportato
questi due ultimi brani per sottolineare come la maggior parte delle
persone porti una maschera, e come ciò dipenda dalla mancata conoscenza
di se stessi e quindi degli altri. Siamo sempre alla pagliuzza e alla
trave evangeliche. Noi, per esempio, spesso mettiamo in evidenza la
trave nell'occhio di molti nichilisti, ma non vediamo certo nichilisti
dappertutto, anche se il nichilismo sta dilagando. Quando dedicando un
saggio al grande Leopardi lo accusiamo di nichilismo, esprimiamo allo
stesso tempo il più grande rispetto e la più grande ammirazione per il
pensatore e il poeta. Il giuoco della pagliuzza e della trave diventa
serio quando la critica trabocca di disprezzo, di cinismo, di odio,
invidia, ecc. Ed ecco che ancora una volta occorre usare buon senso,
moderazione, compassione, rispetto per le persone, gli animali e le
cose. Se agiamo sotto la spinta di ira, invidia, accidia, superbia ecc.,
ci comportiamo come mascherati, come il prete di cui sopra. Chi non sa
quello che dice e quello che fa è come una foglia secca al vento: vola
di qua e di là senza poter avere una volontà diretta, uno scopo, un
progetto. Va dove il vento vuole. Ma tutti sappiamo bene quanto
difficile sia sconfiggere i propri vizi. Soprattutto quando la mentalità
collettiva comincia ad essere buonista e permissiva fino all'eccesso. In
quel caso si diventa indulgenti con se stessi e con gli altri, ed ancora
una volta non si riesce più a distinguere il bene dal male. Ed ecco che
torniamo alla indispensabilità delle basi morali di una società: se esse
mancano, il male impazza ed i vizi indossanno la maschera delle virtù.
Le leggi, le consuetudini, le tradizioni sono indispensabili, perché il
rispetto di esse facilita il controllo su se stessi.
Dostoevskij,
nell'articolo
Sogni e fantasie,
sottolineando come con il
denaro non si può comprare tutto, e come con i soldi si può sì costruire
una scuola, ma non si può improvvisare un maestro, perché esso è
prodotto di un lungo processo, sigilla il suo discorso con una frase che
vorremmo incorniciare:
Gli
uomini non sono altro che il prodotto dei secoli
Non possono essere comprati
in nessun mercato. Per costruire l'uomo civile di oggi il tempo ha
impiegato secoli, anzi millenni. Ciò che il pensiero umano ha ideato di
buono, giusto, bello, saggio, santo affinché venisse assimilato dalle
masse ha richiesto un gran lavoro di indirizzo e persuasione. Ma
nonostante ci sia voluto tanto per edificare, per distruggere occorre un
attimo. Quindi smascheriamoci tutti, ed agiamo per il bene. La nostra
civiltà è il prodotto di secoli, deve essere migliorata sempre, ma non
distrutta con rivoluzioni permanenti: se eliminiamo gli aratri e i
trattori perché sono vecchi e non inventiamo qualche altro modo di arare
la terra moriremo tutti di fame.
Spesso Dostoevskij
si occupa di politica e lo fa pure con
passione.
In
Una delle falsità contemporanee,
un articolo che parte da certe critiche sollevate ai contenuti del suo
romanzo I Demoni, sfiora
il problema della gioventù, la quale, a suo parere, non è
definitivamente formata dalle sole conoscenze, dagli studi, da
nozioncine scolastiche. L'anima del giovane, ottenendo la laurea non
acquista l'incrollabile talismano per conoscere, una volta per sempre,
la verità ed evitare le tentazioni, le passioni e i vizi. La cosa più
importante, dice il nostro "giornalista", è dunque
indirizzare
questa gioventù.
Allora, come oggi, il problema è
attualissimo. Dare un indirizzo certo ai giovani è
problema di ogni generazione. Guarda caso,
attorno al 1870, in Russia accadeva ciò che ai nostri tempi succede
regolarmente: l'unico indirizzo che viene dato ai giovani è quello di
distruggere il vecchio anche prima che il nuovo nasca (ne parlavamo poco
sopra). Ecco cosa scrive Dostoevskij, partendo da un'analisi del 1848: "…
Nulla è ancora stabilito intorno a quello che ci
sarà di mutato
nella società futura, ma è stabilito
soltanto che quella presente
(la società
presente)
deve crollare; e per ora la formula del socialismo
politico è tutta qui" (pag. 198, op.
cit.). Tutto questo veniva ottenuto, fa capire lo scrittore, diffondendo
in mezzo ad affamati operai privi di ogni cosa un profondo disgusto per
la proprietà ereditaria, ed un'impazienza per future beatitudini cantate
da teorie politiche. E aggiunge che "…
da tutto ciò derivò più tardi il socialismo politico, la cui essenza,
nonostante tutti gli scopi annunciati, consiste per ora soltanto nel
desiderio di un saccheggio generale di tutti i proprietari da parte
delle classi povere, e poi sarà quel che
sarà"
(Id.) Dostoevskij ammette che queste idee, negli anni quaranta
contagiarono pure lui: "s'impadronivano
dei nostri cuori"
queste idee di fraternità universale.
A noi non importa l'aspetto politico della vicenda, ma solo il discorsdo
degli indirizzi da dare alla gioventù. Che un nascente movimento
politico fosse all'inizio caratterizzato da incertezze, confusione ecc.,
è normale. Quello che ci colpisce è ancora una volta l'analisi puntuale
fatta da Dostoevskij
sulla società del
suo tempo, relativamente a tale importante problema. Sentite un po' cosa
dice in proposito: "I giovani delle nostre categorie intellettuali -
sono educati nelle loro famiglie, in cui… la vera cultura è sostituita
da un'impudente negazione che riecheggia motivi altrui; dove gli impulsi
materiali predominano su ogni idea elevata; dove i figli vengono educati
senza basi all'infuori della verità naturale… ecco dov'è il principio
del male: nella trasmissione delle idee…",
cioè
negli indirizzi. Dopo di che passa a sottolineare come i Darwin, i Mill,
gli Strauss (che "predicano in Europa, ma che vengono seguiti
passivamente in Russia) "hanno
talvolta un modo molto curioso di considerare i doveri morali dell'uomo
moderno".
E
qui si lascia andare ad una sorta di profezia, che noi riteniamo
puntualmente confermata dai fatti del nostro tempo: "A me sembra fuor di dubbio che, se lasciaste a
tutti questi alti maestri contemporanei la piena possibilità di
distruggere la vecchia società e ricostruirla a nuovo, ne verrebbe fuori
una tale tenebra, un tale caos, qualcosa di talmente volgare, cieco e
inumano, che tutto l'edificio crollerebbe sotto le maledizioni
dell'umanità prima di essere compiuto".
Abbiamo voluto evidenziarlo, questo brano, perché
fotograva l'attuale nostra società: tenebra, caos, volgarità, cecità,
inumanità, e chi più ne ha più ne metta. Ma le tenebre ed il caos non
piovono dal cielo come vorrebbe far credere un giornalista del nostro
tempo, che, concludendo un articolo su Charles Baudelaire (1821-1867,
quindi contemporaneo di Dostoevskij), scrive: "Ha immaginato un mondo
che oggi esiste e l'ha descritto con una precisione sconcertante". No,
signori; tenebre, caos, volgarità, trasgressione ad oltranza, cecità e
stupidità, funzionano come la peste: uno ne è portatore e piano piano
contagia gli altri. Stiamo parlando di quegli
indirizzi
cui si riferiva il nostro scrittore. I Baudelaire sono stati solo dei
cattivi maestri, che appestando migliaia di giovani hanno contribuito a
far sì che il mondo divenisse quello che è. Non è possibile fare di un
falso maestro un profeta: il poeta maledetto non ha previsto un bel
niente. Quando un verme penetra nella mela non prevede il marcio che
colpirà il bel frutto: lo farà semplicemente marcire. Uno che scrive:
"Poeti illustri si erano spartite da un pezzo le province più floride
della poesia. Mi è parso piacevole, e ancora più gradevole per la
difficoltà dell'impresa, di estrarre la
bellezza
dal male" - uno che parla così, o è un
grande alchimista oppure è un adorastore del male, ovvero un vizioso. Se
il punto di partenza è la colonizzazione dell'unica provincia ancora non
conquistata dai poeti, beh, il tutto non può che risolversi in una
volontaria o meno apologia del male. Quando Baudelaire in
Mon coeur mis à nu
dice che nell'uomo vi sono due tendenze simultanee (deux postulations),
l'una verso Dio e l'altra verso satana, e precisa che
l'invocation à Dieu, ou spiritualité, est un
désir
de monter en grade; celle de satan, ou animalité, est une joie de
descendre (I Fiori
del male - introduzione, pag. 9 - ed. Newton), dichiara anche, e
piuttosto apertamente, da che parte sta: quel
joie è
tutto un programma. Verso Dio, un desiderio; verso satana, una gioia…Sì,
Baudelaire parla sia del male che di estasi, ma tutto sta a vedere se
queste estasi sono prodotte da vizi o da virtù; da droghe o preghiere e
meditazioni. Qualunque cosa dia piacere tende a oltrepassare ogni limite
pur di provarlo, e se per mieterlo occorre fare anche del male, ogni
sforzo per non provare quei piaceri derivanti dallo stesso male diventa
vano: la forza di quella… gioia (?) è invincibile. Come può un anima
cibarsi di "sfumature morbidamente ricche della putredine, di rose
tisiche, di gialli di fiele, di grigi plumbei di brume pestilenziali, di
verdi velenosi, di tutta quella gamma di colori esasperati, che
corrispondono… all'ora estrema delle civiltà"? Come può un'anima cibarsi
del "compiacimento negativo dell'orribile,
della depravazione" (Gautier)?
Come può l'anima provare voluttà facendo il
male con dolo, cioè sapendo di fare del male? No, questo cattivo maestro
non è un vero alchimista, ed ha ragione Massimo Colesanti quando,
smettendo di elogiare il poeta francese, nell'introduzione del testo
appena citato, afferma che quella di Baudelaire "è un'alchimia alla
rovescia, in cui si muta l'oro in ferro". E qui nasce tanta tristezza,
perché tale aberrante alchimia è il gioco preferito dei cattivi maestri
odierni, dei nichilisti per passione, dei distruttori d'ogni bellezza;
degli imbrattatori del buon senso. La preoccupazione di Dostoevskij
di vedere i giovani traviati da cattivi
indirizzi dei falsi maestri è fondata. Certo, il male alberga insieme
con il bene in ognuno di noi, ma questo non ci autorizza a sposarlo: il
male fa male a chi lo sposa e agli altri. Un conto è commettere un
"errore", un conto è vivere di errori.
Purtroppo,
constaterà il grande romanziere russo,
"Ci
sono nella vita degli uomini dei momenti storici, in cui una
scelleratezza evidente, sfacciata, volgarissima può venir considerata
nient'altro che grandezza d'animo, nient'altro che nobile coraggio
dell'umanità che si libera dalle catene" (Op.cit.
pag. 201). Ancora una volta sembra fotografare la società in cui oggi
viviamo: il marcio è diventato bello in ogni campo, dalla pittura, alla
scultura, dalla tv, al cinema, dalla moda alla politica, dallo sport a
tutto il resto. E la cosa triste è che tali scellerati non si limitano a
"scellerare", invitano la gioventù ad emularli, inculcando l'idea che
progressismo è sinonimo di scelleratezza. E' così che nasce quello che
in un altro articolo del Gennaio 1886 Dostoevskij
chiama il
prurito moderno della
depravazione.
Come vediamo, lo sguardo del nostro romanziere si
spinge lontano. D'altro lato non occorre essere dei geni per capire come
va a finire una situazione partendo dal presente. Il semplice buon senso
è sufficiente. Per esempio, egli nota come tutta la pedagogia del tempo
si preoccupasse continuamente di facilitare lo sforzo di crescita
intellettuale ed emotiva ai fanciulli. Ed ecco che fa una giustissima
considerazione: "Facilità
non è sempre sviluppo, qualche volta anzi significa regresso. Due o tre
idee, due o tre impressioni più profondamente vissute nell'infanzia, con
uno sforzo proprio (e, se volete, con propria sofferenza) avvieranno il
fanciullo nella vita più profondamente che non la scuola più organizzata
nel facilitare le cose, dove nulla è preciso, né bene né male, dove
perfino il vizio non è vizioso e le virtù non sono virtuose"
(Pag. 217 op. cit.).
Che i nostri giovani oggi godano di facilitazioni esagerate non è un
mistero.
Lasceremo pertanto ai lettori il compito di
verificare l'attualità dei contenuti del
suddetto corsivo nella società moderna.
Nell'articolo di Gennaio III, il nostro atipico giornalista continua ad
occuparsi di temi che fanno riflettere. Prende in esame la tecnica, e
supponendo che all'improvviso tutte le conoscenze piovano sull'umanità,
si chiede cosa succederebbe agli uomini, e si risponde che: si
sentirebbero felici, coperti di beni di ogni genere, "camminerebbero in
aria o volerebbero",
percorrerebbero distanze straordinarie
dieci volte più velocemente che con la ferriovia, avrebbero raccolti
favolosi in agricoltura, "potrebbero creare con la chimica gli
organismi", insomma l'uomo diventerebbe bello e giusto e tutti si
occuperebbero di idee superiori. Ma aggiunge amaramente che "è
improbabile che simili entusiasmi possano durare anche una sola
generazione".
Gli uomini si
accorgerebbero di non avere più libertà di spirito, volontà e
personalità, che gli sarebbero state rubate tutte insieme. Per farla
breve, l'uomo diventerebbe consapevolmente
bestia.
L'uomo capirebbe che "un
pensiero che non fatica non può non spegnersi"
e che per amare il prossimo occorre sacrificargli il lavoro proprio. Poi
subentrerà la noia e la malinconia, i suicidi si moltiplicheranno, ed
infine inventeranno qualche nuova arma di sterminio di massa e la
faranno finita, "perché
la discordia riduce gli uomini all'insensatezza, all'oscuramento e al
pervertimento della mente e dei sentimenti"
(Pag. 254/5 op. cit.). Come è possibile constatare
Dostoevskij
ha previsto con
largo anticipo la generazione della
noia, del
disprezzo,
del
disgusto,
in una parola la generazione delle "pesone
dall'odio duraturo" contro la vita. E naturalmente il bastone del
comando sarà tenuto da persone che commettono mascalzonate ed elevano a
principio la propria mascalzonata "assicurando che in essa è l'ordre
e la luce della civiltà" finendo per
credere a
quello
che pensano e fanno.
La tecnica oggi è stata elevata dai nostri pensatori alla dignità
dell'altare. E' il novello Dio che tutto prevede, ordina, risolve. Largo
alle macchine e abbasso l'uomo, il moderno schiavo della Tecné. E'
incredibile: la macchina, che è un'invenzione umana, viene costruita in
modo tale che l'uomo ne diventi succube. Quando ogni giorno vediamo per
strada migliaia di persone che non fanno altro che inviare messaggini
telefonici a destra e a manca (è solo un
esempio) possiamo toccare con mano l'idiozia
umana. Chi ha inventato quell'apparecchio lo reclamizza come conduttore
di felicità; chi ne abusa secondo i cattivi indirizzi di gente
interessata economicamente non fa altro che abdicare al proprio buon
senso che si limiterebbe a fare di esso il giusto uso in caso di
necessità. Quanto tempo rubato alla riflessione, alla vera filosofia,
alla meditazione, alla vera ricerca di se stessi! Ci hanno rubato il
cervello ed il cuore e siamo diventati delle misere macchine; abbiamo
mortificato la ragione per il divertimento ad oltranza. Quando Prometeo
sfidò l'ira dell'Olimpo per portare con il fuoco la scienza all'uomo,
voleva solo renderlo meno schiavo, meno animale; voleva che mettesse in
moto la ragione per scoprire le verità della natura e di se stesso.
Quella trasgressione non era dettata da un capriccio, ma da compassione
per il genere umano: era un ponte lanciato fra la metafisica e la
fisica. Non prevedeva certo che l'invenzione della scrittura e della
penna o del computer avrebbe favorito una valanga di libri che, invece
delle verità scoperte o in corso di svelamento, che invece di narrare
del bello, del buono e del giusto vincitori sempre sul brutto, sul
cattivo e sull'ingiusto (attenzione: quando diciamo bello, buono e
giusto, parliamo di interiorità e non di mere apparenze), cantano le
qualità della noia, del disprezzo, del disgusto, del marcio, del vizio
in genere. Per non parlare della scienza suicida e di altro ancora. Non
possiamo occuparci della tecnica, perché l'argomento ci porterebbe
troppo lontano. Torniamo quindi al nostro tema.
Nell'articolo di Febbraio I lo scrittore anticipa quello che culminerà
in Proust nel
recupero del
passato, e cioè il tuffo involontario nel passato partendo da un
particolare insignificante (vedere pag. 274 op. cit.). Ma a differenza
dello scrittore francese, non fa di tale recupero lo scopo della
recherche
di tutta una vita. Troppo forte è il cristianesimo nell'animo di ogni
russo, perché i principi evangelici sono stati applicati per secoli da
quel popolo di altruisti. L'amore per il passato è solo una scheggia
d'amore, un fiume che come un salmone risale alla sorgente, mentre
l'amore per tutto è un oceano di coscienza in espansione che tutto
abbraccia e vivifica.
Spesso Dostoevskij
si occupa di
processi, di giudici e di avvocati allorché commenta fatti di cronaca
che finiscono in tribunale. In
A proposito
del processo Kroneberg parla del caso
di una
bambina di sette anni che viene frustata
dal
padre che verrà assolto in tribunale. Tale
assoluzione indigna lo scrittore, che mettendo a nudo tutte le fasi del
processo ne svela le bugie e le storture. Se la prende con tale padre
non certo affettuoso, con i giurati, con l'avvocato, col giudice. Gli
avvocati sono bricconi sempre pieni di risorse, padroni di sé, e
soprattutto si arricchiscono sempre. Una tortura come quella del padre
che frusta una innocente bambina, riescono a farla diventare punizione,
e la stessa bambina, che è un angioletto, riescono a farla passare per
bugiarda, sudiciona, scaltra, astuta, ecc.
Con una analisi psicologica da manuale,
Dostoevskij
è in grado di smascherare il trucco con cui
l'avvocato altera la realtà. Nella fattispecie l'avvocato Spasowicz
riusce a smontare ogni traccia di compassione che il giurato ha per la
bambina, agisce sulla psiche di esso
riuscendo persino a far passare per ladra
una piccola che prende una prugna senza permesso. Quanto poi a
convincere la stessa bambina che per tale prugna non autorizzata
è una ladra, è un gioco da ragazzi. E le
povere vicine di casa, le testimoni che accusano di violenza il padre,
vengono accusate di essere delle cattrive maestre per la piccola. Infine
si fanno passare per macchie subcutanee di colore paonazzo le
lacerazioni della pelle della bambina causate dalle frustate e la causa
viene vinta dal padre, da un padre violento che va solo condannato per
la sua crudeltà.
Ed ecco che
rivolgendosi a questo abile e briccone d'avvocato, Dostoevskij , dopo
aver ammesso che un padre deve educare i propri figli e quindi ha il
potere
di infliggere punizioni corporali (siamo nel 1876), non può oltrepassare
certi limiti: "Sul
serio voi non sapete quale sia il limite di questo potere …? Se non lo
sapete, ve lo dirò io…Il limite di questo potere sta nel fatto che non
si può fustigare una piccola di sette anni, pienamente irresponsabile di
tutti i propri vizi…Non si può fustigarla per un quarto d'ora intero,
senza dar retta alle sue grida…Non si può infine dire di aver fustigato
a lungo fuori di sé, incoscientemente, come capitava,
perché non si può essere fuori di sé,
perché c'è un limite ad ogni collera…"
(Op. cit. pag. 303). I bambini sono, aggiungerà,
pietosamente
indifesi, e
la famiglia
si crea con l'instancabile opera dell'amore.
Una società che smetterà di avere compassione dei deboli e degli
oppressi si indurirà, si inaridirà e diventerà dissoluta e sterile. Poi
concluderà il bellissimo articolo osservando che la professione
dell'avvocato è sì una brillante istituzione, ma è anche triste, e che
lui non ce l'ha con tali professionisti: "Io sono un incorregibile idealista; io cerco le
cose sacre e le amo, il mio cuore ne è assetato, perché sono fatto in
modo che non posso vivere senza cose sacre"
(pag. 311 op. cit.).
Ieri sera (Martedì 25 Settembre 2007) proponevano su una rete televisiva
quell'orribile film di Kubrick che porta il titolo di "Arancia
meccanica" da noi visto negli anni settanta e di cui conserviamo ancora
il disgusto. Non avevamo alcunissima intenzione di rivederlo, ma per
caso ci siamo imbattuti sulla presentazione dello stesso. Tutti ad
osannare il maestro (oggi si dà il titolo di maestro anche a gente che
dovrebbe essere ricoverata in manicomio) e a sottolineare la bontà (!)
del film. Qualcuno, che aveva l'aria di strizzacervelli, addirittura
proponeva di mostrarlo ai bambini delle elementari: così avrebbero preso
coscienza che esiste negli uomini un lato ombroso. Ora, dopo avere
ricordato per l'nnesima volta che la psicoanalisi
di Freud e di tutti i suoi seguaci non è
una disciplina
scientifica e che pertanto le sue teorie sono solo
congetture non provate da alcun metodo sperimentale, sappiamo tutti che
il male alberga in noi, ma non per questo, dopo averne constatata la
presenza prendiamo tale spazzatura e la sbattiamo in faccia al mondo
intero. Ne prendiamo coscienza e apriamo una valvola di sfogo che possa
far defluire tutta l'energia negativa accumulata. Proporre di far vedere
a bambini di sei-dieci anni un film del genere ci sembra proprio da
irresponsabili. Dopo questo film che proporremo a questi piccoli, di
commettere atti di violenza sui loro compagnetti per prendere immediata
conoscenza di questo lato oscuro? E allora spalanchiamo le porte delle
carceri e lasciamo che stupratori, assassini, ladri, spacciatori, e
crema discorrendo, insegnino ai nostri figli per le strade delle nostre
città a prendere coscienza del male che alberga all'interno dell'uomo:
la via diretta. Quale sublime alchimia, quale metodo pedagogico!
Pur di fare ascolti e passare sempre più pubblicità commerciale oramai,
nelle tv private e pubbliche si è disposti a tutto. La spazzatura ci sta
sommergendo, ma non colpisce solo al naso, tocca anche e soprattutto il
cervello. Spazzatura sottile questa, pattume di prima qualità perché
sparso da gente col medagliere sulla giacca. Un bombardamento
giornaliero di tali cattivi maestri sta ormai convincendo la totalità
delle persone che la mondezza è buona e che gli odori puzzano. E chi
dovrebbe vigilare sull'educazione e l'istruzione dei nostri figli
propone di aumentare la dose minima di droga con cui i giovani possono
suicidarsi lentamente. Hai proprio ragione Fedor:
"Senza
ideali, cioè senza desideri di cose migliori, sia pur soltanto appena
determinati, non può mai aversi una buona realtà"
(pag. 317 op. cit.), ed hai ancora ragione quando affermi che "i più impudenti retrogradi si spinsero talvolta
avanti, come progressisti e guide, ed ebbero successo"
(pag. 355 id.).
E
importa poco che tu ti riferissi ai fanfaroni di certe vostre
rivoluzioni: in tutti i campi, spesso, sono proprio questi cialtroni che
pretendono di fungere da faro per la società. Come è possibile, Fedor,
che simili idioti possano impunemente attentare alle "prime tenere,
sacre credenze infantili"? (sono parole tue). La ciarlataneria, caro
amico, è alla continua caccia dell'effetto e del pulpito. "Le idee
semplici, chiare, generose e sane" non sono più di moda perché non
riescono a mettere sotto i riflettori della cronaca. Per essere in vista
il ciarlatano è disposto a scalare montagne di letame, e poi, da lassù
in cima, con arte sopraffina ti racconterà che ha appena scalato
l'Everest senza bombole d'ossigeno e a torso nudo. Il nichilismo sta
divampando caro Fedor, ed è peggiore di quanto tu abbia potuto
immaginare. Tu vagheggiavi per la tua Russia e per tutti i popoli slavi
delle repubbliche cristiane sul tipo delle repubbliche islamiche, noi
qui, oggi, siamo cittadini di repubbliche nulliane.
Nell'articolo del Novembre 1877 il nostro
giornalista-romanziere (pag. 1141 op. cit.) dà una definizione della
parola "Strjuckie": l'uomo meschino e insignificante, le cui principali
peculiarità sono vuotezza, isulsaggine, mancanza di cervello, mancanza
di base morale. Insomma "Strjuckie" come
nullità
sfacciata. Ci informa anche che
"di tali
uomini c'è abbondanza anche nei circoli intellettuali e nei circoli di
persone di alto rango". Quanti
Strjuckie nella società odierna: cantantucoli che si atteggiano a guru
spalmando serate tv col vuoto assoluto; attoruncoli che declamano versi
di grandissimi poeti del passato
per nascondere la loro nullità; attricette
che si atteggiano a pedagoghe e cospargono di insignificanza le serate
televisive. E via discorrendo. Ma è poi proprio inutile questo nostro
ripetersi, perché
si rischia di emulare Don Chisciotte? Noi
siamo convinti di no. Chissà, magari le nostre piccole battaglie contro
il nichilismo dilagante possono ricordare a chi si degna di leggerci le
gesta del Chisciotte di Cervantes e quindi
spingerlo a
rileggere quel "grande
libro" (così lo definisce Dostoevskij,
aggiungendo che "libri
simili vengono mandati all'umanità a distanza di secoli",
e che "la
conoscenza di questo testo
nelle scuole "innalzerebbe l'anima del
giovane con un grande pensiero, lascerebbe cadere nel suo cuore grandi
problemi e contribuirebbe ad allontanare la sua mente dall'eterno e
stupido idolo della mediocrità, dalla presunzione soddisfatta di sé…"
(pag. 1081, 1082 op. cit.). Una vera apologia di questo romanzo la si
può trovare proprio nell'articolo Settembre II del 1877, ove per parlare
di politica internazionale lo scrittore
si serve proprio del romanzo di Cervantes.
E noi dobbiamo smuovere mari e monti per
parlare dell'ovvio, del buon senso, della virtù innata nell'uomo, per
opporre una piccola diga alla marea di fango nichilista. Dobbiamo
scomodare Dostoevskij, Cervantes, Goethe, Schelling, Spinoza, Jung,
Rousseau, Bach, Omero, Platone, Plotino, e mille altri pensatori, per
dare più peso
e più forza alla nostra azione.
La nostra è un'epoca di transizione e di disgregazione. Il nichilismo è
solo una parentesi ed una moda per intellettuali annoiati e furbi che
con le loro opere oltre al danno ai cervelli dei giovani e dei non più
giovani procurano a loro stessi un sacco di soldi. "Ogni
stato transitorio e di disgregazione della società
genera pigrizia e apatia, perché soltanto
pochissimi, in tali epoche, possono vedere chiaramente davanti a sé e
non perdere la strada. La maggioranza si confonde, perde il filo…"
, dice Dostoevskij in un interessantissimo articolo del Luglio-Agosto I
che ancora una volta anticipa "intuizioni" freudiane parlando della
famiglia e di problemi sociali in genere. In fin dei conti quello che
più ci preme è di far rinverdire il senso critico nei giovani, affinché
possano con un atto di semplice buon senso tornare a distinguere il
bello dal brutto, il buono dal marcio, il bene dal male. La bellezza è
stata uccisa dai nientisti e noi ne auspichiamo il ritorno in ogni
settore della società. I nostri ragazzi devono subire l'innesto del
bello, perché "senza
i germi del positivo e del bello l'uomo non può dall'infanzia entrare
nella vita; senza i germi del positivo e del bello non si può mettere in
moto una generazione"
Sì, Fedor,
quelle religioni col culto del non essere e della
autodistruzione in nome della eterna pace nel nulla
(Pag. 885, id.)
che comparvero ai tempi tuoi, imperversano ancora
e la loro bandiera porta impresso il brutto e il marcio.
Noi dei tuoi scritti non condividiamo tutto, ma ammiriamo i tuoi sforzi
per rendere l'umanità migliore di quello che è. Molti temi da te
trattati nel tuo "giornale" non li abbiamo nemmeno sfiorati: questione
slava, cattolicesimo, radici cristiane dell'Europa, qualche discorso
sulle lettere, ed altro ancora. Questo nostro breve saggio non poteva
andare oltre questa lunghezza.
Pertanto, nel ringraziarti, lo concludiamo.
Grazie, Natale Missale
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