Edipo
Nostra intenzione è di non far "morire" Edipo in un cosiddetto complesso che, pur portando il suo nome, nulla ha a che vedere con lui. Partiremo dalla tragedia sofoclea "Edipo re", attraverseremo Nietzsche che con "La nascita della tragedia dallo spirito della musica" ha fatto luce sulle origine di tale "teatro", e finiremo con Freud, che a nostro parere ha preso un abbaglio attribuendo a tale disgraziato re caratteristiche psichiche che non gli appartenevano. Ma cercheremo soprattutto di scavare nell'opera di Sofocle, al fine di trarre, se possibile, qualche insegnamento dalla sua affascinante e triste "sceneggiatura".
La tragedia greca altro non è che un racconto mitico in versione teatrale. Aristotele, nella Poetica ne traccia lo sviluppo storico. "Or dunque la tragedia fu da principio una rudimentale improvvisazione…Ma poi lentamente si accrebbe, aiutando i poeti a sviluppare tutti que' germi che si venivano man mano rivelando…e dopo che fu passata attraverso molti mutamenti …si arrestò…La tragedia è mimèsi di soggetti eroici" (Aristotele Opere - vol. 10 - Poetica IV, 10 e seguenti, pag. 200, ediz. 1973, Laterza). Il nostro grande filosofo, nella stessa opera, (6) della tragedia dà una celebre definizione: "Tragedia è dunque mimèsi (imitazione) di un'azione seria e compiuta in se stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l'animo da siffatte passioni" (id. pag. 203 - la sottolineatura è nostra). Dunque grazie alla compassione, alla pietà, al terrore, la tragedia produce nello spettatore la purificazione (catarsi) degli stessi sentimenti di terrore e pietà. Aristotele, per linguaggio abbellito intende quello che ha ritmo, armonia e canto. La tragedia, ci informa ancora il filosofo, consta di tre elementi: ordinamento materiale dello spettacolo (persone che si muovono in scena), composizione musicale e linguaggio: "La composizione musicale…degli abbellimenti di una tragedia è il più importante" (id. pag. 207). Rimandiamo alla lettura della Poetica di Aristotele chi volesse approfondire il discorso sulla tragedia proposto da questo grande filosofo. Il lettore rimarrà stupito dalla semplicità e modernità di questo scritto. Ha detto bene Simone Beta nella sua introduzione a Il teatro antico (vol. 3° - Storia del teatro - Einaudi, Il Giornale, pag. X): "…Aristotele non è solo un critico acuto e brillante: è anche un serio studioso". Con Jean-Pierre Vernant vorremmo sottolineare come le tragedie siano opere letterarie di straordinaria potenza, perché focalizzano i problemi della responsabilità dell'uomo e dei suoi valori. Esse non rispondono teoricamente a tali problemi, ma interrogano su essi. Quando nasce la tragedia greca? Essa nasce alla fine del VI secolo a.C., e succede all'epopea e alla poesia lirica, ma col trionfo della filosofia scompare. Quando Aristotele ne parla nella sua Poetica, essa è già finita. Poiché il termine dramma deriva da dran che vuol dire azione, la tragedia, giustamente è stato fatto notare, non è uno spettacolo di evasione dalla realtà, ma al contrario essa, proponendo attori che incarnano le immagini della contemplazione del Coro (uno degli elementi fondamentali del teatro tragico), amplifica la realtà attraverso intrecci mitici, spingendo lo spettatore verso la vita e costringendolo a schierarsi, a scegliere, ad agire in essa (La tragedia è costituita da un mito che si pone come "presa di coscienza di certe opposizioni e tende alla loro progressiva mediazione", diceva C. Lévi-Strauss). Nella sua Nascita della tragedia Nietzsche dice proprio questo: lo spettatore greco non assiste ad uno spettacolo, perché quello che accade sulla scena è uno spettacolo per il Coro. Lo spettatore vede nel Coro lo spettacolo, o meglio nella visione di esso. Comprederemo meglio questo concetto riportando un brano dell'opera nietzschiana citata: "…Niente può essere più sicuro del fatto che il poeta è poeta solo in quanto si veda attorniato da figure che vivono ed agiscono davanti a lui, e di cui egli scruta l'intima essenza… Per il vero poeta la metafora non è una figura retorica, bensì un'immagine sostitutiva che gli si presenta concretamente, in luogo di un concetto" (F. Nietzsche - La nascita della tragedia - Adelphi, pag. 59). Ecco dunque dove risiede la forza della tragedia: il Coro propone personaggi, immagini concrete. Ma perché questo avvenga è necessario che il poeta sia posseduto da un dio, dal dio dell'ebbrezza, da Dioniso. Senza eccitazione dionisiaca, secondo Nietzsche, non può esserci vera poesia, ed in genere vera arte. E siccome egli sta parlando delle prime tragedie greche, aggiunge che questo processo del coro della tragedia è il fenomeno drammatico originario: vedere se stessi trasformati davanti a sé e agire poi come se si fosse davvero entrati in un altro corpo, in un altro carattere. Siamo davanti ad un incantesimo: l'attore inconscio, esaltato da Dioniso, si riscopre satiro e fuori di sé vede una nuova visione. Ma perché tutta questa ebbrezza, questa esaltazione si manifesti, occorre che si scarichi "in un mondo apollineo di immagini". Quindi, ci dice Nietzsche, compito del Coro ditirambico è quello di eccitare dionisiacamente lo spettatore fino al punto che essi, quando l'attore tragico appare sulla scena, non vedano già l'uomo grottescamente mascherato, bensì una figura visionaria partorita per così dire dalla loro stessa estasi (id. pag. 62). *Non per nulla Nietzsche vedeva l'apollineo nell'arte dello scultore, e il dionisiaco nell'arte della musica. Per lui solo nella tragedia greca entrambi possono convivere "per un miracoloso atto metafisico della volontà ellenica". La musica, secondo il nostro filosofo che si rifà a Schopenhauer, ha un'origine diversa rispetto a tutte le altre arti, perché non è immagine di un'apparenza, ma immagine della stessa volontà, ed essa, rispetto ad ogni fisica del mondo, rappresenta la metafisica, e rispetto ad ogni apparenza, la cosa in sé (id. pag. 105, 106). E qui vorremmo riportare ancora un passo della citata opera da noi assolutamente condiviso: "In base a questo intimo rapporto che la musica ha con la vera essenza di tutte le cose, si deve spiegare anche il fatto che, quando per qualche scena, azione, fatto, ambiente, risuona una musica appropriata, quest'ultima sembra schiudercene il senso più recondito, e ne appare come il commento più giusto e chiaro". Non ci dimentichiamo che in quel periodo Nietzsche stravedeva per Schopenhauer e per Wagner, e che molto di quanto dice nella Nascita della tragedia a proposito di musica è suggerito da questi due grandi della filosofia e della musica. Insomma, grazie alla musica, delle cose possiamo cogliere quell'essenza che con la sola ragione non potremmo riuscire nemmeno a sfiorare. Ecco perché Nietzsche aggiunge: "Io deduco l'attitudine della musica a generare il mito" (pag. 110 op. cit.). Ora chiediamoci: perché la tragedia greca ha avuto così breve vita? Perché è morta? A causa del socratismo della morale, della dialettica, della moderazione e della serenità dell'uomo teoretico - risponde Nietzsche. L'estasi, l'entusiasmo, l'ebbrezza del dionisiaco furono spente, dunque, dalla filosofia socratica, che non solo distrusse la tragedia, ma relegò nell'ombra anche la filosofia presocratica. E qui inizia una battaglia che Nietzsche combatterà in tutti i suoi scritti: quella contro Platonismo e Cristianesimo che ad esso attinse molto. Qui noi ci allontaniamo da Nietzsche, non condividiamo le sue idee; quelle stesse idee che, fatte proprie da una schiera di filosofetti miopi o in mala fede, hanno prodotto quel nichilismo che sta cancellando la civiltà occidentale. Apollo e Dioniso devono camminare di pari passo: satirizzare il mondo vuol dire tendere la corda fino alla rottura; vuol dire sempre di più. Quando Dioniso s'impossessa della società per tutti i giorni dell'anno, si crea un tale squilibrio da far precipitare nella confusione la mente di ogni individuo, da annullare ogni più elementare senso critico. In una parola, dove impazza Dioniso, manca la ragione e il buon senso. Quanta differenza fra gli spettacoli tragici che la città greca ogni anno organizzava a sue spese, e le adunate rock che certe amministrazioni comunali, allo scopo di fare politica, mettono su a spese della comunità. Le radici di quelle erano in cielo, nei miti, negli dei, mentre queste poggiano ormai le basi su una realtà (una terra) ormai marcia. La politica qui non c'entra, perché basterebbe solo una piccolissima dose di cervello per capire quanto danno ha provocato sposare a occhi chiusi certe teorie. Quando Nietzsche scriveva "Ma come cambia improvvisamente il deserto or ora così foscamente descritto della nostra stanca cultura, quando lo tocca la magia dionisiaca! Un turbine afferra tutto ciò che è spento, marcio, rotto, appassito, lo avvolge roteando in una rossa nube di polvere e come un avvoltoio lo porta in alto…Sì, amici miei, credete con me alla vita dionisiaca e alla rinacita della tragedia. Il tempo dell'uomo socratico è finito: inghirlandatevi di edera…osate essere uomini tragici: giacché sarete liberati (pag. 136, 137 op.cit.), quando Nietzsche scriveva tutto questo, signori filosofi del nulla ed emuli, avreste dovuto capire che era ubriaco d'un vino cento volte più micidiale della cocaina. Non dovevate cadere nello stesso tranello in cui cadde Freud, allorché, esaltò le proprietà della droga pesante dopo averne provato gli effetti allucinogeni. Quella messa in moto da Nietzsche non poteva e non doveva essere interpretata come una semplice rivoluzione culturale. L'unica liberazione che ha prodotto è quella dalla ragione e dal moderatismo. Quello che doveva essere un carnevale ciclopico celebrato una tantum, è divenuto il gioco più stupido che l'umanità potesse inventarsi: quello dell'autodistruzione. Sì, Vanità, vanità, tutto è vanità, ma Qoelet sta parlando agli ego (compresi quelli dei pensatori che pensano poco e male); ci sta invitando ad alzare lo sguardo (metaforicamente parlando), a non rimanere attaccati alle vanità del mondo, perché oltre all'apparenza c'è la sostanza, la Vita, l'Essere che dà modo ad ogni ente di esistere e rendersi conto di farNe parte. Credete voi che alla seconda navigazione di Platone, con Nietzsche sia subentrata una terza navigazione? Rendetevi conto, signori filosofi, che la nave sta affondando, e che è più onesto parlare di deriva e di imminente naufragio. Non avete occhi per vedere quanto sta sucedendo intorno a voi? Non vi accorgete che nessuna tragedia è risorta? Non vedete come la stessa musica di Wagner che doveva contribuire a tale risurrezione fa ormai parte di un periodo storico giustamente battezzato decadentismo? Senza ragione non si va in nessun luogo. Sì, Dioniso deve avere la sua parte, ma…parte, non tutto! Affondiamo le radici in alto! Lo richiede la nostra essenza. Il corpo ha già sprofondato le sue nella terra, lasciamo che la nostra psiche si ricolleghi al metafisico; liberiamo la nostra intuizione dai ceppi di un pessimismo nichilista imperante e catastrofico. Se la scoperta del metafisico costituì la seconda navigazione platonica, sia questa la terza navigazione: il nichilismo si è suicidato divorando se stesso; la serpe che si morde la coda è morta avvelenata. Il tempo dell'uomo spento è finito. Sì, dott. Freud, il complesso di Edipo si è…sciolto, come neve al sole, come un'orchestrina che non ha più nulla da suonare. Il nulla, gli zeri che per più di due secoli avete sommato, diviso, moltiplicato, sottratto, non hanno dato alcun risultato: e come potevano! Soltanto a partire dall' UNO possiamo far "matematica". Nessuna tomba potrà mai contenere gli enti dell'infinito universo, perché essi, dovendo manifestare un infinito ESSERE, non possono esser contati. Se per assurdo Dio morisse, se per assurdo la VITA crepasse, quale mai ente potrebbe testimoniarne la scomparsa? Ma torniamo alla tragedia. Con la morte di essa, morì anche il mito, la cui scomparsa svalutò i popoli: "un popolo - come del resto anche un uomo - vale solo per quanto sa imprimere sulle sue vicende l'impronta dell'eterno" (id. Pag. 154). Oggi purtroppo siamo costretti a dover rivivere momenti analoghi a quelli che il popolo greco visse a seguito della scomparsa dei miti. Il testo sacro della tradizione giudeo-cristiana, la Bibbia, viene oramai considerato un ammasso di favolette per bambini. L'imperante neo-illuminismo si prende gioco del misticismo. La metafisica è stata cancellata da una scienza arrogante in certi suoi rappresentanti privi di ogni umiltà, che convinti di avere oramai rivoltato come un calzino l'intero universo e di conoscerlo perfettamente, non si rendono conto della vastità di esso e dei misteri che ancora custodisce gelosamente anche in campo psichico. Ed è così che cancellati i vecchi "miti" della religione, e con essi la stessa religione, ne hanno creati di altri: oggi abbiamo il mitico cantante, il mitico sportivo, la mitica attrice, i mitico vip ecc.. Ma il mito è simbolo del trascendente ed ha la forza di indirizzare intere comunità verso l' "alto", non può dunque essere rappresentato (e succede spesso) da personaggi che tutto possono essere, tranne che modelli da seguire; che tutto possono simbolizzare, tranne che il trascendente. Per fortuna, come sottolineava giustamente Jung, tutto l'occidente, volente o nolente, dovrà fare i conti con i Mosé, gli Abramo, Le Ester, le Giuditte, ecc. Certo non ha del tutto torto Nietzsche quando afferma che le le nostre smorte e stanche religioni…sono degenerate fin nelle loro fondamenta in religioni dotte (pag. 121), ma questo ha poco a che vedere con il ricercatore serio che, oltre allo studio della religione attraverso i dottori di essa, si accosta al testo sacro per approfondirlo nella speranza di conoscerlo e conoscersi. Senza contare che può anche essere avviato uno studio comparato di tutte le religioni, per ampliare gli orizzonti senza cadere nel relativismo. Una cosa è certa: un auspicato risveglio del dionisiaco dopo l'assurda affermazione Dio è morto non ha liberato proprio nessuno, ma ha condannato milioni di giovani alla ricerca disperata di una promessa felicità in "luoghi" che non potevano contenerla. L'unica tragedia ri-nata è quella di un assurdo intreccio di vicende umane che mena dritto ad una seconda catastrofe finale di cervelli, di menti e di coscienze: la prima era già avvenuta nel corso della seconda guerra mondiale con lo sterminio di milioni di innocenti e con la morte in guerra di diecine di milioni di persone. Ma questa seconda catastrofe è molto più pericolosa della prima, perché è strisciante, leggera come il venticello iniziale della calunnia del Figaro rossiniano. E' subdola: mascherata da false lodevoli apparenze appesterà ciò che ancora non è stato ammorbato, grazie al canto perfido di moderne e convincenti sirene. Ma il male, il distruttivo, il caotico, non può durare, perché è auto-annientante; quindi la sola speranza che rimane, quando una forte volontà collettiva non riesce più a governare la barca, è che il falso timoniere venga ingoiato da un'onda anomala verso cui lui stesso ha diretto l'imbarcazione, così, tanto per provare forte sensazioni, nuove ebbrezze, tanto per testimoniare in modo superbo Dioniso. Hai proprio ragione Friedrich Nietzsche: "Il socratismo assetato di conoscenza dei nostri giorni, anche nel caso più favorevole, che cosa potrà fare contro questo demone insorgente da inesauribili profondità? (Id. pag. 131). Tale demone non darà vita, caro Friedrich a nuova potente musica, ma a ben altro: i danni sono sotto gli occhi di tutti, tranne di quelli che li hanno provocati e continuano a provocarli, ma che, per non ammettere la loro errata valutazione, la loro sconfitta sul piano filosofico e intellettuale in genere, per stupido orgoglio non rinnegheranno mai le loro idee, e continueranno ad adorare un nulla che nulla può perché non esiste. Più atei di così! Tu, Friedrich, non volevi che l'elemento ottimistico introdotto da Socrate e poi da Platone penetrasse nella tragedia, ma esso vi penetrò, e per più di duemila anni la cosa, bene o male ha funzionato. Adesso che il pessimismo tuo, di Leopardi e di Schopenhauer ha vinto, le tue aspettative non sono state deluse e disattese, ma noi, che pure vi amiamo, combatteremo il vostro pessimismo, pur accettando tante altre idee buone. Sì, sei riuscito a porre sul capo di milioni di giovani la corona d'edera dionisiaca e a farli danzare: non fanno altro. Ma l'edera secca presto, i muscoli si stancano, il corpo invecchia ad ogni secondo, e soprattutto: la danza fa ridere solo i piedi. Tu hai detto con Zarathustra: "Uomini superiori, imparatemi - a ridere! - e tutti ridono, ma sappi che lo fanno anche senza motivo, e quando qualcuno non sa più ridere nemmeno per niente, si droga, si ubriaca di alcool o di musica o di qualunque altra cosa: quello che conta, per loro, è non più esserci. Quanto genio in te, Friedrich! E quante intuizioni buone! Le cose che hai detto su Dioniso potevano valere soltanto per te e non per tutti, perché tu eri pronto per un salto di qualità che in qualche modo prima o poi sarebbe avvenuto; avresti sicuramente superato d'un balzo l'ostacolo immenso che ti eri creato, stanco del fantasma di una storia finita. Ma tutti quelli che ti hanno imparato non sanno saltare, né tantomeno danzare estaticamente. Tanto è vero che la loro arte (?) manca di quel santo entusiasmo cui tu alludevi: anche quando s'imbottiscono di droghe per potere creare qualcosina, non riescono a sollevarsi dalla melma in cui sguazzano beati e felici: soltanto schizzi di fango, Friedrich, sanno solo inzaccherarsi e inzaccherare: imbrattare, blaterare, stonare, dis-ordinare, distruggere, ecc. Quando si va al mercato a vendere quello che si è raccolto nel proprio orticello, si può offrire solo ciò che si ha nel carrettino. Pochi frutti, Friedrich, pochi alimenti, ma tante, tante erbacce. E' proprio una tragedia, una immane tragedia! Avevi perfettamente ragione quando in "La filosofia nell'età tragica dei greci" scrivevi: "Dove domina l'ingiustizia, ivi è arbitrio, disordine, mancanza di regole, contraddizione" , assoluto caos, diciamo noi (Nietzsche -Opere - Newton, vol. 1°, pag. 215).
Il dibattito sulla tragedia greca, dopo più di due mila anni è ancora acceso, e verte sui seguenti punti fondamentali: la connessione di essa con: 1) il culto di Dioniso e quindi l'elemento satiresco di esso; 2) i culti della fertilità; 3) i temi religiosi ed etici; 4) il mito e l'eroe; 5) la coralità iniziale di essa. Col tempo, grazie a Tespi (autore ed attore), dal coro si staccherà un attore che da semplice dicitore si trasformerà piano piano in interlocutore del corifeo (il capo del coro). All'inizio, gli autori, nel corso di un'intera giornata gareggiavano fra loro, proponendo ciascuno la loro opera. Con Frinico la tragedia comincia ad occuparsi di temi storici e mitici, e fanno il loro ingresso le trilogie (tre tragedie collegate fra loro). Eschilo dette alla tragedia quella struttura che sarà definitiva e che consisterà in: Prologo (monologo introduttivo); Parodo (ingresso del coro); Stasimi (canti corali consistenti in recitativi); Esodo (che da principio consisteva in un canto finale del Coro, ed infine nell'ultima scena della tragedia). Sofocle dette al Coro e dunque alla lirica più peso. Euripide, infine, al coro diede carattere musicale e di intermezzo; sciogliendo ogni rapporto nella trilogia, privilegiando la scenografia. E' così giunta l'ora di occuparsi dell'Edipo re di Sofocle.
Edipo Re Edipo (= piede gonfio, malato) nasce come figlio del peccato e della disobbedienza di Laio. Infatti veniamo a sapere dal mito che Laio (= padrone di greggi) invece di custodire il ‘suo gregge’ ha per lussuria rapito e violato Crisippo (= colui che cavalca la scelta) il figlio del suo amico Pelope ed e` stato da questo maledetto e percio` condannato dalla dea Era a non procreare. Invece Laio, divenuto re di Tebe, ha sposato Giocasta e da lei ha avuto un figlio, appunto il piccolo Edipo. Il bimbo, destinato per la sentenza dell’Oracolo ad uccidere il padre, per ordine di Laio avrebbe dovuto essere esposto sul monte Citerone con le caviglie forate da uno spillone, ma il pastore che doveva esporlo lo ha salvato e affidato a Polibo, re di Corinto. Ecco dunque che in questo Albero cabalistico troviamo subito un Malkuth, disarmonico, ‘malato’: questo ‘piede’ malato e` Edipo stesso che avrebbe dovuto essere ucciso alla nascita se il Pastore disobbediente non ne avesse avuto compassione. (v. Tao Te Ching cap. 64: “Cio` che non e` ancora apparso si previene facilmente” (il male) e v. pure i Racconti di un pellegrino russo ed. Citta` Nuova pag. 15 citazione di Doroteo: “…la prudenza chiede che <vengano massacrati dall’inizio quei figli di Babilonia> dove per figli di Babilonia si intendono “le suggestioni del male”, cioe` i pensieri negativi figli del mentale nero). Secondo quanto stabilito dall’Oracolo degli dei questo Malkuth tarato, senza neanche rendersene conto, uccide il ‘padre’, Laio (che abbiamo posto nel Briah nero), quel mentale negativo che lo ha generato e che in Tebe si perpetua nella Sfinge (= la strangolatrice). Infatti Edipo, risolvendo l’enigma da lei posto, la vince in astuzia, e ne cagiona la morte. Egli e` capace percio` di liberare Tebe (= centro dell’oppio, la droga dell’oblio coscienziale) dal ‘mostro’ (dal mentale negativo: Laio - Sfinge), ma, diventato re di Tebe a sua volta, Edipo senza consultare l’Oracolo, accetta di sposare la vedova di Laio, la regina Giocasta (= luna splendente al bianco; al nero: luna oscura) che abbiamo posto sull’astrale nero e commette cosi`l’involontario incesto che lo porta alla rovina. Abbiamo collocato l’Oracolo in Daath, quale ‘Voce’ del mondo Archetipale o divino; il Sacerdote di Zeus nel mentale bianco intuitivo quale tramite tra il mondo archetipale e quello mentale; abbiamo posto il cognato di Laio Creonte (= creodonte, fiera preistorica, leone?) anche nel mentale razionale bianco, quale saggio consigliere di Edipo; il Coro e il Corifèo (= capo del coro) in Tiphereth quale ‘cuore’ che porge con amore allo spettatore l’essenza della tragedia di Sofocle e i suoi insegnamenti. In opposizione al cuore dell’Albero bianco abbiamo collocato nel Tiphereth dell’albero nero il Pastore che salva Edipo. La sua “compassione” e` falsa perché va contro la giustizia divina. Nello Yesod bianco abbiamo invece posto Tiresia (= che si rallegra nei segni), l’indovino che conosce la “verita`” che protegge (tir = scudo) e nello Yesod nero abbiamo posto i due ‘Messaggeri’ quali tramiti delle comunicazioni tra i vari piani dell’albero nero. Abbiamo poi collocato nell’astrale bianco Antigone (= al posto della madre) che, figlia e sorella di Edipo, quale energia sentimentale positiva, prende pietosamente il posto della di lui sposa e madre, Giocasta, morta suicida, accompagnando Edipo, fratello-padre ormai cieco, in esilio a Colono L’incesto filosofico che nell’Albero bianco conduce alla Reintegrazione in quanto il Figlio (= Coscienza) feconda la madre, la personalita` che lo ha generato, nell’albero nero invece produce il suicidio della madre (la morte della personalita`) e la cecita` e l’esilio del figlio, dell’io egoico che ha prodotto la “non – coscienza”, da qui il suo trasferimento a Colono (= dove si puo` ancora vivere) cioe` in una succesiva incarnazione. Se a questo punto Antigone si unisse in puro matrimonio col figlio di Creonte si potrebbe di nuovo sperare nel successo dell’Opera, ma questa e` un’altra storia e Sofocle non l’ha scritta…
ALBERO CABALISTICO DI
EDIPO
Detto in parole semplici, il Complesso di Edipo di Freud si ridurrebbe a questo: all'età di quattro, cinque anni, nel bambino i sentimenti amorosi si organizzano in una struttura psichica (complesso) che si presenta come desiderio di morte per il genitore dello stesso sesso, e desiderio sessuale per il genitore di sesso opposto. Insomma il bambino vuole possedere la madre, ma siccome il padre è un ostacolo, ecco che ne desidera la morte. Jung, a tale complesso contrappone quello di Elettra, secondo cui la bambina mostra inclinazioni verso il padre, e gelosia verso la madre. Ovviamente, sia Freud che Jung attinsero i nomi alla mitologia tragica greca. Non è certo questa la sede per approfondire Edipo come complesso dal punto di vista psicanalitico. Chi vuole, può farlo studiando le opere di Freud e della sua scuola. A noi interessa soltanto appurare se l'Edipo sofocleo "soffriva" di un complesso che porta il suo nome. Dopo un'attenta lettura della tragedia abbiamo appurato alcune cose importanti: 1) Appena Edipo nasce, non ha nemmeno il tempo di rendersi conto d'avere un padre e una madre, perché Laio, suo papà, per scampare ad un oracolo che lo voleva ucciso per mano del figlio, decide di farlo morire, esponendolo sul monte Citerone con le caviglie infilzate da un ceppo. Per ciò, se i sentimenti del bambino dovevano organizzarzi in un complesso che prevedeva odio mortale per il padre e desiderio sessuale per la madre, dal momento che la materia prima costituita dai genitori e dai sentimenti stessi mancava, non hanno avuto (e come potevano?) né tempo né modo di farlo. 2) La coppia di genitori cui fu affidato dal pastore incaricato della sua uccisione, non poteva in alcun modo produrre il complesso perché a detta di Freud esso, pur manifestandosi verso i cinque anni, ha inizio nel seno materno, ma siccome quella non è la vera madre ed in seno non lo ha portato, l'investimento oggettuale nella mamma non è potuto in alcun modo avvenire. Né dal mito ci risulta che provasse odio per il padre adottivo e desiderio sessuale per la madre adottiva. Se a questo aggiungiamo che - 3) nel momento in cui interrogato l'oracolo (qualcuno gli aveva dato del "bastardo" e voleva sapere se era vero) gli viene sentenziato che potrà essere parricida e figlio incestuoso, e che si allontana dai genitori adottivi Polibo e Merope, cade uno dei presupposti del complesso edipeo: la volontà della persona nel voler-dover provare odio per il padre e desiderio sessuale per la madre. Ma c'è un altro punto che Freud non ha considerato: 4) quando Edipo commette incesto non sa che Giocasta è sua madre, e quando uccide Laio non sa che quello è suo padre. Per essere più chiari riportiamo le parole di Freud: (traduzione Galimberti) …Il bambino…sviluppa assai precocemente un investimento oggettuale per la madre, investimento che prende origine dal seno materno e prefigura il modello di una scelta oggettuale del tipo 'per appoggio; del padre il maschietto si impossessa mediante identificazione. Le due relazioni per un certo periodo procedono parallelamente, fino a quando, per il raffozzarsi dei desideri sessuali riferiti alla madre e per la constatazione che il padre costituisce un impedimento alla loro realizzazione, si genera il complesso di Edipo (Riportato in: Psicologia - U. Galimberti - Garzanti, pag. 347). Ora ci chiediamo: come può un tale tipo di complesso portare il nome di Edipo? Risposta: Freud ha preso un abbaglio. Attenzione però, non stiamo negando l'esistenza di un tale tipo di complesso, ne stiamo contestando solo il nome e l'eccessiva drammatizzazione di esso. Freud, accostando la sua scoperta ad un mito del genere, che quanto a tragicità non teme rivali, ha voluto dare una sorta di numinosità alla sua idea, un'amplificazione mitologia che, forse, meglio avrebbe "propagandato" la sua scoperta. Il nome Edipo, a nostro parere è troppo, per un complesso che tutti noi, chi più e chi meno, abbiamo vissuto. Non stiamo mettendo in discussione nemmeno la genialità di S. Freud, che rimane intatta nonostante questa nostra benevola critica, che vuole essere un tardo tentativo di far uscire il povero Edipo da quella tomba complessuale che non merita. E non siamo certo gli unici a pensarla così. Jean - Pierre Vernant e Pierre Vidal - Naquet, nel loro Mito e Tragedia nell'antica Grecia, nel IV capitolo "Edipo senza complesso" ribadiscono il concetto da noi espresso. Essi partono dal presupposto che le argomentazioni di Freud apparentemente rigorose, sono frutto di un ragionamento "fondato su un circolo vizioso": "Una teoria elaborata partendo da casi clinici e da sogni dell'epoca contemporanea trova la sua 'conferma' in un testo drammatico d'altra epoca. Ma questo testo è in grado di apportare una tale conferma solamente nella misura in cui viene esso stesso interpretato rapportandolo al mondo onirico degli spettatori con temporanei…Perché il circolo non fosse vizioso, sarebbe occorso che l'ipotesi freudiana…fosse emersa… come un'esigenza imposta dall'opera stessa…come lo strumento di un integrale deciframento del testo" (La storia del teatro - teatro antico - Einaudi-Il Giornale, pag. 211, 212). Non solo. I nostri due pensatori si sono anche poste alcune domande alquanto intelligenti: "Se la tragedia attinge la sua materia in un tipo di sogno che ha valore universale, se l'effetto tragico dipende dalla mobilitazione di un complesso affettivo che ciascuno di noi porta in sé, perché la tragedia è nata in Grecia a cavallo fra il VI e il V secolo? Perché le altre civiltà l'hanno completamente ignorata? Perché, nella stessa Grecia, la vena tragica si è cosi rapidamente inaridita per cedere il passo ad una riflessione filosofica…?" (Id. pag. 214). Ed ancora ci viene ricordato che l'identificazione degli affetti familiari con desideri incestuosi non è meno arbitraria. I greci per esempio consideravano perfettamente legittimi unioni che oggi sono reputate incestuose come quelle fra zio e nipote. Insomma, a nostro parere e secondo illustri studiosi, il complesso di Edipo sarebbe stato meglio "battezzarlo" con altro nome meno infelice in tutti i sensi. E adesso possiamo concludere con una preghiera-invocazione per lo sventurato re sepolto stoltamente in un mito che non gli compete: che Edipo riposi in pace nelle tragedie e non altrove. Grazie, Natale Missale. |