Galimberti e la Techne Faust è appena entrato nel suo studio con un cane nero, un barbone, che per strada gironzolava intorno a lui e a Wagner. L'anima sua è avvolta da sacre armonie. Dopo avere offerto al cane il suo miglior cuscino, dice a voce alta, perché cane intenda, come l'uomo aspiri alla rivelazione che in nessun luogo fiammeggia più maestosa e bella che nel Nuovo Testamento. Dopo di che prende un volume e legge: "Nel Principio era il Verbo". Ecco che già m'impunto… Non mi è possibile attribuir tanto pregio al Verbo; bisogna che traduca diversamente, se lo Spirito vorrà illuminarmi. Sta scritto: nel principio era la Ragione… E' forse la ragione quella che fa e genera tutto? Dovrebbe leggersi: nel principio era la Forza" Ma Faust dice chiaro e tondo che non si accontenterà di questo, ed ecco che lo spirito lo soccorre. "D'un tratto vedo chiaro e scrivo sicuro: Nel principio era l'Azione" (sottolineatura nostra). Abbiamo cominciato riportando questo brano del Faust-prima parte di Goethe, per "ampliare" l'affermazione che Galimberti fa nel suo Psiche e techne: "La Psicologia dell'azione ha in Schopenhauer e Nietzsche i suoi maggiori rappresentanti che la storia della psicologia esclude dalla propria fortificazione" (pag. 176). Goethe ci aveva pensato un po' prima, sia pure in maniera più generale. L'affermazione del Faust apre numerose prospettive di pensiero, e molti si sono affannati attorno ad essa cercando spunti per nuovi indirizzi di studio in diversi campi. I due filosofi tedeschi avevano sicuramente letto il Faust. Galimberti ha sposato questa tesi, che spinta ai suoi limiti, lo induce a scrivere: "Non quindi una soggettività che decide l'azione, ma il successo reiterato dell'azione che crea il primo nucleo della soggettività" (Id. pag. 179). Come dire: l'uomo non ha un' anima, un Io che compie l'azione, ma, viceversa, l'azione crea piano piano un soggetto interiore che non esiste prima di essa. Egli, sposando le idee di Nietzsche, abolisce l'anima, e con essa ogni metafisica. Ma oseremo dire, abolisce anche la superiorità che la mente, la ragione, il pensiero hanno da sempre avuto sul corpo. Se avesse ragione, vivremmo un periodo simile a quello kopernicano: nuove prospettive. E la cosa ci farebbe un grande piacere, perché saremmo testimoni dell'inizio di una nuova era non solo psicologica. Ma la domanda da porsi è: la tesi di questo studioso è sostenibile, è "vera"? Ci rispondiamo subito: no, e per vari motivi. Galimberti ci dice che la sua tesi è verificabile nel bambino, la cui soggettività non precede l'azione, ma si costituisce sui successi ripetuti e acquisiti delle sue azioni (Id.), e noi non ne siamo convinti. Diciamo subito una cosa. Il primo atto che il bambino compie, anzi deve compiere, in questo nuovo mondo meta-uterino è respirare. Quindi la prima azione del bambino è involontaria, ma anche obbligatoria: non ha alternative. Ora chiediamoci: quando il bambino sta nel seno materno non ha per caso avuto in dono dalla madre - che è una sola carne con lui - un bagaglio di esperienze quali gioia, dolore, tristezza, fame, terrore, freddo, caldo, insomma nove mesi di vita esperienziale "indiretta"? (l'abbiamo messo fra virgolette perché quell'esperienza è diretta: il bambino è la madre) Quindi, non è lecito chiedersi: ma questo bambino non è già ricco di un bagaglio esperienziale senza avere ancora visto il mondo esterno? Anche quando si volesse vedere nella madre un mondo, non è lecito pensare che il bambino abbia acquisito conoscenza senza aver dato vita ad alcuna azione? Noi non possiamo che rispondere sì a tutte e tre le domande. Ma allora non siamo autorizzati a pensare che quel bambino appena nato abbia già un nucleo di soggetto interiore con cui poter "affrontare" le difficoltà del mondo esterno? Anche questa volta rispondiamo sì. Il secondo atto (involontario) che il bambino deve compiere in questo nuovo mondo è piangere.. Ora veniamo alla terza esperienza forte del bambino: il taglio del cordone ombelicale. Il bambino viene letteralmente staccato a forza dalla madre (taglio cordone). Ed eccoci alla necessaria, ed anche qui involontaria, quarta esperienza del bambino: la madre lo allatta per la prima volta. L'allattamento con un esame superficiale viene speso ridotto soltanto ad un travaso di latte dal seno materno al piccolo. Ma si trascura di porre l'attenzione su un altro genere di "nutrimento" materno: quello emotivo-mentale. Da questo momento in avanti la madre ricostituisce la perduta unità col suo bimbo, creando dei legami fisici, mentali ed emotivi, senza i quali il piccolo non potrebbe imparare alcunché. Ovviamente, col termine madre intendiamo anche chi, in assenza di madre naturale (o perché morta, o perché ha abbandonato il piccolo), si prende cura del bambino. Ma c'è un fatto importantissimo che viene trascurato. Se l'uomo viene ridotto a cosa, macchina, computer, se viene privato di un soggetto interiore che usa tale macchina, come fa questo pseudo uomo ad agire? Qualunque meccanismo, per funzionare, ha bisogno di un operatore. Sì, può anche essere programmato (ma sempre da un uomo o da una macchina che l'uomo ha preposta alla programmazione) e funzionare automaticamente, ma un imput iniziale umano è sempre indispensabile. Il primo uomo che raccoglie da terra un osso e colpisce con esso un animale per cibarsene, ha necessariamente bisogno di uno stimolo che non può essere la fame. Quando un attimo prima questo stesso uomo camminava, lo faceva per una scelta: poteva starsene seduto all'ombra di un albero, dentro una caverna, poteva dormire, ecc.Dopo avere fatto una prima scelta: cammino, ne fa una seconda: raccatto quell'osso, e così via. Ora chiediamoci: chi sceglie? La risposta è semplice: il soggetto interiore, che è Vita Intelligente, e che dal nostro punto di vista è Una e si manifesta nella miriade di enti che l'infinito universo propone. Quindi non è l'azione (raccatto l'osso) che crea il primo nucleo della psiche in un uomo che ne è privo, ma è questo soggetto interiore che, suggerendo scelte, invita a questa o a quella azione. Se in questo preciso momento decido di alzare un braccio, così solo per farlo, non produco una decisione (già avvenuta) di alzarlo. La decisione sta prima, perché io cogito. Quando il bambino impara a pronunciare "mamma", la mamma la conosce di già, e conosce anche il mondo che lo circonda, deve solo nominarlo, e lo farà con l'aiuto della mamma prima e dei maestri di scuola dopo. Per avvalorare tale nostra tesi, è opportuno riportare qualche brano tratto dal libro di Donald W. Winnicott Dalla pediatria alla psicanalisi - Ed. G. Martinelli & C. Nel capitolo IV L'orsevazione dei bambini piccoli in una situazione prefissata, da pag. 66 a pag. 87, l'autore ci descrive un suo metodo di studio del comportamento di bambini di pochi mesi in una data situazione. Winnicott lascia che la madre e il bambino attraversino un'ampia stanza in fondo alla quale se ne sta seduto in attesa. Già col contatto visivo osserva i comportamenti di entrambi. Poi pone sul tavolo "un abbassalingua di metallo luccicante… e invito la madre a tenere il bambino in modo che, se questi lo volesse, potrebbe facilmente afferrarlo… il bambino è inevitabilmente attirato dal luccichio… allettato da un oggetto molto attraente… Il bambino posa la mano sull'abbassalingua ma, scopre inaspettatamente che si tratta di una situazione su cui è necessario riflettere. Si trova in un dilemma … Guarderà me e la madre con grandi occhi, attento e in attesa… Si riesce di solito a non offrire nessuna fattiva assicurazione, ed è interessante allora osservare il graduale e spontaneo ritorno dell'interesse del bambino verso l'abbassalingua… gradualmente diventa abbastanza audace da permettere ai suoi sentimenti di svilupparsi… quando il bambino accetta la realtà del suo desiderio dell'abbassalingua dà vita a particolari cambiamenti di comportamento …Presto il bambino si mette l'abbassalingua in bocca e lo mastica con le gengive" (sottolineatura nostra). A volte lascia cadere l'abbassalingua a terra… e manifesta un gran piacere per il suono metallico di esso. Il bambino stabilisce dei rapporti con il cibo, le persone, gli oggetti, ed a seconda delle sue rapide o lente reazioni viene in un certo senso analizzato. Ma quest'ultimo aspetto non può interessare questo breve saggio. Alla fine del capitolo Winnicott , riassumendo, dice fra l'altro "Ho avanzato l'idea che non si possa spiegare il comportamento di un bambino piccolo senza ipotizzare l'esistenza di fantasie infantili" (Anche qui la sottolineatura è nostra). Quindi, il bambino riflette, sceglie, desidera, distingue, sta in attesa prima di decidere, produce fantasie, ecc. Galimberti inizia il suo libro riportando le definizioni che Platone dà di Psyché e di Téchne nel Cratilo: "Psyché deriva da physéche che significa: ciò che sostiene e muove la natura". Mentre "Téchne deriva da héxis nou che significa: esser padroni e disporre della propria mente"; poi, entrando subito in argomento, "ci annuncia" senza mezzi termini che, dopo la morte di Dio, è in corso la morte dell'uomo. Che il suo libro sia un'amplificazione del pensiero nietzscheano lo si capisce subito: l'anima è un'invenzione di Platone; quel bugiardo di Platone citato per ben 74 volte ed usato come un ariete per abbattere la roccaforte del suo stesso pensiero. Ovviamente la forza di tale ariete sta tutta nelle 58 citazioni di Nietzsche e di tutti quei pensatori che ne hanno ruminato il pensiero. La morte dell'uomo consiste nel fatto che l'anima è un'invenzione, e che la tecnica lo ha ridotto a cosa fra le cose, ad oggetto di essa, a mezzo. L'uomo non ha più un soggetto interiore, ma siccome è ancora convinto del contrario (nonostante la marea nichilistica che gli è piovuta addosso da tutte le parti), è costretto a vivere l'età della tecnica con una mentalità umanistica, non accorgendosi che sono in corso da un bel pezzo i funerali dell'umanesimo. Più o meno, questo è quanto ci viene detto. Con un abbraccio che ci stritola e che ci fa prendere atto della nostra più assoluta insignificanza, Galimberti ripete questo concetto sia alla prima pagina, sia all'ultima, dove, citando Gehlen, ci pone ad un livello inferiore degli animali, perché, Nietzsche docet, "l'uomo è un animale non ancora stabilizzato" (in Al di là del bene e del male), perché mancherebbe di quell'istinto che l'animale ha e che per tanto - secondo l'autore - "può vivere solo grazie alla sua azione" (Op. cit. pag. 714 - ed. Feltrinelli). Per chi volesse leggere questo capolavoro di tecnica compositiva, diciamo subito che delle 715 pagine che compongono il volume, 712 sono dedicate ad un martellante "l'uomo è morto, o quasi", e le ultime tre pagine ad una pseudo prognosi e cura poco convincenti. Abituati com'eravamo a filosofie costruttive (una fra tutte quella platonica), dove dal sapiente veniva indicata una via verso il bene, la felicità, il bello ecc., la nostra delusione è stata grande. I nuovi filosofi si divertono, a quanto pare, a sguazzare nelle stagnanti acque del nichilismo, piuttosto che indicarci la via per uscirne fuori. Se noi fossimo filosofi e scoprissimo che davvero l'uomo è un animale incompleto e che la sua psiche origina dall'azione, ci chiederemmo che scopo ha svuotare di ogni soggettività questo "oggetto" umano che già soffre per il solo fatto di venire al mondo, che senso ha buttare a mare tutti i valori - Dio, l'anima, ecc. - per mettere al posto di essi quanto può solo far soffrire di più. E ci chiederemmo anche se, proponendo il nichilismo come ineluttabile, possiamo ancora essere considerati filosofi o meno. Fin dal momento in cui l'uomo s'è drizzato sulle gambe è esistita la tecnica, ma ciò non ha impedito al vero filosofo di guardare oltre la limitatissima tecnica esistente, oltre la scienza appena nata. Riducendo l'uomo al solo "fare" (che è meno di "agire"), Galimberti ha creduto di cementare l'occhio della mente ed il pensiero, di cui la tecnica è espressione, cioè figlia e non madre. Quindi non siamo d’accordo con lui quando dice, nell'ultimissima pagina del suo bel libro, che l'uomo, a causa della tecnica, ha perduto la capacità prometeica di pre-vedere, di vedere in anticipo (il nome "Prometeo " significa alla lettera "colui che vede in anticipo"), perché oltre agli effetti ultimi del fare, ci sono anche effetti ultimi del pensare che ogni fare precede.
Detto questo, diamo uno
sguardo più approfondito alla inquietante opera galimbertiana. L'autore
fa iniziare il suo viaggio attraverso la tecnica con
Prometeo e lo fa
concludere con Prometeo, dopo però averci informati: con Heidegger,
all'inizio, che siamo incapaci di confrontarci su quanto "sta realmente
emergendo nella nostra epoca; con Nietzsche, alla fine, che siamo degli
animali "non ancora stabilizzati". Questi sono gli orizzonti dell'opera.
Non vogliamo essere certo irriguardosi verso il pensiero galimbertiano,
ma fin dall'inizio respiriamo un'aria di pesante nichilismo: "I
programmi dell'umanità progettante - ci vien detto - non necessitano più
di limiti, perché
la morte di Dio, ultimo baluardo
dell'immodificabile, è testimonianza di resurrezioni impossibili. Chi si
attarda non abita la storia".
Il
tempo ha perso ogni ciclicità naturale, e pertanto non è un tempo che si
rinnova, ma che irrimediabilmente invecchia, "e
che invecchiando, mette ancor più a nudo la condizione di mortale".
Ci si comincia ad
inquietare: "chi si attarda non abita la storia". Ci chiediamo: "chi si
attarda" a non riconoscere la morte di Dio giurando sulla tomba di
Nietzsche? Oppure "chi si attarda"
a capire che la tecnica ha
ferito mortalmente il tempo, che un tempo, come una Fenice, rinasceva
dalle sue ceneri attraverso i cicli naturali? Escluderemmo questa
seconda ipotesi, visto che, come ci insegna la fisica moderna il tempo
è
lo spazio, e l'energia
è
massa (Einstein - relatività generale). Quindi dovrebbe essere la prima
ipotesi, quella "giusta". Ora, se questo è il "credo" da recitare per
continuare a far parte di una storia senza inizio, senza
principio,
senza Bereshit, beh, preferiamo restare "atei" e
sulla tomba di Nietzsche possiamo tuttalpiù portare qualche fiore, quale
segno di cristiana, buddista, islamica, induista, ecc.,
pietà. Una storia senza
Inizio non esiste, non può esistere. Il libro della Genesi comincia
proprio con queste parole
"In
principio ecc.", e noi
preferiamo rimanere ancorati a quel Principio. Certo, Eraclito, in un
suo frammento (che Galimberti riporta puntualmente per suffragare la
tesi dell'inesistenza di Dio e quindi di una conseguente creazione) ci
dice che questo cosmo non è stato creato da nessuno: è sempre stato, è e
sarà "fuoco sempre vivente che si accende e si spegne secondo giusta
misura" (fr. B 23), però questo aforisma lo si riporta sempre così com'è
trascurando di addentrarsi in quel "sempre vivente", nell'eternità della
sua esistenza. Oggi dalla fisica conosciamo qualche mistero in più di
questo sconfinato universo: Big Bang, pluridimensioni, mondi paralleli,
buchi neri. "Galassie, quasar o stelle - ci informa l'astrofisica Sandra
Savaglio - essendo per lo più lontanissimi li vediamo attualmente così
come erano milioni o miliardi di anni fa. Da moltissimi non ci è ancora
arrivata la luce" (Intervista rilasciata a G. Meloni su "Libero" del
21/1/2009). Oggi, dunque, osserviamo dei corpi celesti già "morti", un
vero e proprio miracolo reso possibile dalle enormi distanze spaziali:
galassie che esplodono come palloncini, ma la cui Aria (la scriviamo
maiuscola per indicare con essa la Vita, la vera essenza di ogni ente,
di ogni palloncino) ritorna là d'onde era venuta. Tutto questo mentre in
questa piccolissima pallina spaziale che è la terra (che paragonata alla
vastità dell'universo è inesistente, insignificante), qualche
macchinetta, qualche computer, qualche bombetta atomica mette in crisi
quello stesso pensiero che è riuscito a spingersi oltre ogni
immaginazione. Sì, è tecnica pure quella utilizzata dagli astrofisici,
ma quando sentiamo parlare una Savaglio
sentiamo
stupore, rispetto, amore;
sentiamo cose positive; ci troviamo davanti ad un pensatore assetato di
verità, di sapienza; vediamo in questa persona un nuovo filosofo, che
non vuole "distruggere" niente e non vuole "intimorire" nessuno, ma
vuole solo sapere, e la cui voglia di conoscenza la fa
essere.
Sentiamo che una persona così -
c'è.
Ogni tempo ha avuto i suoi
Gorgia, che non hanno mai inciso sulla storia della nostra civiltà
occidentale. Oggi essere nichilisti è diventato una moda. Passerà? Ce lo
auguriamo. Nel capitolo
Il congedo dagli dei,
Galimberti
ci ricorda come l'uomo si sia liberato con un gesto violento dallo
sfondo pre-umano che è l'indifferenziato. La violenza cui si riferisce è
quella "sottesa ad ogni decisione" (decidere= tagliare=
de-caedere). Da qui
passa poi a spiegarci che gli dei (e quindi Dio) non sono (non è) altro
che questo sfondo indistinto, "quella totalità mostruosa", a cui Freud
ha dato il nome di
Inconscio, e da cui
l'uomo si è staccato con un gesto violento: decidendo di staccarsene.
Quindi comincia ad esporre le basi della psicanalisi: Edipo. Un mito.
Ora, ci pare curioso come da un lato Galimberti plauda all'Edipo
freudiano (un mito), dall'altro veda nella via indicata da Jung per
sottrarsi al controllo della razionalità della tecnica un salto nella
preistoria dell'uomo (confronta pag. 697 op. cit.). Dopo avere ricordato
che a Edipo non è mai passato per la testa di uccidere il padre e andare
a letto con la madre, visto che non ne conosceva l'identità, per cui in
lui il complesso di Edipo non esiste, ma esiste quello di Freud,
vorremmo riportare la via indicata da Jung in un ottica diversa. Lo
psichiatra svizzero aveva intuito la marea di nichilismo che, a suo
dire, si sarebbe abbattuta sull'Occidente grazie a Nietzsche e Freud,
pertanto cercava di far rientrare dalla finestra ciò che i due avevano
sbattuto fuori della porta (vedi 'necrologio' per la morte di Freud in
vol. 15 pagg. 216-224 opere di Jung). Non per nulla è stato qualificato
"mistico" dai freudiani.
Quanto ai miti, agli dei,
all'alchimia, all'astrologia, ecc., ha provato ampiamente che gli
antichi conoscevano i processi psichici per proiezioni sulle materie che
di volta in volta usavano per i loro studi, e che conoscevano anche
raffibnate tipologie psicologiche. Che abbia visto giusto, lo testimonia
la decadenza di questo nostro mondo occidentale. Quindi non condividiamo
l'analisi di Galimberti, perché la decantata emancipazione proposta da
Freud-Nietzsche ha condotto l'occidente al tramonto, mentre gli studi di
Jung hanno contribuito in qualche modo a tenere acceso il fuoco della
metafisica, su cui da oltre cent'anni viene versato di tutto per
spegnerlo. Jung, riproponendo i suoi dei (che a suo dire erano diventati
patologie) ed i suoi eroi, ha inteso riproporre un Dio, cui da cent'anni
si celebra un assurdo funerale (da uomo di scienza non poteva
apertamente parlare di Dio e dell'anima cristianamente intesa). Jung
voleva solo far da diga al nichilismo, e secondo noi c'è anche riuscito.
Quanto a Freud, non gli può essere attribuita nemmeno la paternità
dell'Edipo: Nietzsche l'ha preceduto pure in questo: "Come
si potrebbe costringere la natura ad abbandonare i suoi segreti se non
contrastandola vittoriosamente, ossia mediante ciò che è innaturale?
Questa conoscenza la
vedo impressa nella terribile triade dei destini di Edipo
…
La sapienza è un delitto contro la natura."
(La nascita della tragedia -
pag. 66 - ed. Adelphi, 1994). A nostro modesto parere, non è Jung che
con la sua via alla fine ci fa ritrovare davanti alla preistoria, ma
Freud-Nietzsche: l'Occidente ha smesso di creare storia e sta
precipitando in un epoca che qualificare "indifferenziata" è un
complimento. Il caos, il disordine, il capovolgimento di tutti i valori
in atto, faranno dell'uomo un imperfetto animale, non perché, come dice
Nietzsche è incompleto a causa della mancanza d'istinto, ma perché
distruggeranno ogni residuo di buon senso, di ragione, di immaginazione,
di fantasia, di voglia di vivere, di
essere.
Eppure Galimberti ci dice che togliendo ogni soggettività all'uomo,
togliendogli l'anima intesa come sua interiorità, "non riduciamo l'uomo
all'animale" (pag. 102 op. cit.). La sola differenza fra i due sarebbe
che l'animale si adatta all'ambiente naturale, mentre l'uomo "vi si
rapporta per trascenderlo, per darsene uno virtuale. Ma ci riesce
difficile ridurre le differenze solo a ciò, perché questo tipo di
filosofia nietzscheana oramai dilagata ha ridotto quello che si
auspicava divenisse il superuomo, a cosa inanimata. Ha cioè tolto vita,
movimento, dinamicità, storia, all'essere più privilegiato della natura:
l'uomo. Ma a volte l'anima, anche da morta, viene trafitta: essa sarebbe
"la memoria dei risultati acquisiti". A partire da tutto questo deve
essere stato davvero facile per Galimberti asserire che la vita altro
non è che "immotivata volontà di esistere" che la morte conclude (Id.
pag. 110). Manca poco perché si affermi che l'uomo è un'involuzione
dell'animale. Una volta se si diceva che l'uomo deriva dalla scimmia, si
offendeva l'uomo, oggi se si dice la stessa cosa, si offende la scimmia!
L'animale pensatore è divenuto animale attore: una cosa che agisce, e
che agendo crea la psiche. Ci si passi il paragone, è come volere
asserire che un seme può venire benissimo su senza bisogno del cielo,
del sole. Ma la "demolizione" continua: la religione non è espressione
dello spirito, essa è "iscritta nella logica dell'azione tecnica, che
genera espressioni religiose ogni volta che la trasformazione del mondo
incontra il suo limite" (Id. pag. 123). Essa pertanto va congedata
perché oramai smascherata come "proiezione dei desideri umani (Feuerbach),
o come illusione (Freud).
E noi che credevamo la
religione essere figlia di teofanie!
Ma osserviamo l'agonia di
questa povera anima attraverso il conciso sviluppo che di essa vien
fatto: "Con Platone era visiva, con Cartesio rappresentativa, con
l'empirismo ideativa, con Kant diventa legislativa", poi, con Fichte non
è più sostanza, ma azione. Come è facile dedurre si parla di un'anima
non sperimentata, del concetto di anima che scaturisce da un
ragionamento. Lo stesso Aristotele, a seconda del momento e del punto di
vista, ce ne parla in tre modi diversi: allo stesso modo di Platone,
dualità anima-corpo (Eudemo);
corpo come strumento dell'anima (Analitici,
Etica); anima come
forma del corpo (Anima,
Metafisica). Ce lo
ricorda lo stesso Galimberti, per soffermarsi infine sull' "anima come
qualcosa del corpo" (Anima).
La conclusione cui da qui a poco si giunge, è che: dire "che l'uomo è un
animale che ha in aggiunta la ragione è dire qualcosa che nessuna
asserzione giustifica e nessuna verifica conforta" (pag. 160 op. cit.).
Quindi, a questo punto il nostro filosofo dà per certe le sue
conclusioni. Si tratta solo di calare questa nuova realtà nei vari
ambiti del sociale e nelle diverse discipline. Ed è quello che d'ora in
avanti farà, spaziando dall'economia, alla politica, alla psicologia
ecc. Vanno tutte riviste, rifondate alla luce della teoria "in principio
era l'azione. Ma noi diciamo: la proposizione "io leggerò" è frutto del
pensiero "io leggerò". Il soggetto è l'a-priori dell'azione del leggere,
ne è la base, la necessità. La stessa frase "io leggerò", in mancanza di
un soggetto rimarrebbe un verbo che può solo esistere all'infinito (leggere,
senza soggetto). Il
corpo è l'operaio che eseguirà l'ordine del soggetto interiore che,
mettendo in moto il cervello, costringerà le braccia a prendere un libro
particolare (frutto di scelta). L'azione è l'ultima ruota del carro.
L'azione non può essere "impersonale": è come chiedere ad un computer
spento di aprire un programma da sé: senza operatore e senza corrente,
niente azione.
Ci chiediamo che valore
abbia un DNA che pre-dispone a determinati comportamenti: è l'azione che
lo crea, oppure l'azione nasce anche da esso? Se scriviamo una frase e
poi la correggiamo mille volte, ci fermiamo quando, dopo tentativi
casuali, si ottiene la frase che soddisfa, oppure quando l'idea che
avevamo in testa viene espressa così come era nata? Ma torniamo alla
tecnica ed all'anima. Mano mano che la lettura del libro procede, ci
accorgiamo che è stato solo amplificato (in modo perfetto) il pensiero
di Nietzsche. Nulla di nuovo.
Il tutto si riduce a
ricucire citazioni di diversi filosofi: Aristotele, Hobbes, Vico,
Spinoza, ecc., e farne una tesi condivisa.
Ma nonostante si parli di
tecnica, abbiamo potuto constatare che, al di là del pensiero
filosofico, non una sola prova scientifica viene
portata. Per cui, con tutto
il rispetto per gli
Aristotele & C.,per i Freud e gli Heidegger, non potremmo proprio, pure
volendolo, sposare la tesi galimbertiana. Se davvero stiamo parlando di
un oggetto, di una cosa (leggasi uomo), deve essere la scienza e non la
mente a dimostrarmi che
è come dice questo
studioso, perché se "la coscienza reagisce all'inconscia azione" (id.
pag. 240), vorremmo proprio conoscere a quale inconscia azione ha
risposto la coscienza che ha dato vita a questo libro.
Se "la verità è prodotta dal sapere" e non preesiste ad esso, non
esisterà mai nessuna verità vera. Per cui possiamo tranquillamente
ritenere questo libro una non verità, visto che nuovi saperi lo
supereranno.
Le parole, si sa bene, sono
il mago, l'illusionista per eccellenza. I grandi filosofi possono essere citati, a questo punto, sia per suffragare codesta tesi, sia per smontarla. Noi non crediamo affatto alla onnipotenza della tecnica, perché essa stessa ha rivelato la sua impotenza nel momento in cui ci ha spinto con lo sguardo verso galassie che vediamo e che potrebbero anche non esistere più. Pertanto, quando viene citato più volte quel passo di Platone che dice: "Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un orientamento ad esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell'universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica (Leggi, libro X 903c, sottolineatura nostra), quando viene citato un tale brano, noi focalizziamo l'attenzione su quel Tutto, su quell' "uomo meschino", sull' "universa armonia", sulla "vita cosmica". E allora il nostro pensiero va a Dio, all'anima, alla felicità, a tutto quello che il nichilismo, con una presunzione sconfinata ed un'arroganza senza limiti ha seppellito. Il sopracitato brano fa parte di un discorso più generale che, come suo costume, Platone costruisce a fin di bene. In un brano successivo Platone, a proposito della giustizia degli dei, cui nessun uomo può sfuggire, dice: "Chi ignora questo contributo divino non sarà mai in grado di vedere nei suoi caratteri generali il vivere degli uomini, né diverrà mai capace di portare il contributo del suo discorso sulla vita, in relazione alla felicità e alla cattiva sorte" (Platone, opere complete, vol. 7°, pag. 352, ed. Laterza, 1971). Platone ci sta dicendo che, se l'uomo non riesce ad uscire dal pantano egoico in cui si trova ed esclude il Divino (contattabile con un'anima non incrostata come quella di Glauco), osserverà il mondo e se stesso con un occhio miope, non ne capirà nulla. Nel suddetto primo brano citato, quando afferma che ogni vita sorge per il Tutto, sta dicendo a chiare lettere che ogni cosa tende al divino. La traduzione Laterza lo dice in maniera più chiara: "Anche, tu, misero, sei una di queste e la parte che tu rappresenti sempre mira e tende al tutto…" (Id. pag. 350). Ma l'uomo gode di libero arbitrio, e da qualche tempo ha deciso di mirare e tendere al nulla. Noi siamo ancora con Platone, ma non perché riteniamo la sua una verità assoluta, ma perché lui tende al Bene, al Tutto, al Bello, al Giusto, al Santo, al Buono. E siccome la verità - secondo Galimberti - non preesiste al sapere, dal momento che il sapere è sempre relativo e mai assoluto, preferiamo quel sapere (quello platonico) che tende al Bene, piuttosto che quello che tende al nulla. Ora, dal momento che nessuno può affermare di possedere la verità, visto che essa occupa tutto lo spazio e tutto il tempo e che non consente a nessuno una tale ampiezza, riteniamo importantissimo che un pensatore, un filosofo si soffermi su quello che una particolare visione delle cose, una linea filosofica può procurare di negativo nella società. Ed allora, anziché seminare "terrore", dovrebbe sì dire quello che pensa, ma dovrebbe indicare anche gli antidoti, le medicine per curare le intossicazioni procurate dalle sue idee. Un pensiero "non vero" per i motivi che abbiamo sopradetto, non può distruggere quanto altri pensieri "non veri" hanno di buono apportato. Si può criticare tutto e tutti, ma non si può distruggere una civiltà senza proporne una migliore: se distruggiamo la casa in cui abitiamo, prima di averne costruita un'altra possibilmente migliore, ci creiamo solo problemi. Siamo tutti convinti che il mondo diventerà sempre più tecnologico, ed i problemi che da ciò deriveranno saranno tanti, ma che per risolvere tali problemi bisogna inchinarsi allo strapotere del robot ed alla teoria per cui siamo tutti oggetto della techne, non ne siamo convinti. Dal nostro punto di vista riusciamo a vedere due tipi di filosofi: quelli ispirati e quelli non ispirati. I primi intuiscono teorie positive, cioè principi ispirati alle virtù; i secondi, al contrario, concepiscono e partoriscono solo teorie esclusivamente negative e distruttive. Nessuno - lo ripetiamo - potrà mai conseguire la patente di detentore della verità assoluta (tranne i grandi Maestri dell'umanità: Gesù, Mosé, ecc.), quindi, sarebbe molto opportuna più umiltà e onestà intellettuale. Il pensare non è frutto dell'azione; l'anima non è frutto del fare. Il buon pensare ha radici nel futuro, in quella progettualità che, rincorrendo incessantemente il Bene, tende, piuttosto che al nulla, al Tutto. L'agire è solo un'eco del pensiero, un progetto vivente che, pur potendo essere migliorato attraverso prove sperimentali, non potrà mai e poi mai essere figlio della sperimentazione: per potere sperimentare occorre un'idea di fondo sull'esperimento. "E' la tecnica a fare verità"( pag. 317 op. cit.) ci dice Galimberti, e noi diciamo che è la verità a farsi tecnica, se è vero, come è vero, che l'uomo è partecipe di questo Tutto, di questo Essere che, solo, può permettersi l'infinito inconiugato. Poi l'uomo può usare tale tecnica anche per fare del male, se lo vuole. Ma è lì che dimora la verità, nel Tutto di cui siamo parte. Ma può una verità essere non buona? Può una verità degradare l'uomo a pura animalità? Può una verità mentire? Ovviamente non mancano molte citazioni di Marx e Freud. Il primo per esempio viene citato per dirci che il concreto è punto di partenza e non risultato (vedi pag. 334). Da qui ad affermare che "la verità si fabbrica" (pag. 349) il passo è breve. Esistono le tecniche persuasive, quindi che siano i discorsi a produrre verità. Basta capovolgere: non costa niente. Ma Einstein ci ha insegnato che per misurare occorre un regolo. Con quale regolo noi dobbiamo misurare questi discorsi per potere affermare alla fine che sono "esatti"? Sarebbe la stessa tecnica questo regolo? Ma essa è dinamica: non si ferma mai! Dunque? "La scienza non pensa", dice Heidegger; la scienza non esiste, diciamo noi: essa non è soggetto, ma "prodotto" dello scienziato, dell'uomo. E potremmo pure dire "la tecnica non esiste", esiste lo scienziato che l'ha partorita. "La scienza considera reale solo ciò che si dà nelle modalità attese da quel fare operativo che è proprio delle sue ipotesi" (pag. 378) dice Galimberti, e noi traduciamo: L'uomo tecnologico (senza anima e senza Dio) con la "parrucca" della tecnica fa il controllore-automa delle ipotesi; osserva se percuotendo una campana (non lui, ma la tecnica) il suono previsto dall'ipotesi, accada! L'uomo si identifica con la tecnica, che oramai Soggetto "traduce i presunti soggetti umani in suoi predicati" (Id. pag. 401). Cosa ci impedisce, a questo punto, di affermare che, se la ragione (in generale) è frutto della tecnica, si è passati dall'era dei lumi all'era dei bui? E qui, ovviamente torna utile (ma non a noi) una citazione di Marx: "Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza" (Id. pag. 416, sottolineatura nostra: basta capovolgere.). Siamo a quella che il Nostro chiama "Filosofia del sospetto", inaugurata da Marx, Nietzsche e Freud. A mo' d'esempio diciamo solo che Nietzsche, come dice Galimberti, "spiega l'alto a partire dal basso, l'ideale a partire dalla pulsione vitale" (pag. 420), come dire: spiegare il ricamo a partire dal sottoricamo. Siamo bloccati in quel "pantano filosofico" che ha bloccato la filosofia per oltre cent'anni nelle paludi nietzscheane. Apparentemente sembra un oceano, ma è solo una pozzanghera, perché chi parte dalla pulsione vitale, parte da un istinto plastico, da un impulso che rimane sempre un affare interiore che ha come confine, come orizzonte la pelle. Ma a questo punto tiriamo un sospiro di sollievo, perché finalmente, dopo cinquecentocinquanta pagine viene dato un suggerimento per superare un problema (siamo proprio a pag. 551 dell'op. cit.): per non essere manipolati e usati dalla tecnica si auspica una maggiore preparazione tecnica del vasto pubblico, e più attenzione da parte della tecnica ai problemi ermeneutici (cioè di interpretazione) della stessa tecnica. E qui sentiamo una fortissima nostalgia delle Repubblica platonica, laddove ci si sforzava di organizzare il meglio del meglio per tutti. A pagina 463 ci viene poi suggerito un altro rimedio: viene riportato un pensiero di H. Jonas, ma siccome esso ci pare blando, non ne parliamo. A volte abbiamo la sensazione di trovarci davanti ad una persona che ha individuato bene il suo nemico e che invece di combatterlo si arrende decantandone la forza. Anche se, poco dopo, l'autore ci suggerisce una scappatoia, che a noi sembra tutto tranne che scappatoia: siccome la natura come produzione è un concetto giudaico-cristiano, finché essa verrà interpretata secondo tale categoria "non sarà possibile porre alcun limite alla tecnica e agli effetti della sua espansione" (Id. pag. 481). Non è che qualcuno ci ha creduto, e per cominciare a cambiare modo di pensare ha cominciato a buttare crocifissi dai balconi ed ha rispolverato vecchi stereotipi di antisemitismo? Stiamo esagerando, lo sappiamo bene, ma vogliamo solo sottolineare quanto già detto a proposito degli effetti che possono avere delle passeggere "verità". Il fatto è che a questo punto ci ritroviamo da un canto con un uomo che, non più estroverso (Dio è morto) diventa introverso (animale incompleto), d'altro lato con una tecnica che diviene Dio e anima di un uomo animale senza istinto e perciò incompleto. Davvero una tecnica bestiale. E' per questo che dovremmo chiederci se non abbiano più valore "scientifico" le esperienze dei mistici di ogni tradizione religiosa, piuttosto che le chiacchiere filosofiche di moltissimi filosofi che teorizzano e basta. Nell'ultimo secolo, la filosofia (non tutta, per fortuna) è divenuta "graffitara": si limita ad imbrattare le filosofie precedenti, quelle propositive, e là dove prima vi era arte, ora vi è scarabocchio. Una filosofia così non porta da nessuna parte, perché la ribellione spinta all'estremo porta all'uccisione del vecchio e non alla sana ribellione contro il vecchio. Ed ecco che ci ritroviamo a dover rivivere quella preistoria e quella mitologia (Saturno che uccide Urano, Giove che uccide Saturno…), a cui ci consegna, non Jung con la sua Psicologia Analitica, ma la filosofia contemporanea. Essa, accogliendo Dioniso ha come firmato un patto con un novello Mefistofele. Nietzsche era un grande poeta (tutta la sua opera è poesia, oltre che filosofia da noi non condivisa in larga parte). Galimberti lo riteniamo un poeta oltre che filosofo, perché riteniamo le sue opere poesia, ma avendo sposato integralmente Nietzsche ha sposato anche Dioniso. A pensarci bene, nessuno ci può impedire di vedere in Psiche e techne un Dioniso smembrato, sbranato dalla tecnica danzante la danza della morte: è morto Dio, è morta l'anima, la filosofia, la metafisica, le religioni, tutti i valori, persino il marxismo - secondo l'autore - è morto, e insieme con tutto ciò è morto l'Occidente. Per fortuna, da qualche parte, si danza ancora la danza della VITA. Vorremmo concludere questo breve saggio, dopo aver ringraziato il prof. Umberto Galimberti per averci permesso di conoscere il suo pensiero ed averci stimolato non poco a pensare e quindi ad agire (scrivendo e manifestando il pensiero che ha preceduto il nostro scrivere-agire), riportando quanto Hans-Georg Gadamer scrive nella sua introduzione alla sua opera più importante che è Verità e metodo, il cui intento è "quello di studiare, ovunque essa si dia, l'esperienza di verità che oltrepassa l'ambito sottoposto al controllo della metodologia scientifica, e di cercarne la specifica legittimazione. Le scienze dello spirito vengono così ad avvicinarsi a quei tipi di esperienza che stanno al di fuori della scienza: all'esperienza filosofica, all'esperienza dell'arte, all'esperienza della storia. Tutte queste sono forme di esperienza in cui si annuncia una verità che non può essere verificata con i mezzi metodici della scienza… Così l'esperienza dell'arte costituisce, insieme alla esperienza della filosofia, il più pressante ammonimento rivolto alla coscienza scientifica perché essa ammetta e riconosca i propri limiti. (Edizione Bompiani, Traduzione di Gianni Vattimo, 2004, pag. 19-21, sottolineatura nostra). Roma, 27 - 01 - '09. Grazie, Natale Missale |