Giacomo Leopardi gli
anni con Ranieri
Agli esami di maturità che
sostenni negli anni sessanta lo scritto d' Italiano invitava a parlare
di Giacomo Leopardi. Avevo da poco letto il suo Zibaldone di pensieri.
Mi ero fatta un'idea chiara: Leopardi, pur se in maniera frammentaria,
proponeva una sua filosofia, pessimista e nichilista, poco
condivisibile, ma pur sempre filosofia. Fu quello che scrissi.
L'esaminatore, un prete messinese di cognome Randazzo (me lo ricordo
ancora), con mia grande sorpresa, mi costrinse a ripetere l'esame a
Settembre: secondo lui avevo detto un sacco di sciocchezze: Leopardi non
era nemmeno un pensatore, a suo dire, tanto meno un filosofo. Ma ha
letto lo Zibaldone? mi chiedevo. Non scriveva certo dei saggi lunghi e
articolati, ma i suoi ragionamenti, affidati a dei quasi aforismi, erano
lì, confutabili, ma lì. Fu quello uno dei giorni più tristi della mia
vita. Quel prete non sopportava le mie idee, perché quando mi fece
vedere il mio compito, dal punto di vista grammaticale ed espositivo non
aveva quasi correzioni. Era stato bocciato un mio pensiero e quando
glielo feci presente mi disse secco che ci saremmo rivisti a Settembre.
La libertà di pensiero e di parola per me erano sacre e inviolabili. La
cosa non mi andava proprio giù. Sono sicuro che se a quel tempo avessi
detto che anche Nietzsche era un filosofo, il buon Randazzo avrebbe
reagito allo stesso modo. Io non condivido il pensiero dell'uno, né
dell'altro, ma non posso certo nascondere la testa sotto la sabbia:
entrambi sono due giganti del pensiero che con largo anticipo hanno
intuito il destino dell'Occidente. Entrambi sono stati acuti osservatori
di se stessi e degli altri, hanno perciò conosciuto la psiche umana
dandone prova nei loro scritti. Entrambi hanno scritto solo le cose
essenziali,senza fronzoli o preamboli lunghi e noiosi. Entrambi
mangiapreti. Ma una cosa li accomunava più d'ogni altra: la solitudine e
la sofferenza sia fisica che mentale, soprattutto quella degli ultimi
anni della loro vita. Forse non è azzardato dire che è stato più
fortunato Nietzsche, piombato in una finale follia quasi liberatoria.
Leopardi, negli ultimi anni della sua vita è stato costretto a bere fino
in fondo il calice della sofferenza. Nessuna follia gli venne in
soccorso. Dato a Cesare quel che di Cesare era, possiamo ora affrontare il nostro tema: i sette anni di sodalizio con Antonio Ranieri. Quando mi capitò fra le mani il piccolo libro del Ranieri "Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi" - Se edizioni, dopo avere letto quella sessantina di pagine tutte d'un fiato, non nascondo d'essere rimasto profondamente deluso. Questo libriccino fu pubblicato la prima volta nel 1880. Ranieri era allora un avvovato settantaquattrenne deputato e socio corrispondente della Crusca. La sua fama era cresciuta di pari passo con quella del grande poeta e pensatore, essendo stato considerato per anni il suo benefattore, protettore e angelo custode. Ma allorché furono pubblicate le lettere che Leopardi spedì negli ultimi anni da Napoli, il Ranieri e tutto il mondo napoletano vennero posti sotto una diversa luce: "Ora il mio principale pensiero é di disporre le cose in modo, ch'io possa sradicarmi di qua al più presto; ed Ella viva sicura che quanto prima mi sarà umanamente possibile, io partirò per Recanati, essendo nel fondo dell'anima impazientissimo di rivederla, oltre il bisogno che ho di fuggire da questi Lazzaroni e Pulcinelli nobili e peblei, tutti ladri e b. f. (bifolchi?) degnissimi di Spagnuoli e di forche" (lettera a Monaldo Leopardi - il padre - spedita da Napoli il 3 Febbraio del 1835 - vedi op. complete ed. Sansoni pag. 1405 - la sottolineatura è mia). Lettere del genere fecero sicuramente arrabbiare non poco il Ranieri. Per dirla col linguaggio secco del Montanelli: "Le lettere degli ultimi anni da Napoli erano piene di taglienti critiche ai napoletani e allo stesso Ranieri che appariva in tutt'altra luce: fatuo, vanitoso, incapace di affetti profondi. Ranieri, che aveva quasi ottant'anni, rispose infuriato con un libro di memorie sul loro sodalizio, da cui vien fuori un Leopardi odioso: querulo, esigente, ipocrita, ingrato e maligno" (Indro Montanelli - Storia d'Italia - 1789 , 1831, vol 4, pag. 386 - RCS). Come al solito, il grande Montanelli, nelle quindici pagine dedicate al grandissimo poeta recanatese riesce a dirci l'essenziale di una vita. In quelle sessanta pagine il Ranieri, oltre che presentare sotto cattiva luce il povero Giacomo, non perdeva occasione di tessere le lodi della sorellina così caritatevole e così altruista, ne si risparmiava in autoincensamenti: sacrifici economici non indifferenti, abnegazione, assistenza continua, e via discorrendo. Tuttavia noi comprendiamo e giustifichiamo la "cattiveria" del Ranieri, che alla finfine s'è preso cura per sette anni (bene o male) di un rudere umano. Perché tale era il grande poeta quando Ranieri da Firenze prima lo portò con sé a Roma e da lì a Napoli e dintorni. Quindi, se da un lato è giusto leggere attentamente le ultime lettere che il Leopardi spedì da Napoli, per meglio conoscere il suo punto di vista su quella gente e quei luoghi, è altrettanto giusto leggere attentamente le numerosissime brevi lettere che il poeta indirizzò al Ranieri. Tuttavia, per potere comprendere ancor meglio il tutto occorre partire da più lontano. Giacomo, dopo aver trascorso 19 anni di intensissimi studi nella bibblioteca paterna, provato nel fisico ma soprattutto nella mente, non vedeva l'ora di scappare dal "natio borgo selvaggio". Ma il padre, relegato anche lui in quella bibblioteca perché, avendo dilapidato quasi del tutto il suo patrimonio, non usciva quasi più di casa, con la scusa dell'affetto paterno teneva legato a sé quel povero ragazzo, unico della famiglia che potesse scambiare con lui in fatto di lettere. Voleva tirarlo su a sua immagine. Ma il Leopardi aveva idee completamente opposte a quelle del padre che era un pedante e un papalino. La madre, Adelaide Antici, che amministrava il patrimonio con rigore, mai ebbe verso i figli slanci d'affetto: era gelida come un ghiacciolo… Giacomo quella prigionia non la sopportava più. Però forse bisognerebbe anche considerare il fatto che egli non aveva alcun senso pratico e non era certo tipo da salotto letterario, cosa che dopo dimostrò ampiamente. Ed il padre tutto questo lo sapeva bene. Inoltre non bisogna sottovalutare il costo di un mantenimento fuori casa di un ventenne: con le ristrettezze economiche imposte dalla madre Adelaide era pressoché impossibile. Tutto questo contribui sicuramente alla "prigionia". Ed ecco che evadeva da quelle mura attraverso l'infinita lettura di libri di ogni genere. La sua immaginazione cresceva di pari passo col forzato esilio. Bastava la vista di una popolana o della figlia del cocchiere di casa per allentare le redini alla fantasia, ed ecco nascere Nerina, Silvia, personaggi immortali perché dotati di quell'anima che, non potendo riversare sul mondo, Giacomo trasferiva nelle sue vive poesie. La grandezza del suo poetare sta tutta qui: nella vita vissuta interamente nei versi. Tutte le sfere dell'anima sua ruotavano attorno alla parola. Musica, pittura, scultura, letteratura, filosofia, dolore, rarissimamente gioia, sentimento, e mille altre cose confluivano nell'incredibile ritmo di quelle poesie, di quelle armonie, di quei quadri, di quelle sculture. Ecco perché poesia viva. Ma il richiamo del mondo era forte. Il ragazzo oramai dotto, voleva conoscere il mondo, voleva far conoscere il suo pensiero e le sue fatiche letterarie. E' commovente l'entusiasmo con il quale scrive la terza lettera a Pietro Giordani (30 Aprile del 1817) in cui sente finalmente un amico. La prima lettera (per farsi conocere) gliel' aveva inviata il 21 Febbraio del '17: poche e sussieguose parole. La seconda, un mese dopo, il 21 Marzo: un fiume di parole, ove fra l'altro arriva a dire: "Io ho grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria, ma…". Ma quello che testimonia la voglia di mondo sta nel finale della lettera, laddove Giacomo accende il legame d'amicizia: "Le sue lettere m'han dato animo. Ho veduto che Ella è un signore da sopportarmi, e da acconciarsi anche ad istruirmi…Mi brillerà il cuore ogni volta che mi giungerà una sua lettera" (Op. cit. pag. 1020). Ma eccoci finalmente alla lettera dell'entusiasmo, quella del 30 Aprile 1817: " Oh quante volte, carissimo e desideratissimo Signor Giordani mio, ho supplicato il cielo che mi facesse trovare un uomo di cuore d'ingegno e di dottrina straordinario, il quale trovato potessi pregare che si degnasse di concedermi l'amicizia sua" (id. pag. 1023). Giordani (ex monaco benedettino ed ex uomo di legge, liberale e filonapoleonico) che era più vecchio di Leopardi di ben cinque lustri, comprese subito la grandezza di Giacomo, e lo incoraggiò molto. Con queste lettere il Leopardi comincia a provare le ali, ma esse sono deboli, atrofizzate, provate. In quelle poche volte che le ha spiegate in ambito paesano gli sono piovuti addosso solo insulti pesanti dai paesani per via della sua oramai arcuata colonna vertebrale. Questo suo aspetto un po' deforme, la sua generale delicatezza, la sua inesperienza del mondo e delle persone non gli saranno certo d'aiuto nel momento in cui lascerà il nido. Una persona così non saprà, non potrà badare a se stessa e sarà costretta a cercare l'appoggio di qualcuno dal carattere forte e conoscitore del mondo. Questi sarà, per l'appunto, Antonio Ranieri, che entrerà in scena nel momento in cui Leopardi decide di mai più tornare a Recanati, a qualunque costo. Ci vorrà però ancora del tempo. La prima evasione, consensiente il padre, avvenne nel 1822. Destinazione Roma. Inutile dire che fu accolto dai vari Angelo Mai, Canova, Cancellieri, e dall'ambiente letterario romano, con sufficienza. L'odiata Recanati cominciò a fargli sentire nostalgia di sé: dopo cinque mesi vi fece ritorno. Vi rimase due anni. Dopo si recò a Milano, via Bologna, presso l'editore Stella che gli aveva proposto di curare l'opera omnia di Cicerone. Ma anche Milano gli parve fredda: vi fu accolto con indifferenza. Bologna invece gli piacque, anche perché fu accolto con calore dal Giordani e dal Brighenti. Ottenne da Stella di lavorare a Bologna, ma il compenso percepito non gli bastava per far fronte alle spese (questo sarà un ritornello che si ripeterà nel corso di tutte le evasioni successive). Per sua fortuna, alla pensione dove alloggiava, un'ex cameriera gli offrì il vitto per tutto il tempo della sua permanenza. Montanelli ci informa che in quel periodo il povero Giacomo, causa il forte freddo, "lavorava dentro un sacco imbottito di piume". Finito il lavoro tornò a Recanati, da cui ripartì per Firenze, ove non si trovò bene. Ritornò a Recanati e poi nuovamente a Firenze. Il 21 Marzo del '30 prese la decisione di non tornare mai più a Recanati: lettera al Vieusseux del 9 Febbraio: "Sono risoluto…a Recanati non ritornare mai più. Non farò distinzioni di mestieri…non guarderò ad umiliazioni; perché non si dà umiliazione o avvilimento maggiore di quello ch'io soffro vivendo in questo centro dell'inciviltà e dell'ignoranza europea". E proprio nell'autunno del 1830 comincia il sodalizio con Ranieri. I due si erano incontrati tre anni prima, ma di sfuggita. Renato Minore, nel suo (da leggere) Leopardi - l'infanzia, le città , gli amori - Ed. Bompiani, così descrive l'inizio del sodalizio: "Giacomo era stato coinvolto dall'interessamento spontaneo (e magari esagerato) di Ranieri alla sua vita e alle sue sventure. Lo aveva colpito la sua sensibilità generosamente profusa nei confronti di un poeta sofferente, sfortunato, disgraziato, in lotta con il mondo che lo tollerava senza comprenderlo…Ranieri, dal canto suo, era molto attratto da esso, per ragioni culturali e affettive…Una molla fu determinante per Giacomo. Superati i trent'anni e in modo tanto sofferto e disperato, sentita prepotente il desiderio di vivere identificato in una forte esperienza affettiva diversa da quelle stabilite fino a quel momento con altre persone…Con Ranieri era tutto diverso. Giacomo si sentiva protetto e, insime, lo proteggeva" (pagg. 115, 116 - op. cit.). In effetti Ranieri, da buon meridionale, era straripante negli affetti, come pure nelle passioni. Era di temperamento sicuramente sanguigno e sprizzava energia da tutti i pori. Era, insomma, tutto l'opposto di Giacomo. Inoltre amava le lettere ed era un uomo di cultura. Chi gratuitamente accusa questo buon napoletano di avere protetto ed aiutato Leopardi per loschi interessi, certamente si sbaglia. Nella gente del sud, tali slanci sono molto comuni. Che avendo scorto la genialità di Giacomo pensasse pure di poter un giorno brillare di luce riflessa, forse è pure pensabile. Ma ciò nulla toglie alla sua generosità. Quanto poi alla descrizione che egli fa del Leopardi nel suo breve libro, sicuramente ci deve essere anche del vero. Ha esagerato forse un po' perché stizzito da quelle lettere napoletane spedite dal suo amico. Fatto sta che il povero Giacomo riusciva a trascinare la propria vita attraverso l'amico Antonio. Partecipava attivamente alle sue avventure galanti, lo consolava quando soffriva per la donna di turno, gli faceva persino da quasi paraninfo. Insomma, fra i due c'era un sincero affetto. Da non trascurare però le pessime condizioni economiche in cui si venne a trovare il Leopardi a Firenze nel '32. Basta leggere le lettere che Giacomo, dalla città toscana, spediva a suo padre. Ma già nella lettera del 17 Marzo '32, da Roma, rappresentava la sua condizione come disperata: "Caro Papà…oggi parto per Firenze. Torno a raccomandarmi a Lei, trovandomi propriamente con l'acqua alla gola…tutti sanno che io non ho nulla" (op.cit. pag. 1379). Nella lettera che scrive al padre il 3/7/'32 da Firenze, dopo aver ricordato al conte Monaldo gli sforzi che ha dovuto sostenere per portare a termine il lavoro con lo Stella ed i mali fisici che ne sono derivati (non era più in gradi di leggere, scrivere e pensare), dopo avergli relazionato sulla improduttività del suo lavoro filologico spedito in mezza Europa (anziché denari ne riceveva articoli di giornali, biografie e traduzioni), chiede "un piccolo assegnamento di dodici scudi al mese" Il 24 Luglio sollecita la somma. Nella lettera del 13 Settembre del '32 parla di cambiali, di richiesta di garanzie per prestiti, di richiesta di denari. Nella lettera del 17 Novemvre parla ancora di cambiali e di prestiti. In pari data scrive alla madre (che a quel tempo amministrava il patrimonio di famiglia come un sergente di ferro) e parla ancora di ristrettezze economiche. Come è facile vedere Leopardi non riusciva a mantenersi. Quei pochi soldi che aveva gli servivano per lo più per curarsi. Gli stenti e le sofferenze aggravavano sempre più le sue già precarie condizioni di salute. Vista dunque in questa prospettiva, la proposta del Ranieri di vivere insieme (lui avrebbe pensato a sostentarlo) fu vista come una zattera di salvataggio lanciata ad un naufrago. E le molte brevi lettere che da Firenze spediva ad Antonio Ranieri devono essere interpretate come il segno di un immenso riconoscimento di generosità verso l'amico. Quando Leopardi dice all'amico concludendo la lettera del 24/11/'32: "Amami, anima mia, e non iscordarti, non iscordarti di me. Addio, infinite volte addio" (id. pag. 1393) - bisogna rendersi conto che una persona che sta annegando si sta rivolgendo al suo salvatore. Da non trascurare poi che in quel periodo, un tale modo di relazionarsi ad un amico era abbastanza frequente. Renato Minore, giustamente sottolinea come "la tremenda paura della solitudine portò Giacomo ad alzare il tono delle sue richieste che erano vere e proprie invocazioni: 'ti sospiro sempre come il Messia'…". Quanto al sospetto che il rapporto con Ranieri potesse essere di tipo omosessuale, Renato Minore dice semplicemente che "non ci sono prove". Ma cosa aggiungerebbe sapere la verità su quel rapporto che tanti sospetti ha alimentato fra persone poco interessate alla letteratura e molto al pettegolezzo? Nulla. Il Montanelli parla di "voci malevole". Lasciamo quindi in pace le anime di Leopardi e di Ranieri. Quando questi nell'autunno del '30 incontra a Firenze un Leopardi disperato, malato e sofferente, dice all'amico che pensava di andare a morire a Recanati: "Leopardi, tu non andri a Recanati! Quel poco onde so di poter disporre, basta a due come ad uno; e, come dono che tu fai a me, e non io a te, non ci separeremo più mai" (A. Ranieri - Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi - ed. Se, pag. 28) - Quando Ranieri pronuncia queste parole è solo un napoletano dal cuore d'oro, che con teatralità (ogni napoletano è un attore nato) rassicura un poverocristo dimostrandogli la cosa di cui aveva sommo bisogno: un po' d'affetto. Nel suo libro il Ranieri descriverà spesso un Leopardi sporco, testardo, irriconoscente, ghiotto di dolci e gelati, e pieno di difetti. Probabilmente c'è un fondo di verità anche in questo. Ma alla fine, quel che conta, e molto - lo abbiamo già detto - è il semplice fatto che Ranieri in qualche modo si prese cura di un infermo per sette lunghi anni. Quanto alle lettere del Leopardi che fecero arrabbiare Ranieri, anche lì c'è un fondo di verità: l'esuberanza a volte eccessiva dei napoletani, la furbizia spinta a volte fino ai limiti della legalità, la prepotente teatralità di quel popolo, non potevano essere comprese da una persona delicata e schiva cresciuta all'ombra del padre in una bibblioteca di paese tagliato fuori dal mondo. Tutto torna. Coloro che accusano Ranieri non si sa bene di cosa, devono essere compresi pure loro: avrebbero voluto che quel grandissimo poeta, pensatore e filosofo che fu Giacomo Leopardi finisse la sua triste vita in maniera più degna. Il genio di Recanati non fu il solo a finire la propria vita in miseria o quasi. Un altro grande genio, Wofgang Amadeus Mozart (di cui proprio oggi 27 Gennaio 2006 cade il 250° anniversario della nascita), morì in povertà dopo una vita di stenti. Le sue ossa furono gettate in una fossa comune. Del Leopardi si conosce almeno la tomba. Ma cosa importa. Il canto che questi due cigni hanno saputo produrre è talmente pieno della loro vita, che per ancora molti secoli esso verrà ascoltato. Quello è Giacomo, e quell'altro è Wolfgang: grandezza, non miseria. Bellezza assoluta.
Caro Giacomo, carissimo passero solitario, cara innocente ginestra, mentre il "fuoco" del Vesuvio ghermiva ed inceneriva il tuo povero corpo, il tuo canto cominciava a diffondersi per ogni dove. Tu, il più solo dei malinconici, sei entrato nei cuori di ognuno di noi che di canto viviamo. Nelle nostre scuole la fiamma della poesia, grazie a te, non si è mai spenta, ed ancora oggi continua ad accendere letterati e poeti. I tuoi versi sono ormai l'inno della fanciullezza di molte generazioni. Il tuo Zibaldone di pensieri è diventato un pozzo profondissimo a cui attingere per letteratura, filologia, psicologia, filosofia, storia della scienza, ecc. La tua sfortuna, caro Giacomo, è stata quella di essere stato tu inattuale. Ma consolati: tutti i grandi hanno avuto riconoscimento postumo. Tu, che tante volte ti sei disprezzato e commiserato, sei divenuto un cemento nazionale: ci hai fatto conoscere da vicino Polinnia, la musa della poesia lirica, ed hai trasformato un popolo di villani in un esercito di poeti. Ma le nostre goffe canzoni sono solo espressione di quell' entusiasmo che colpisce chiunque si lascia afferrare dall'unicità della melodia, dell'armonia e del ritmo delle tue parole. Siamo quindi poeti in quanto vibriamo con le tue vibrazioni, per simpatia. Pensa, Giacomo, se tu avessi usato la tua sofferenza come propellente e ti fossi chiesto con forza "Chi sono io?", avresti dato vita ad una ricerca filosofica e forse mistica che avrebbe portato al divino più anime di un santo. Il Bello dei tuoi versi non può avere radici nella sola disperazione e sofferenza: il profumo del dolore è solo l'aroma più pesante dei tuoi canti. La musica che essi racchiudono ha radici aeree. Essa nasconde quella grande nostalgia dell'Assoluto, della Verità, della Sapienza, che ogni uomo, consapevolmente o meno, ricerca per tutta la vita. Grazie Giacomo, ti amiamo tanto, e che Dio ti abbia in gloria. Con immenso affetto, Natale Missale. |