Montale al cinque per cento
"Non
sono un Leopardi, lascio poco da ardere
ed è già troppo vivere in percentuale.
Vissi al cinque per cento, non aumentate
la dose…"
(Montale - Tutte le poesie - Mondadori, pag. 520)
In epigrafe abbiamo voluto riportare alcuni versi della poesia
Per finire
della raccolta
Diario del '71 e del '72
perché
essa
manifesta l'onestà intellettuale di Eugenio Montale: sapeva di non
essere, nonostante l'assegnazione del premio Nobel, un grande poeta.
Quel cinque per cento è proprio impietoso. Se come poeta Leopardi vale
100, lui vale 5. Non ha nessun riguardo verso se stesso, ma dobbiamo
dire che, dopo avere letto tutte le sue poesie (sono tante e spesso
noiose, ne salviamo il 5%), il giudizio che il poeta esprime su se
stesso è onesto. Ma non gli bastava. In una poesia della raccolta
Quaderno di quattro anni
Montale chiede ai suoi custodi silenziosi
protezione dalla pellicola da quattro soldi che è la sua vita, e
protezione persino dalle Muse che gli si nascondono: "Proteggetemi
/ custodi miei silenziosi… proteggetemi da questa pellicola / da quattro
soldi / che continua a svolgersi: davanti a me / e pretende di
coinvolgermi / come attore o comparsa / non prevista dal copione…
Proteggetemi dalle muse / che vidi appollaiate / o anche dimezzate a
mezzo busto / per nascondersi meglio / dal mio passo di fantasma…
Proteggetemi dalla fama-farsa / che mi ha introdotto nel Larousse
illustrato / per scancellarmi poi / dalla nuova edizione…"
(Op. cit. pag. 628).
La grandezza è un abito pesante per chi ha
spalle deboli ma la vista acuta. E' un cilicio graffiante per chi come
Qoelet posa lo sguardo sulla vanità di ogni cosa. La celebrità è una
luce troppo forte per chi ama vivere nell'ombra. Come uomo Montale
riscuote tutta la nostra ammirazione. Dalle sue poesie salta fuori
imperiosamente la sua figura umana che a stento sopporta quel
pesantissimo Nobel. In esse il filo conduttore è una sorta di
insofferenza verso le cose della vita. Eppure le prime poesie sono vive,
vere, potenti, impressionanti perché ricche di parole parlanti. Ma da un
certo momento in poi eccolo dar vita ad un corposo e stancante zibaldone
di pensieri in strofe. Nulla a che vedere con la profondità filosofica
del più famoso zibaldone leopardiano. Se lì si vola alto, qui si cammina
su terra volutamente arida e si balbetta a bella posta. Si direbbe che,
in una sorta di timidezza poetica, Eugenio Montale non abbia di
proposito voluto aprire completamente le finestre della sua anima e
cantare "canzoni" meno "leggere": "Vieni
qui, facciamo una poesia / che non sappia di nulla / e dica tutto lo
stesso, / e sia come un rigagnolo di suoni / stentati / che si perde tra
sabbie… " (da
Suonatina di pianoforte
della raccolta
Poesie disperse
- op. cit. pag. 791). Lo scafo con cui Eugenio ha scelto di navigare sui
mari della vita ha la stessa consistenza e leggerezza di un bianco osso
di seppia. E' nella bellissima poesia
Riviere
che Montale parla dell' osso di seppia. Qui egli
vive, in ricordati momenti della sua adolescenza, istanti di altissima
poesia.
Gli "Bastano
pochi stocchi d'erbaspada
/ penduli da un ciglione / sul delirio del mare; / o due camelie pallide
/ nei giardini deserti / e un eucalipto biondo che si tuffi / tra
sfrusci e pazzi voli / nella luce…
per essere catturato
come
farfalla in una ragna / di fremiti d'olivi, di
sguardi di girasole
dal suo passato di adolescente
smarrito davanti allo
spettacolo dell'
ampio risucchio
sulla rena dei lidi, mentre presa dalla
febbre del mondo
ogni cosa in se stessa pareva consumarsi…/Oh
allora sballottati / come l'osso di seppia dalle ondate / svanire a poco
a poco…"
Quest'occhio pittorico commosso da ogni cosa, vibrante di poesia e di
Natura viva, si chiuderà presto per far posto a disegni anonimi privi di
ogni slancio, per far posto a semplici pensieri vestiti di versi, per
far posto ad un Montale volutamente spoetato che propone parole di fumo.
Attraverso tali leggere parole voleva uscire, in punta di piedi e con un
briciolo di snobismo e d'ironia, dal tempo e dallo spazio: "…
Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori,
fuggi!" dirà nella
poesia d'apertura di Ossi di Seppia
In
limine. Questa fuga
dai sentieri battuti e dal tempo viene ribadita spessissimo. Sempre
all'inizio della citata raccolta dirà come, a differenza dei
poeti laureati /
che
si
muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati… ,
lui ama muoversi fra cespugli e
terreni erbosi, pozzanghere e ciuffi di canne. E proprio in questa
natura senza pretese che Montale ci mostra a sua insaputa la Bellezza
del creato e la potenza del suo Creatore. Accade per esempio nella
poesia
I limoni: "Qui tocca anche a noi poveri la nostra
parte di ricchezza / ed è l'odore dei limoni… Vedi in questi silenzi in
cui le cose / s'abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo
segreto… " Ma la breve
fuga dal tempo attraverso i profumi e i colori della Natura dura poco,
perché il tempo si insinua in questa contemplazione e ricompare per
riproporre il suo scorrere sui tetti delle case delle città culle delle
vanità, ove l'anima di ognuno si fa amara. I colori dei limoni però
ricatturano l'anima del poeta come fecero i Girasoli con Van Gogh, e le
trombe d'oro della Vita Una, dell'Essere, scuotono
Montale fin dentro alle ossa: "Quando
un giorno da un malchiuso portone / tra gli alberi di una corte / ci si
mostrano i gialli dei limoni; / e il gelo del cuore si sfa, / e in petto
ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d'oro della solarità"
(pagg. 11, 12 op. cit.). La
dorata luce ed il calore del sole danno vita ad ogni cosa, pertanto,
quando suonano le trombe d'oro della solarità ascoltiamo le canzoni
della VITA UNIVERSALE, dell'
ESSERE che dà vita ad ogni ente. E' proprio vero: i poeti, anche quando
si dichiarano totalmente atei, spesso parlano di Dio. Una poesia così
può essere catturata solo dall' oro: dal Divino che muove ogni cosa. "Il
gelo del cuore si sfa" perché esso batte per un istante le ore della
vita eterna dello Spirito piuttosto che quelle della vita di sogno del
corpo. Montale riesce a vedere il Divino nella Natura ma solo per
qualche istante. Esce da una maglia rotta della rete, ma subito dopo si
fa accalappiare da uno dei tantissimi ami della mente e dei sensi che
cercano conferme misurabili. L'odore non è pesabile, né lo è il colore o
il sapore. In quegli istanti di totale abbandono alla Bellezza, Eugenio
dimentica di essere onda e si sente perfetto Oceano, ma basta un alito
di vento che riscuota la cresta spumeggiante ed eccolo di nuovo onda,
persona, maschera disadattata. Eccolo posare lo sguardo su Esterina
(vedi poesia Falsetto)
mentre si abbandona alle braccia del suo divino amico che l'afferra, e
rientrando dal suo abbandono alla Natura osserva la scena
con
lo sguardo di chi si sente ancorato, quasi prigioniero di questa terra:
"Ti
guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra".
Montale si è tagliato le piume delle ali ed è costretto a terra.
Rimetterà le penne ed esse ricresceranno. Lo rifarà fino a che si
stancherà di tagliare e, ancora convinto di essere ancorato alla terra,
smetterà di poetare come potrebbe, e poetando volare.
Ma ancora c'è tempo per la poesia, quella "buona", anche se comincia a
scorgere in sé la monotonia dell'uguaglianza delle giostre d'ore, la
noia dell'esistere. La Natura è stupenda, come una Circe sempre giovane
e bella, nonostante sia ripetitiva nel suo svolgersi e nel suo esistere.
Il filo d'erba però non è mai uguale a quello del giorno prima, come
pure il sole, il mare, i fiumi, le nuvole e tutte le cose animate e non.
La Vita che anima ogni cosa è sempre fresca e presente a Se stessa: non
sa di tempo e di spazio, di gioia e di noia, di notte e di giorni. Essa
esaltandosi nel proprio esser-ci inchioda il tempo in un dilatato
presente che abbraccia i confini di spazio e di tempo e con essi ogni
cosa. Montale non può sentirne l'abbraccio perché troppo occupato a
constatare la sua noia, la sua solitudine, la sua inutile corporalità
votata alla morte. Gli sfugge la Vita. Quella Vita che di tanto in tanto
si mostra prepotentemente in una Natura che vince ogni noia
esistenziale: "Nel
blando / minuto la natura fulminata / atteggia le felici / sue creature,
madre non matrigna / in levità di forme"
(Sarcofaghi, pag. 21 op. cit.). Basterebbe cambiare prospettiva
e osservare
il
mondo non dal solo punto di vista materialistico. Che la vita è una
fiaba, non ci piove. Ma se a dirlo non è un personaggio della stessa
fiaba ma la pura Consapevolezza dell'Essere che di noi è il nocciolo, le
cose cambiano di prospettiva, ed il bellissimo verso di
Altri versi,
quello che dice"
La nostra fiaba brucerà in un lampo"
(pag. 25 op. cit.),
sarà la voce del vero noi e non quella di un corpo che ogni giorno
muore. Non è fruttuoso né sensato porre l'attenzione su ciò che non si
é. Né può sconfiggere la noia di vivere giostre di ore monotone il dire
che la vita è un seguitare una muraglia invalicabile per via dei cocci
di bottiglia in cima: "E
andando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com'è
tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia /
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia"
(pag. 30). Non solo ci creiamo un muro alto e
invalicabile, ma poniamo in cima ad esso cocci aguzzi di vetro che
ammoniscono i nostri corpi delicati: se tentate di scavalcarmi vi taglio
le carni, il vostro essere. Ma il corpo è solo la nostra terra: l'anima
è il cielo. Per essa non ci sono muri che trattengono, né cocci di
bottiglia che tengano, anche se aguzzi e taglienti. Le ali di questa
farfalla sono potenti più di ogni pietra.
Spessissimo Montale si immerge nella Natura e quando lo fa ricorda molto
Holderlin, ma solo relativamente alla solitudine che questa immersione
testimonia. Il poeta tedesco aveva molta più verticalità, molta più
forza centrifuga, molta propensione al Divino. Aveva la fede. Pertanto,
quando Montale parla di girasoli impazziti di luce è grande poeta, ma
non come un'ape che lascia il pungiglione: riesce ad abbattere la parete
dei sensi solo per pochissimi istanti, chiudendo le finestre dell'anima
prima che essa abbia il tempo di volar via. Per Holderlin la Natura è
madre e figlia, viene amata ed ama. Per Montale è solo madre, un
rifugio. Il suo amore pertanto è incompleto e unidirezionale. Se la vita
per Montale è un
lento franamento,
per Holderlin è un essere dell'Essere. Quando Eugenio parla di
bollore della vita fugace
osserva dal punto di vista corporeo,
riducendo il tutto ad un fatto ormonale. E intanto come la favilla di un
tirso brucia la propria vita: "buciare,
/ questo, non altro, è il mio significato"
(pag. 61), oppure "Ogni attimo
bruciava / negli istanti
futuri senza tracce"
(68) oppure ancora "volarono
anni corti come giorni"
(pag. 69), o infine: "Ore
perplesse, brividi / d'una vita che fugge / come acqua fra le dita; /
inafferrati eventi"
(71). Anziché essere la Vita si è un corpo, che pur immerso in Essa e
pieno di Essa, La ignora, e ignorandola non può cogliere alcun senso di
questa esistenza. Il suo esser-ci diventa un essere spazio-temporale più
che un esser Vita. Ma se non si è Vita non si può nemmeno vivere, e la
vita scritta minuscola diventa vana e crudele. A quel punto
l'anima non sa più dare un grido,
e si viene invasi da un vuoto
di cui si sconosce il nome: "ma
dov'è / la lenta processione di stagioni / che fu un'alba infinita e
senza strade, / dov'è la lunga attesa e qual é il nome / del vuoto che
ci invade" (pag. 179
op. cit.
Barche sulla Marna).
E qui, le cose del mondo diventano
mondiglia. Non basta
dire "ho
tanta fede in me"
(pag. 712) quando si crede di essere un corpo già morto appena nato: è
una finta fede in un personaggio improbabile. E la poesia ne risente
fino al punto da creare versi che la dis-prezzino: "La
poesia consiste / nei suoi secoli d'oro, / nel dire sempre peggio / le
stesse cose" (pag.
848). Ma Montale era persona troppo intelligente ed il suo
auto-spoetamento aveva un nome: "Non
amo / essere conficcato nella storia / per quattro versi o poco più. Non
amo / chi sono, ciò che sembro. E' stato tutto / un qui pro quo. E ora
chi n'esce fuori?"
(Op; cit. pag. 568). Montale sentiva in cuor suo d'essere Ben Altro che
un corpo poetante. L' Essere non è l'ente, Montale non è l'Essere, ma
l'ente Ne è portatore e osservatore. E così si è imprigionato in parole
di fumo senza saperne uscir fuori. E pensare che bastava Essere in…
maiuscolo, per dirla con la stessa simpatica ironia che tanto spesso
Montale
soffiò sui suoi versi.
Grazie, Natale Missale.
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