Omero e l'anima
Di Omero si sa poco o
nulla. Gli antichi ritenevano che fosse vissuto ai tempi della guerra
di Troia, e cioè nel 1200 circa a.C. I luoghi più probabili della sua
nascita sono Smirne o Chio. Pindaro (famoso poeta greco che visse a
cavallo fra il V° e il IV° secolo a.C.) propende per Smirne, e ciò è
verosimile, perché questa città era un rinomato centro culturale e
linguistico. Paradossalmente possiamo affermare che di Omero conosciamo
soltanto l'anima, che è tutta racchiusa nelle due grandiose opere
Iliade e Odissea. E ciò, nonostante molti studiosi ritengano
che l'autore di esse non sia una sola persona. Certo, intitolare un
saggio Omero e l'anima per affermare senza alcun pudore di
conoscere l'anima omerica e non avere ancora appurato che cosa egli
intendesse con tale nome, sembra inopportuno. Ma in fin dei conti, un
albero può essere conosciuto solo dai frutti che produce: i frutti sono
testimonianza della vera essenza (leggi anima) dell'albero. E di che
natura sia tale essenza lo diciamo subito. Essa ha radici nel cielo,
perché di natura molto elevata. Non per nulla, ancora oggi, così
come nell'antica Grecia dei grandi filosofi, i suoi due capolavori
vengono studiati nelle scuole di tutto l'occidente. L' Iliade
e l' Odissea sono due poemi epici ricchi di
religiosità, di psicologia, di umanità, di storia, di poesia, di
sentimenti, passioni, di virtù, e molto altro ancora. La grandezza di
Omero sta soprattutto nel fatto di avere ottemperato ai principi cui
deve obbedire, secondo Aristotele, il poeta epico: parlare di sé il meno
posibile. ***************Il nostro poeta riesce a mettersi da parte
completamente, per far posto a quella marea di personaggi, dei,
avvenimenti, ecc. Annullandosi, straripa, esce fuori, va in estasi
poetica. La sua assenza è la testimonianza della sua grandezza.
Tuttavia è meglio affidare ad Aristotele l'apologia del cantore di Troia
e d'Ulisse: "Omero per infinite altre ragioni è degno di lode, ma in
modo specialissimo per questa, che egli è l'unico dei poeti epici il
quale non ignori qual parte il poeta deve assumere nel poema in propria
persona. Il poeta epico deve parlare in persona propria il meno che è
possibile; quando fa codesto, egli non è imitatore (nello
stretto senso della parola). Gli altri poeti entrano sempre in
campo con la propria persona; poco o raro si immedesimano in coloro che
vogliono rapprentare. Omero invece, dopo poche parole come di
presentazione, subito introduce o un uomo o una donna o qualche altro
carattere; nessun personaggio in lui è senza carattere; tutti si
distinguono gli uni dagli altri per il loro carattere"
(Aristotele - Poetica - in Opere Laterza, vol. X, ed. '73, pag.
255). Questo passo apparentemente banale, ci fa capire come Omero
conoscesse a fondo se stesso e gli altri. Chi ha scavato nella propria
interiorità, chi conosce la propria anima, la propria psiche, è in grado
di osservare i mille colori in cui si rivela la luce di ogni essere
umano grazie alla rifrazione operata dal prisma della coscienza, della
consapevolezza. Per potere caratterizzare bene gli altri, bisogna
conoscere tutte le sfumature del proprio carattere; bisogna conoscere i
propri vizi e le proprie virtù; bisogna essersi scavati bene e
conosciuti a fondo. Per tanto, ogni personaggio delle sue opere deve
essere osservato, oltre che come "ritratto" più o meno storico e
fantastico di un eroe o di un dio, anche come un aspetto della
personalità omerica. Ma il discorso di Artistotele non si ferma qui.
Proprio all'inizio della sua Poetica, quando parla delle cause
che hanno dato origine alla poesia (l'imitazione in generale, e
l'imitazione particolare per l'armonia e il ritmo), distingue due classi
di poeti: quelli di animo elevato, e quelli di animo meno elevato.
"Quelli che erano di animo più elevato rappresentavano azioni nobili e
di nobili personaggi, quelli di animo meno elevato rappresentavano
azioni di gente dappoco". Ovviamente, per quello che ha detto di lui
e per quello che ancora dirà questo grandissimo filosofo, Omero fa parte
della prima classe. Lo testimoniano dei, eroi, e i mille altri
personaggi che affollano in un tutto armonico e ritmico i suoi due
poemi.
Ora, a prescindere da
quanto direttamente abbia parlato del concetto di anima, osservando,
anzi studiando i personaggi di Omero è possibile conoscere di essi
profondità, tonalità, qualità, moralità, etica, sapienza, vizi e virtù.
Insomma, i personaggi omerici sono un libro aperto sul concetto di
anima, un passaggio propedeutico per giungere a quelle poche righe che
il sommo poeta ha dedicato all'anima religiosamente e filosoficamente
intesa. Ci riferiamo ai passi dell'Iliade relativi ai funerali che
Achille appronta per Patroclo (Capitolo 23°), ed ai passi dell'Odissea
relativi alla discesa agli inferi di Ulisse (cap. 11). Ma prima di
approfondire tale argomento, concludiamo il discorso che avevamo
cominciato. Molti studiosi, pur ammettendo che nelle opere epiche di
Omero vi siano delle interpolazioni, ritengono che L'Iliade e L'Odissea
siano state scritte da una sola mano, perché "l'unità poetica" nelle due
opere appare assai evidente, perché i caratteri dei personaggi sono
scolpiti tutti allo stesso identico modo, perché i bellissimi poetici
paragoni ricorrono con lo stesso stile nelle due opere. E noi
aggiungiamo, perché basta leggerle per averne la prova. Non
dimentichiamo che lo steso Omero deve averle cantate e perfezionate nel
corso della sua vita diverse volte, e che quest'oralità, alla lettura,
appare uni-voca, senza ombra di dubbio.
Ed eccoci all'anima
secondo Omero. Cominciamo col sottolineare un particolare importante:
tutti gli eroi omerici sono a caccia di gloria imperitura. Pertanto,
quando Ulisse incontrando l'ombra di Achille nell'Ade ascolta quelle
tristi parole pronunciate dall'eroe, bisogna tener conto di questo.
Omero non parla di gente comune, ma di eroi che per tutta la vita hanno
rincorso la fama e la gloria, scolpendo con i propri gesti ciascuno il
proprio monumento psichico, che i grandi poeti epici hanno trasferito
sul marmo della poesia. Giuseppe Raniolo parla dell'eroismo omerico come
di "istinto di grandezza…Se si toglie la favola pura e semplice,
l'Iliade si riduce a questa continua affermazione d'una volontà
istintivamente eroica". Quest'eroismo è "disinteressato e al di sopra
della felicità umana; è la gloria che assopisce la tristezza del vivere;
è l'immortalità che conforta la malinconica coscienza dell'eroe circa il
carattere fugace della sua vita…perciò ogni azione dell'uomo prode è
ispirata e sorretta da questo vigile senso del giudizio dei posteri" (Iliade-Introduzione
- ed. Scolastiche Mondadori, 1953, pag. 8). L'immortalità cui Omero si
riferisce è dunque questa, e non quella di un'anima immortale. Detto
ciò, occorre sottolineare un'altra cosa. La poesia omerica ha tessuto
un'epica talmente grandiosa da far assimilare i suoi eroi a veri e
propri dei. I corpi di alcuni di essi sembrano montagne, la forza
sovrumana di altri fa rizzare i capelli in testa, le passioni sono
talmente forti che sembrano fiumi in piena. Le passioni che muovono gli
eroi dell' Iliade - osserva il Raniolo nella sua introduzione all'
Odissea - "hanno una larghezza e una profondità che stupiscono e, direi
quasi, atterriscono: l'odio e l'amore, la generosità e la vendetta
toccano veramente l'apice delle possibilità umane e si riscaldano d'un
fuoco così ardente, che pare debba bruciare l'anima stessa degli eroi.
Basti pensare alla vendetta di Achille, che incombe a tutta l'armata
greca come un'immagine spaventosa, per capire gli abissi della passione
omerica, i divoranti affetti che eccitano quel mondo di prodi".Tutto è
condotto alle porte del divino: basterebbe bussare ai battenti
dell'Olimpo e Giove, Minerva, Mercurio,Venere, Marte e tutti gli altri
li accoglierebbero come fratelli. Ma questo accade assai di rado: sono
pochi gli umani assunti in cielo. E' su questo sfondo, dunque, che
vanno osservate le ombre inconsistenti dell'Ade proposte da Omero e dal
suo tempo. Senza quei corpi, senza quelle passioni, quella forza, quella
generosità, quella astuzia, quei fantasmi sono del tutto inconsistenti.
Senza quella "divina animalità" portata a livelli impensabili, l'ombra
di Achille deve per forza essere simile a nebbia, triste per la perdita
di un corpo che tutto poteva e faceva. Sì, quelle di Patroclo prima, e
di Achille dopo, sono ombre e non anime immortali. Ma osserviamo bene
questi personaggi in azione nell'Iliade. L'ira di Achille per la morte
del suo caro compagno, la forza e l'agilità dello stesso in battaglia,
la religiosità che mostra durante il rito funebre in onore dello
scomparso, la sensibilità che manifesta alla vista di Priamo vecchio
come suo padre, la generosità con cui gli offre le spoglie mortali di
Ettore, insomma: sono davvero morte tutte le componenti dell'anima di
Achille e di tutti gli altri eroi dei poemi omerici? Le anime di questi
personaggi incredibili non vivono forse nella poesia "immortale" di
Omero? E non possiamo dire lo stesso di Ettore, della sua correttezza,
forza, generosità, patriottismo, affetto per i cari, amore per la
famiglia, ecc..? Sì, quelle ombre che vagano nell'Ade sono fantasmi di
eroi e di persone normali, ma le loro rispettive anime vivranno per
sempre nella psiche collettiva, grazie al genio di Omero. Troppo
scontato? Troppo puerile e banale? No. Stiamo solo dicendo che per
l'uomo greco di quel periodo non è ancora venuto il tempo del
misticismo, dell' intro-versione, della con-versione. Ma certi sciamani,
alcuni solitari portatori di tensione spirituale e slancio religioso,
stanno già facendo esperienza della propria anima, attirando i primi
seguaci. Da qualche parte stanno già sorgendo scuole esoteriche i cui
insegnamenti non sono teorici, ma frutto della esperienza del
caposcuola: sta per nascere la religione in senso moderno, quella che
prevede un Dio creatore e delle anime immortali, di cui, in qualche modo
si è avuta esperienza. Stiamo correndo a grandi passi verso Orfeo e
Dioniso. Ma di ciò parleremo a suo tempo in un altro saggio che
dedicheremo a Erwin Rohde ed alla sua ormai classica opera Psiche,
in cui analizza con dovizia di citazioni il concetto di anima,
partendo proprio dai poemi omerici e fino alla tarda grecità.
Per concludere questo breve saggio, diamo un'occhiatina ad alcuni versi
dell' Iliade e dell'Odissea, in particolare quelli che raccontano i riti
funebri e che espongono il concetto di anima.
Siamo nel libro 23°. Achille piange ancora Patroclo, prepara il
banchetto funebre, sogna il suo amico, dispone per la cremazione dello
stesso, ed infine onora il suo amico morto con i giochi funebri. "Non
distacchiamo per ancor dai cocchi / i corridori; procediam con questi /
a piangere Patròclo, a tributargli / l'onor dovuto ai trapassati. E
quando / avrem del pianto al cor dato il diletto/, / sciolti i
destrieri, appresterem le cene…. / Corser tre volte con le bighe intorno
/ all'estinto, ululando, e ne' lor petti / Destò Teti di pianto alto
desìo". Achille, secondo promessa, darà in pasto ai cani il corpo
di Ettore, troncherà dodici teste di giovani nobili troiani e le metterà
sulla pira funeraria, e poi sacrificherà moltissimi animali: "…Muggian
sotto la scure / molti candidi buoi; molte, belando, / cadaen capre
scannate e pecorelle… il sangue / scorrea d'intorno al morto in larghi
rivi". Tutto questo ci fa conoscere da vicino il culto riservato ai
morti in quel tempo. Esso prevedeva anche offerta al morto di ciocche di
capelli (i Mirmidoni, i guerrieri della Tessaglia che Achille comandava,
lo faranno. Il nostro eroe offrirà tutta la chioma), preghiera ai venti
perché alimentassero il fuoco, banchetti, giochi, raccolta delle ceneri
del defunto. Dopo il banchetto funebre Achille si addormenta " Ed
ecco / comparirgli del misero Patròclo / in vision lo spettro, a lui del
tutto / ne' begli occhi simile e nella voce, / nella statura, nelle
vesti; e tale / sovra il capo gli stette, e così disse: / Tu dormi,
Achille, né di me più pensi; / vivo m'amasti, e morto m'abbandoni. /
Deh! Tosto mi sotterra, onde mi sia / dato nell'Orco penetrar Respinto /
io ne son dalle vane ombre defunte, / né meschiarmi con lor di là dal
fiume / mi si concede. Vagabondo io quindi / m'aggiro intorno alla
magion di Pluto, / Or deh! Porgi la man; ché teco io pianga / anco una
volta; perocché, consunto / dalle fiamme del rogo, a te dall'Orco /
non tornerò più mai…" Achille chiederà a Patroclo di avvicinarsi
perché lo possa abbracciare, ma "…con l'aperte braccia / amoroso
avventossi, e nulla strinse; / ché, stridendo, calò l'ombra sotterra, /
e svanì come fumo…"
Dunque, per Omero non esiste un'anima immortale, ma un'ombra, tenue
come il fumo, che pur avendo le sembianze dell'uomo in vita, può solo
vagare nel regno delle ombre, dove potrà accedere solo dopo i riti
funebri prescritti. Le anime sono vane ombre e nulla più. Achille aprirà
le porte dell'Ade al suo amico con tali riti, la cui conclusione
prevedeva i giochi funebri, che si articolavano in otto gare: 1) la
corsa sul cocchio; 2) il pugilato; 3) la lotta; 4) la corsa a piedi; 5)
la prova delle spade; 6) il lancio del disco; 7) la gara dell'arco; 8)
la prova delle lance. L'ombra di Patroclo può finalmente "meschiarsi"
con tutte le altre ombre dell'Ade, vagando senza meta.
Nel libro XI° dell 'Odissea, Omero farà incontrara ad Ulisse, uno dei
pochissimi scesi in vita nell'Ade, le ombre dei morti. Esse
confermeranno quanto già evinto dall'Iliade. Diamo un'occhiatina anche a
questa avventura sovrumana di Ulisse.
Siamo nel libro XI° dell'Odissea. Lasciata Circe, Ulisse, dopo una
tranquilla navigazione, giunge all'ingreso dell'Ade. Seguendo i consigli
della maga, sacrifica due animali un montone e una pecora), e con il
loro sangue riempie una fossa cubitale. Le ombre dei trapassati si
affollano intorno a lui, ma il nostro eroe, minacciandoli con la spada,
non li lascerà avvicinare al liquido vitale fino a che lo spirito di
Tiresia non si disseterà e non profetizzerà.
"Toccò la nave i gelidi confini, / La 've la gente de' Cimmeri
alberga, / cui nebbia e buio sempiterno involve". I "gelidi
confini" sono quelli, che secondo Omero ed il suo tempo, dividono il
mondo dei viventi da quello delle ombre, ed i Cimmeri erano un popolo
che viveva aldilà dell'oceano e nei pressi dell'Ade. "Ed ecco sorger
della gente morta / dal più cupo dell'Erebo, e assembrarsi / le pallid'
ombre…giovinette…garzoni…verginelle tenere…guerrieri…/ Accorrean quinci
e quindi, e tanti a tondo / aggiravan la fossa, e con tai grida, / ch'io
ne gelai per subitana tema". Il primo ad avvicinarsi fu il
simulacro di Elpènore che sta ancora nel vestibolo dell'Ade perché
nessuno ancora né lo ha pianto, né gli ha dato sepoltura. Prega Ulisse
di provvedere lui a ciò. Poi lo avvicina l'ombra della madre, Anticlèa,
tenuta anche lei lontana dal sangue fino all'arrivo di Tiresia: "…Levossi
al fine../ L'alma tebana di Tiresia, e ratto / mi riconobbe, e disse:
uomo infelice, / perché del sole abbandonati i raggi, / le dimore
inamabili de' morti / scendesti a visitar? Da questa fossa: ti scosta, e
torci in altra parte il brando, / sì ch'io beva del sangue, e il ver ti
narri". Gli dice che Nettuno è con lui adirato per via
dell'accecamento del figlio Polifemo. Gli dice che riavrà Itaca a patto
che, sbarcando in Trinacria, lui e i suoi uomini non molestino i
nitidi montoni e i buoi lucenti del Sole. Gli parla dei Proci
accampati in casa sua e che egli ucciderà con l'astuzia. Lo invita a
sacrificare al dio Nettuno nella sua reggia, dove alla fine di una
vecchiaia serena sopraggiungerà morte tranquilla. Ulisse chiede poi a
Tiresia come mai l'ombra di sua madre non lo degna nemmeno di uno
sguardo e perché non lo riconosce.. L'indovino gli dice che appena avrà
bevuto un po' di sangue, lo riconoscerà e gli parlerà. E' questa una
delle pagine più belle e struggenti di tutta l'Odissea. Non riporteremo
alcun verso volutamente, affinché il lettore riprenda la vecchia Odissea
che ha fra i libri scolastici e vada a rileggere quest'undicesimo libro
e tutto il resto. La madre gli parla della moglie fedele, del figlio
Telemaco che cerca di curare i suoi beni, del padre che vive fra i campi
fuori città coi servi. Solamente riporteremo quella parte che ha
attinenza col tema dell'anima. Ulisse vuole abbracciare l'ombra
della madre, ma per tre volte tenta e per tre volte lo spirito di lei
esce fuori dalle sue braccia. Allora egli chiede alla madre perché lo
sfugga, e lei: "O degli uomini tutti il più felice, / …E' de' mortali
/ tale destin, dacché non son più in vita, / che i muscoli tra sé,
l'ossa ed i nervi / non si congiugan più: tutto consuma / la gran
possanza dell'ardente foco, / come prima le bianche ossa abbandona, / e
vagola per l'aere il nudo spirto".
Dopo il così detto "catalogo delle donne", cioè le ombre delle
eroine del mondo antico (che tutti gli studiosi concordemente ritengono
un'interpolazione), si fa avanti l'ombra di Agamennone: "Si levò
d'Agamennone il fantasma. / Assaggiò appena dell'oscuro sangue, / che
ravvisommi; e dalle tristi ciglia / versava in copia lacrime, e le mani
/ mi stendea di toccarmi invan bramose…" Ulisse chiede la causa
della sua morte, ed egli racconta d'essere stato ucciso da Egisto,
amante di sua moglie Clitennestra (la quale a sua volta sarà uccisa dal
figlio Oreste per vendicare la morte del padre). Come quella di tutti
gli altri eroi incontrati da Ulisse nell'Ade, anche l’ombra di
Agamennone conseva la maestosità di un tempo. Ma è con l'ombra di
Achille che viene messa in discussione tutta la brama di gloria e la
costante sfida alla morte per la fama immortale che serpeggia in tutta
l'Iliade. Non più la gloria, ma la vita innanzitutto: meglio esser
l'ultimo degli sconosciuti, ma vivo, che un eroe morto. Tutto il
discorso di Achille altro non è che un inno alla vita: "Come osasti
calar ne' foschi regni, / degli estinti magion, che altro non sono / che
aeree forme e simulacri ignudi?" Ecco cosa per Omero è l'anima: un'
aerea forma ed un simulacro ignudo. Una forma, cioè, incapace di
governare se stessa, perché in balia del vento, dell'aria,
inconsistente; una vera e propria parvenza di qualcosa: un'ombra che un
corpo scarica a terra come un incidente. Ma tu eri venerato come un dio,
da vivo, gli ricorda Ulisse. E Achille: "Non consolarmi della morte,
…Io pria torrei / servir bifolco per mercede, a cui / scarso e vil cibo
difendesse i giorni, / che nel mondo defunto aver l'impero". Queste
sono le tristi considerazioni del Pelide. La maggior parte degli
studiosi citano questi versi, per indicare il concetto di anima
secondo Omero. A noi sembra che le parole di Achille vogliano
sottolineare anche un'altra cosa importantissima. Omero, attraverso
quest'eroe ormai morto, vuol far capire ai giovani del suo tempo che il
bene più prezioso è la vita; che vanno bene la fama, la gloria,
l'eroismo, ma va altrettanto bene la comune vita mortale di migliaia di
altre persone. Solo chi ha già completamente attraversato la vita può
avere tanta saggezza da poetare in tal modo. Quando Omero metteva in
bocca allo spirito di Achille queste tristi e sconsolate parole, era
vecchio e navigato, era un vecchio saggio. Giuseppe Raniolo, non
sapendosi spiegare come Achille da morto possa dire tali parole, avanza
un'ipotesi simile alla nostra: "La composizione dell'Odissea era
avvenuta nell'età matura di Omero: in quell'età in cui, per quanto si
conoscano di più le asprezze della vita, l'attaccamento a questa è più
geloso…l'uomo maturo, che ha smorzato gli entusiasmi, resta più legato
alla terra". Ulisse incontrerà, fra gli altri, anche Aiace, che rimarrà
sdegnosamente in silenzio, perché risentito con l'amico a cui erano
state assegnate le armi di Achille. Attraverso la figura di tale eroe,
possiamo affermare ancora una volta che le ombre degli eroi omerici
trattengono presso di loro rispettivamente: l'aspetto, la fierezza, il
coraggio, l'astuzia, la forza, insomma il carattere generale. Aiace
nell'Iliade è l'eroe più "monumentale", e tale rimane anche nel regno
delle ombre. Quando le armi di Achille furono assegnate a Ulisse,
impazzì e si uccise. La sua ombra rimane bloccata a quell'episodio, che
meglio di qualunque altro testimonia il suo carattere. Tuttavia, una
caratteristica particolare accumuna tutte le anime degli eroi
trapassati: la tristezza. Sono tutte tristi, ed ognuna racconta i motivi
di tale tristezza ad Ulisse, ad eccezione di quella di Telamonio Aiace.
Per concludere questo breve saggio, diciamo che, se è pur vero che per
Omero l' anima non è che un'ombra triste, attraverso l'eroismo
dei suoi eroi compie una sorta di espansione dell'uomo fisico, tanto da
farlo sembrare quasi un dio in terra. Se le anime di questi eroi sono
tristi, è perché sono convinte che senza attingere al sangue del
sacrificio sono senza volontà, senza memoria, senza forza, senza
alcunché. L'anima viene vista dal ristretto punto di vista del corpo:
Ulisse (corpo) che da vivo scende all'Ade. E' nel discorso di
Achille-ombra che si comincia ad a intravedere il punto di vista
dell'anima, ma solo in prospettiva: la gloria non è poi così importante:
la vita è bella a prescindere da essa. Ma non sono, paradossalmente,
ancora "vive" le anime dei morti, che in qualche modo si muovono,
parlano, pensano, ricordano, provano sentimenti, fanno ragionamenti,
vedono, odono, bevono, ecc. ? Ci stiamo pian piano avvicinando non al
concetto di "anima immortale", ma alla "scoperta" di essa ad opera dei
grandi mistici. Però di questo parleremo un'altra volta.
Grazie, Natale Missale
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