Pavese
Il poeta
"terminale"
"…Immaginavo / Quando afferrando quella
rivoltella, / nella notte che l'ultima illusione / e i terrori mi
avranno abbandonato, / io me l'appoggerò contro una tempia,/ il sussulto
tremendo che darà, / spaccandomi il cervello" .
A diciannove anni, in
una poesia del Gennaio del 1927,
così Cesare Pavese
annunciava già il suo suicidio.
Farà l'elogio dei suicidi
d'amore "quando l'ultima stretta folle s'inonda di sangue"…in una poesia
del 17 Agosto 1927. Il 29 Dicembre dello stesso anno, in un'altra poesia
giovanile, scriverà: "…verrà una notte, forse domani, / che m'accascerò
come te / …/ colla tempia spaccata…".
In una pagina poetica del 21 Ottobre dello
stesso anno tesserà addirittura l'apologia del suicidio: "Ebbene io vi
dico che il suicida è un martire"… Ed il " Gennaio del 1929 dirà ancora:
"Attendendo la morte …mi dibatto nell'ultimo dolore".
La solitudine di Cesare era immensa per
due motivi: 1) perché col suo rimuginare poetico si era costruita una
gabbia d'oro (la sua poesia è dorata, altissimo grido di dolore; 2)
perché un mare di tristezza lo
isolava dal resto del
mondo, a cui poteva avvicinarsi solo coi versi.
Abbiamo voluto cominciare con tante tristi citazioni per mettere in
guardia tutti quei giovani che oppressi da problemi più o meno analoghi
a quelli di questo grandissimo poeta, rimanendo affascinati dai suoi
versi, potrebbero emularne le disgraziate gesta. Il
Gorgo non sta lì
pronto a risucchiare chiunque vi si avvicini. Esso è una creazione
mentale (basta rileggere le citazioni introduttive), una costruzione
fatta dal pensiero e sorretta da una immaginazione "malata". I sogni a
volte si avverano, soprattutto quelli ad occhi aperti. E poi, a chiunque
romanticamente avesse vagheggiato la "sottrazione volontaria dal
commercio del mondo" (così chiama il suicidio il nostro Cesare), diciamo
subito che il loro possibile atto è già stato compiuto dal
Pavese-martire. No, la vita è più forte della morte; l'Essere è più
forte del non-essere. Quindi sognatevi bene
ragazzi contusi dal nulla: sognatevi adagio e grondandi sudore di vita.
La morte ci aspetta paziente nei corpi, ma l'
Essere Puro
che
siamo, e che gioca col corpo e nel corpo, le dà scacco matto. Quest'
Essere Puro
è ciò che noi siamo
prima che il corpo fosse.
E'
stupido credere di essere solo corpo e di farla finita per sempre in
modo violento. Sì, a volte la sofferenza fisica è insopportabile, ed un
malato terminale ha forse il diritto di consegnarsi al suo (?) Essere
qualche mese prima di quando gli tocchi. Ma per quanto concerne la mente
ci risulta che sempre un pensiero può sconfiggere un altro pensiero. La
volontà è sovrana, e
volere è potere. Detto
questo, entriamo nel vivo del nostro breve saggio.
Cesare Pavese nasce a
Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, il 9 Settembre del 1908;
muore suicida nella notte del 29 Agosto del 1950 a Torino, in una camera
dell'albergo Roma. Da notare come il nome di questo albergo è
l'anagramma di quell'
amor
per una donna sempre
desiderato da Cesare e mai provato (Poco prima del suicidio scriverà a
Pierina - che altri non è che Romilda Bollati - "Posso dirti, amore, che
non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco). La vita di
questo poeta-traduttore-scrittore è strettamente legata allo sviluppo
della casa editrice Einaudi.
Dalla
edizione di tale casa editrice abbiamo tratto i brani di poesia citati:
Cesare Pavese - Poesie, ediz. 1998. A chiunque legga le sue poesie non
può sfuggire la costante condanna che Pavese si infligge. La disistima
di sé è evidente: "Pavese sembra scrivere spinto dal disprezzo di se
medesimo. Il Mestiere di vivere,
il
diario che va dal 1935 al 1950, è un monumento all'autodenigrazione,
all'autodistruzione" dirà Roberto Gigliucci.
Noi qui tratteremo del
Pavese poeta, dei suoi versi, del suo mondo poetico. Diciamo subito che,
nonostante la grande tristezza che ci procura, la sua poesia è da noi
amata con la stessa intensità con cui amiamo la poesia del Leopardi. Il
mondo di Cesare è vero anche quando immagina quello che scrive. Il suo
poetare ha un fuoco che divora i suoi stessi versi, è un sacrificio
costante. Non stiamo esagerando, a dircelo è lo stesso poeta in una
poesia del 21 Luglio del '23: "Mi
atterrisce il pensiero che io pure / dovrò un giorno lasciare questa
terra / dove i dolori
stessi mi son cari /
perché spero di renderli nell'arte / … Quando più riardo e più deliro,
oh,
allora / mi si schianti
una vena accanto al cuore / e soffochi così senza rimpianto!
(la sottolineatura è nostra). Pavese sposa i suoi dolori, traendone
concime per la sua arte. E qui non possiamo non cogliere la sublimazione
del dolore che egli riesce a operare nella sua poesia: mai il suo dolore
ci viene offerto in cambio di pietà: rimane sempre esclusivamente suo.
In noi non potrà quindi mai nascere pietà, ma tristezza mitigata da una
musicalità particolarissima del suo cantare. Le tredici sillabe di
moltissime sue poesie sono davvero un melodiare unico che giunge fino
alle ossa e che bene si sposa con un paesaggio che solo così poteva
essere fotografato in tre dimensioni. Ed ecco
le ragazze piegate / danno un rapido
sguardo ai capelli scomposti.
Oppure:
è
invecchiato l'amico e non basta più a sé;
o ancora
Il
suo corpo, salato di schiuma, grondava / un sudore solare.
Poco
importa se quest'uomo sudato è un carcerato che occupa la sua stessa
cella nel periodo di confino a Brancalone in Calabria: la poesia non può
essere incarcerata. Quando descrive persone e paesaggi verseggiando in
tal modo dà un
tempo
musicale personalissimo al proprio canto. Ogni
poeta ha il suo. Questo è del solo Pavese ed è stato frutto di ricerca e
di studio (niente s'improvvisa), per trovare
il
ritmo interiore della
sua
fantasia. Ritmavo le mie poesie mugolando,
dirà Pavese ne
Il
mestiere di poeta (a proposito di "Lavorare stanca").
Nello stesso lavoro darà la chiave di lettura del suo stile:
Il mio gusto voleva confusamente un'espressione
essenziale di fatti essenziali.
Pavese era alla ricerca di una
poesia-racconto, una poesia narrativa.
Dichiara di avere fatto molti tentativi prima di
giungervi in
I mari del Sud.
Ma
siccome Cesare considerava
ogni
specie di lingua letteraria come un corpo cristallizzato e morto,
decise
che
soltanto a colpi di trasposizioni e d'innesti
dall'uso parlato, tecnico e dialettale
poteva
nuovamente
far scorrere il sangue e vivere la vita.
Fu così che
si costruì un
modo
di esprimere aderente, immediato, essenziale.
E Tutto questo avveniva attraverso un totale cedimento all'oggetto da
narrare. E' indubbio che Pavese cantasse: le sue poesie hanno una
musicalità che difficilmente potrà essere trovata in altri poeti. Quando
mugugnava per ritmare le
sue poesie era alla ricerca di quella musicalità che, unità alla
essenzialità, poteva rendere i mille aspetti dell'oggetto narrato. E'
per questo che sicuramente Pavese è amato molto dai musicisti.
Ma a
volte suscitava in se una
commozione pittorica
ed al centro di essa lasciava operare il suo personaggio, il suo
oggetto.
Detto
questo, non possiamo fare a meno di supporre che in questa affannosa
ricerca è possibile "vedere" le doglie di un particolare parto: la
grande solitudine di Cesare premeva contro le pareti della sua anima, ed
ogni poesia, di tale solitudine, doveva rappresentare un disagio, una
sofferenza
veri, essenziali
nella loro esposizione.
In
A proposito di certe poesie non ancora scritte,
Pavese dirà che
la noia e l'insoddisfazione, è la norma
prima di qualunque scoperta poetica, piccola o grande.
E dirà anche che
l'immagine non è affatto essa stessa l'argomento del racconto. Passerà
dunque da una descrizione di una realtà non più naturalistica, ma
simbolica. Ecco che
ne
I mari del Sud,
poesia introduttiva della raccolta
Lavorare stanca,
Pavese comincia a parlare di sé parlando
dei suoi. Comincia raccontando dei suoi parenti tutte le cose che lui
non ha: forza, virilità, sicurezza, statura, ecc. -
Mio cugino è un gigante vestito di bianco / che si muove pacato,
abbronzato nel volto, / taciturno…/ Mio cugino è tornato, finita la
guerra, / gigantesco, fra i pochi…Mio cugino ha una faccia recisa…
Ma
è con Antenati
che dopo avere parlato della propria pochezza,
dopo avere cominciato la interminabile disistima presente in moltissime
poesie: "Stupefatto
del mondo mi giunse un'età / che tiravo gran pugni nell'aria e piangevo
da solo. / Ascoltare i discorsi di uomini e donne / non sapendo
rispondere, è poca allegria. / Ma anche questa è passata: non sono più
solo / e, se non so rispondere, so farne a meno. / Ho trovato compagni
trovando me stesso"- è
con tale poesia che comincia la fuga.
Certo,
l'affermazione non sono più solo
è di una tristezza infinita cantata da un giovane ventiquattrenne che ha
per compagno soltanto se stesso. E' la prima tremenda dichiarazione di
solitudine di Cesare. Ed ecco la fuga: "Ho
scoperto che,
prima di nascere, sono
vissuto / sempre in uomini saldi, signori di sé /…: A pensar questa
gente mi sento più forte / che a guardare lo specchio gonfiando le
spalle…". Le proprie
radici sono buone, ma lui, albero solitario, non farà mai parte del
bosco degli antenati.
Lui
ha scelto la solitudine, l'ha sposata per poter distillare quel dolore
da immettere nella sua arte, ed è divenuto
poeta terminale
proprio in quel momento: il cancro dell'autoannientamento ha prodotto
metastasi il giorno di
tale sposalizio. Ecco perché qualifica martiri i suicidi: sapeva
benissimo, sin dal primo momento, di dover andare incontro
all'autodistruzione. La gabbia era pronta, e da lì non sarebbe
uscito che da morto. "Si
era creato con gli anni, un sistema di pensieri e di principi così
intricato e inesorabile, da vietargli l'attuazione della realtà più
semplice: e quanto più proibita e impossibile si faceva quella semplice
realtà, tanto più profondo in lui diventava il desiderio di
conquistarla, aggrovigliandosi e ramificando come una vegetazione
tortuosa e soffocante. Era, qualche volta, così triste, e noi avremmo
pur voluto venirgli in aiuto: ma non ci permise mai una parola pietosa,
un cenno di consolazione…" (Natalia Ginzburg, 1957 - citata da Roberto
Gigliucci in Storia generale della letteratura italiana, vol XIII pag.
516 - Motta Editore). La sua vita a questo punto può essere considerata
come il rovescio del ricamo della sua poesia: alla semplicità ed
essenzialità dei suoi versi non poteva che corrispondere un groviglio di
"fili" nella parte sotterranea, nascosta del suo vivere. Il suo
osservare la vita per coglierne i canti, il suo respirare i mattini, il
suo raccontare il ragazzo, l'eremita, la prostituta, i prati le colline
i monti il cielo la nebbia e mille altre cose comportava un prezzo da
pagare: la solitudine. Ci verrebbe da ipotizzare che i suoi desideri
fossero come frecce scagliate ma trattenute da un laccio: era persona
troppo intelligente per non capire quanto gli succedeva nella psiche.
Tornando al mittente, tali dardi l'avrebbero punto, e da ogni ferita la
linfa vitale sarebbe colata sulla sua poesia del momento.
Così come rimane
asciutto davanti ai suoi drammi, la sua poesia bandendo ogni commozione
denota la stessa asciuttezza. A volte i suoi versi sembrano quasi
spietati: non concedono nulla, sono ridotti all'osso, come privi di
vita, ma essudano un grande dolore, e si sente.
Il
verso ruba ogni protagonismo all'oggetto trattato:
"I
vestiti diventano vento le sere di marzo" (Una
stagione, 1933);
"Basta un po' di silenzio e ogni cosa si ferma /
nel suo luogo reale, così com'è fermo il mio corpo…Ogni cosa, nel buio,
la posso sapere / come so che il mio sangue trascorre le vene"
(Mania
di solitudine, '33); "Non
si vede a quest'ora che donne. Le donne non fumano / e non bevono, sanno
soltanto fermarsi nel sole / e riceverlo tiepido addosso, come fossero
frutta (Grappa
a settembre, '34); "C'è
un silenzio che dura: sulle piante e sui colli"
(La
terra e la morte,
'45). Versi secchi e asciutti che lasciano non solo vedere le vene che
scorrono in essi, offrono pure lo scorrere del sangue che li percorre.
Un circolo che partendo dal cuore al cuore si conclude. Ora, questa è la
vita di ogni cosa: un circolare di VITA attraverso le vene: il miracolo
dell' Essere Puro che diviene ente, corpo, cosa. Ma anziché celebrare
questa Vita prodigiosa che muove ogni cosa e che non può avere altro
nome che DIO, sì, quel Dio che paradossalmente si vorrebbe morto da un
paio di secoli! - anziché cantare il miracolo dell'esistenza, ci si
sofferma sulla circolarità dei corpi, sulla loro fatale fine. Il corpo
diventa il perno attorno a cui dovrebbe girare la giostra del mondo. Che
grande stoltezza! Ma il corpo è un ammasso di cibo! Il corpo non potrà
mai dire Io Sono, non potrà mai sapere di essere: solo l'
Essere sa di Essere.
"Prima che Abramo fosse Io Sono", diceva il Maestro Gesù, ed "Io Sono" è
il nome del Dio di Mosé in Esodo. Pavese non ha messo le ali come un
Tagore, Un Rilke, un Dante. Un profondo nichilismo ne ha impedito la
crescita, ma la sua poesia è stata più forte del nulla, e sfidandolo, ha
ricercato il Bello persino nel dolore più profondo: essa
è alta perché i versi di
Cesare Pavese sono ali senza corpo
che
volano alto e che si posano sulle cose e le persone del mondo in cerca
di un corpo da fare volare. Il suo era inadatto, a suo dire. Il
lieve sciacquìo d'ogni gesto
è un battito d'ali; se
la
collina è percorsa da brani di nebbia è un battito d'ali;
'e lo stesso se
le membra ritrovano l'urto del sangue.
Ali disperate perché
Cesare è ormai solo, senza neanche più se stesso (solo,
senza neanche più me
stesso dirà il 23 Giugno del '28;
La lunga macerante solitudine … Io sono
solo in mezzo all'universo…
Alle lacrime il mondo non risponde…
dirà nel Febbraio del 29; e
solo continuerà ad essere fino a quell'anno cinquanta da cui si
staccherà tragicamente, nonostante i
suicidi pallidi siano
folli ancora di amore per la vita
(Giugno '29). Il suo corpo era ormai un cadavere e un resto di troppi
risvegli… un avanzo di troppi risvegli.
Non rimaneva pertanto che scrivere una poesia da
morti. Sì,
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
(poesia scritta per Doris Dowling)
è una poesia partorita
il 22 Marzo del 1950 da un uomo oramai spento:
Verrà la morte e avrà i
tuoi occhi - / Questa
morte che ci accompagna / Dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come
un vecchio rimorso / o un vizio assurdo. I tuoi occhi / saranno una vana
parola, / un grido taciuto, un silenzio. / … Per tutti la morte ha uno
sguardo. / Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sarà come smettere un
vizio / … scenderemo nel gorgo muti.
Che il nostro amore e la nostra compassione ti
siano di conforto, Cesare. Dio è le VITA.
Grazie, Natale Missale
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