Salvatore Quasimodo Se Dante è la Forza della poesia; se Leopardi è la tristezza della poesia; se Petrarca ne è la superficialità; Foscolo, il sangue; Pascoli, la malinconia; Carducci, la sobrietà; Dannunzio, la pelle; Quasimodo, della poesia, è l' anima. Solo essa può dar vita al Bello, perché, nonostante oramai sia al servizio del corpo, conosce l'Amore, la Saggezza ed il Potere che ne decretarono il fiat. Il corpo ne è un lontano riflesso. Il Paradiso perduto spinge ogni anima al canto, ma non tutti hanno il dono dell'ugola d'oro. La maggior parte di noi ha voce di cornacchia (con tutto il rispetto per tale intelligente volatile), e quando sente cantare un usignolo, un passero solitario, un canarino o un verdone piccolo e insignificante si accende di ammirazione. Ma quando ad avere voce di cornacchia è un cosiddetto poeta patentato, quei piccoli canterini sono solo da non considerare: la voce ufficiale, il canto vero è il loro cra! cra! cra! Guai ad esser poeti senza essere passati dalla strada maestra che conduce alle lettere. Guai essere di umili ed oneste origini. Guai non avere la erre moscia e non far parte di particolari circoli in cui la poesia si riduce a chiacchiera. Guai ad essere autodidatta. Ebbene, Quasimodo, di cui mi onoro di essere conterraneo, era tutto questo: s'era fatto da sé, non aveva la erre moscia, amava fare poesia piuttosto che chiacchierarne, non aveva illustri natali. Egli era un uomo libero e vero. Libero, perché non costretto da mode e tendenze collettive imposte quasi dai caporioni. Vero, perché i suoi versi odorano di realtà interiore ed esteriore, non sono fiori di carta ma fiori d'arancio profumatissimi. Qualche decennio dopo la guerra, nel 1956, nel suo breve discorso sulla poesia, che apparve come appendice alla raccolta Il falso e vero verde, Quasimodo sottolineava come la critica avesse preferito "soluzioni intelletuali del processo poetico: nei simboli e nei barocchi petrarcheschi ha creduto di individuare le persone poetiche, l'esistere della parola formante. Ma la letteratura 'si riflette', mentre la poesia 'si fa'. Il poeta non esiste come partecipazione letteraria se non dopo la sua esperienza di 'irregolare'…Il poeta modifica il mondo con la sua libertà e verità" (Quasimodo - tutte le poesie - Mondadori ed. 1968, pag. 258 - la sottolineatura è mia). In queste poche frasi c'è tutto Quasimodo, un poeta nato dall'uomo che lui era: non si può essere poeti prima che uomini. Omero nasce prima della civiltà greca, è proprio lui che la forma. Non basta verseggiare per essere poeti: occorrono i contenuti, non solo la voce e la sua cadenza. Solo un vero poeta poteva accorgersi che tutti quelli che gli ronzavano intorno col pedigree di verseggiatori e cantori non erano poeti veri, ma quaquaraquà. Erano privi di "contenuto": ecco la grave parola, dice Quasimodo e aggiunge "Il poeta non 'dice' ma riassume la propria anima e la propria conoscenza, e fa 'esistere' questi suoi segreti, costringendoli dall'anonimo alla persona". Ecco perché abbiamo intitolato quasto breve saggio Quasimodo - l'anima della poesia: è proprio lui uomo e non solo poeta ad esserlo. Ma non lo dice solo velatamente. Poco dopo lo dice apertamente: la poesia è l'uomo. Il gusto e il mestiere dei critici e dei falsi poeti, fatti d'invenzioni piuttosto che di vero, non possono affrontare la poesia, "perché la poesia non 'misura' buone invenzioni, non essendo impegno della menzogna, ma della verità" (Id). Parole forti queste, ed il loro contenuto lo condividiamo tutto, perché nulla è cambiato nel panorama letterario italiano e forse non solo. Anzi, oggi è ancora peggio, perché per essere vero poeta o scrittore in genere devi possedere due patenti: quella di nichilista e quella di appartenenza a questo o quel partito politico. Ecco perché la menzogna avanza, e con essa il nulla. Quanti fiori di carta! Innumerevoli "industrie" li producono e poi dopo averli spruzzati con disgustosi odori sintetici li portano al mercato dei fiori per venderli a plagiati poveracci. Ed ecco tristi monologhi cosiddetti poetici che appena scalfiscono la pelle. No, ha ragione Quasimodo, la poesia (nel suo tempo era d'avanguardia) non deve monologare, ma dialogare. Ma questa affermazione non è una teoria, un'idea, è frutto di vissuto: la poesia di Totò Quasimodo, quando nasceva toccava fin dentro le ossa il suo autore, perché nasceva dal più profondo della sua anima esiliata da un Eden perduto di cui divenne metafora la Sicilia; e se qualcosa nasce dall'anima non può che parlare ad altre anime: dialogo vero e profondo.
Non insegnano, i poeti, che a vivere. Sì, i poeti non insegnano che a
vivere, devono saper condurre a termine, portare a compimento la loro
Grande Opera: trasformare i "rumori della vita" in canti. Per fare
questo devono avere già
in loro la materia
prima che purificata e trasformata produrrà l'
oro. Tale materia
prima è un
canto che vuol essere cantato,
cioè
la stessa poesia.
Non è un semplice gioco di parole: poeti si nasce. La poesia non è
oggetto di poetamento, ma soggetto: essa stessa si scrive, quindi o ce
l'hai dentro o non ce l'hai. Quasimodo non solo ce l'aveva dentro ma la
vedeva ovunque, più o meno come il grande Borges, l'
anima di
Buenos Aires. Il poeta argentino
riusciva a scorgere canti in ogni angolo della sua splendida città, ed
attraverso il suo atanor poetico trasmutava la bellezza delle pietre,
degli alberi, dei balconi, di un portone, di un pozzo, di un tramonto,
di una qualsiasi cosa in
canto. Lo stesso ha
fatto Quasimodo: ha raccolto rugiada di bellezza da ogni cosa, e
attraverso una possente distillazione ne ha ottenuto
parole vive,
canto. Era un alchimista nato. Non aveva
frequentato nessuna scuola. La Vita era stata suo unico guru. Se ci si
può permettere il paradosso, aveva toccato la parte spirituale dei
sentimenti, quella più alta, pura. E ciò è importante, perché lo
distingue da tutti gli altri poeti di quel periodo, gli
ermetisti,
quelle stesse persone (tranne qualche eccezione), che pur facendo lo
stesso "mestiere", non capirono mai perché il Nobel per la letteratura
fosse assegnato a lui e non a qualcun altro proveniente da "scuole
regolari". Non potevano capire, perché Quasimodo era una
Voce
cantante, mentre gli agli erano
parole.
La sua Voce era "il cuore della sua razza":
"Io
non ho che te, / cuore della mia razza, / che sei un rosaio di peschi e
melograni / che odora,
la sera,
da tutte le terre / ove poso il mio capo tra
sogni" (da
Una voce -
Quasimodo - Tutte le poesie - Mondadori, Oscar classici 1995, pag. 420).
"Ogni
cosa è smarrita / e non ha che parole al vento"
continuava, ma ad accorgersene ero il solo, perché,
mentre gli altri parlavano delle cose smarrite, il non-essere, lui,
unico, cantava il senso di tale smarrimento: il Paradiso perduto. Grande
anima è quella smarrita di chi insegue il vento ladro di ogni cosa, e le
poesie di Quasimodo sono tutti tentativi di rivitalizzazione d'un
passato morto allo spazio tempo ma non all'essere che tutto racchiude in
silenzi contratti. Ogni poesia è un'esplosione di vita, un'affermazione
di un presente che sta oltre gli spazi ed i giorni, un canto perpetuo
che vive non nel ricordo, ma nel suo esser canto nei fatti divenuti
parole. La poesia di Quasimodo non è dunque solo "assoluto linguaggio
dell'anima"(Donato Valli), ma è anche soggetto del suo essere. Nella
striminzita pagina che il Valli dedica a questo grandissimo poeta nel
volume XIII della Storia generale della Letteratura Italiana della
Federico Motta Editore, alla pagina 328 leggiamo: "Quasimodo…rimane
sempre ai margini degli schemi e delle ideologie estetiche. Infatti egli
è un ermetico senza dottrina, d'istinto. Tutto il bagaglio culturale,
tutto il supporto teorico di filosofie esoteriche, orfiche, romantiche,
gli fu estraneo, mentre non gli furono estranei il rigore della parola,
l'essenzialità del linguaggio, la purezza dello stile, la
incorruttibile, cristallina trasparenza delle immagini".
Ebbene, queste parole fanno pensare a
qualcuno che tiene più alla cornice che al quadro. Anziché ascoltare il
canto e parlare di esso, il Valli sembra dispiacersi del fatto che
quella poesia non sia frutto di giusti salotti e correnti di pensiero.
Queste sue due frasette sembrano più un rimprovero che un commento
all'opera. E mentre la miope nostrana critica si chiede ancora come mai
gli sia stato assegnato, il 10 Dicembre 1959, il premio Nobel per la
letteratura (La candidatura era stata avanzata da quei
due letterati cattedratici e dalla buona
vista che rispondono ai nomi di Carlo Bo e Francesco Flora), nel 1967
l'Università
di Oxford, i cui studiosi guardavano più il
quadro che la cornice, conferiva a Quasimodo la laurea
honoris
causa, dopo
quella che nel 1960 gli aveva già conferito l'Università di Messina. La
poesia di Quasimodo entrava prepotentemente nella storia della
letteraruta mondiale ufficialmente, dopo che traduttori di mezzo mondo
(oggi è tradotto in quaranta lingue) l'avevano già inserita di fatto.
Ne la
notte della poesia mondiale
si era accesa
una canzone, per dirla parafrasando il
verso d'inizio de
Il colore del desiderio
della raccolta
Poesie
disperse: "S'accese, ne la notte, una canzone"
. Era l'astro Quasimodo, che, prendendo sempre a
prestito un altro verso di questa poesia, può essere qualificato "umile
come sandalo d'asceta".
Ma
la luce di questa stella s'era accesa forse già quando, cambiando
l'accento al suo cognome, che in origine era parola piana (da Quasimòdo
a Quasìmodo),
aveva detto sì
alla poesia. Ma la sua umiltà non è da ricercare nel fatto che avesse
frequentato un Istituto Tecnico anziché un liceo, né va ricercata nel
mancato conseguimento della laurea nella modestissima facoltà di Agraria
(studi non ultimati per precarie condizioni economiche), e nemmeno va
ricercata nei tanti mestieri che ha dovuto fare per sopravvivere
(disegnatore tecnico, commesso in un negozio di ferramenta, impiegato
alla Rinascente, geometra straordinario presso il Ministero Lavori
Pubblici). No, la sua umiltà è figlia della sua poesia, ed è tutta in
quel totale annullarsi dinanzi all'irrompere di versi totalizzanti:
Quasimodo diventa uno con la poesia, come il mistico diviene uno col
Divino. Ed allora ci piace vedere in questo sciogliersi nei "propri"
versi una sorta di misticismo poetico. E qui nasce la forza dei suoi
versi, quella serena, calma, chiara forza dell'acqua che scorre. E
Quando questo mistico-poeta realizza l'unità con la Poesia, col Bello,
con un aspetto del Divino, si sente vivo, e vivi fa sentire i suoi
lettori: "E
quel gettarmi alla terra, / quel gridare alto il nome nel silenzio, /
era dolcezza di sentirmi vivo" (da
Mai ti
vinse notte così chiara - dalla raccolta
Ed è
subito sera). Allora, "tutto gli sa di
miracolo". Ma la natura che tali miracoli propone, lo inchioda
contemporaneamente a quella sua appassente terrestrità che cozza con
l'inconscia intuizione di quello spirito che lo anima e che lo chiama
coi canti della poesia. Ma è la parte corporale che risponde alla
chiamata, e che traduce la nostalgia del perduto paradiso in dolore di
cose lontane. Grazie, Natale Missale |