Schopenhauer e l'oriente

 

Nel 1922, Sarvepalli Radhakrishnan ("già presidente della Repubblica indiana, docente di filosofia nell'Università di Calcutta e socio di numerose accademie orientali e occidentali"), nel capitolo VII del volume primo della sua monumentale opera La filosofia indiana, nel primo paragrafo (il Buddhismo antico) scriveva: La moderna filosofia pessimista tedesca, quella cioè di Schopenhauer e di Hartmann, è soltanto una forma riveduta del buddhismo antico; si dice, talvolta, che sia poco più di un buddhismo volgarizzato. (Pag. 340 ediz. Vidya).  Noi condividiamo tale opinione e pensiamo che lo stesso debba fare chiunque abbia letto testi buddhisti e Veda.
Pertanto, al pensiero di questo filosofo noi riconosciamo pochissima originalità. Il grande merito che gli riconosciamo è solo quello di avere contribuito (insieme alla letteratura romantica) alla divulgazione dell'induismo e del buddhismo in occidente.
"Buddha, Eckart e io insegniamo nella sostanza la stessa cosa" dirà Schopenhauer (scritti postumi), ma quello che dice  è una grande bugia, perché non basta ripetere più o meno approssimativamente quello che dice il Buddha per essere un maestro di saggezza, né è sufficiente dare il nome Atman al proprio cane per potere insegnare la via, e nemmeno può bastare tenere in bella mostra su un mobile del salotto di casa una bella statua dell' Illuminato per autoproclamarsi illuminato.
Giovanni Gurisatti la pensa più o meno allo stesso modo (vedi il suo saggio  Schopenhauer e l'India in Artur Schopenhauer - Il mio oriente - ediz. Adelfi, a cura dello stesso). Non Basta dire Io Sono Quello (Tat Tvam Asi) per essere Buddha, occorre realizzarlo. La compassione del Buddha  non è un fatto mentale, ma naturale conseguenza della sua esplosione come individualità. Quando pronuncia i suoi famosi discorsi, il Buddha non è più il principe Siddharta, ma quel Silenzio da cui nascono tutte le parole, quell'Essenza da cui nascono tutti i corpi, quel Nulla che non è il niente dei nichilisti, ma quello zero Kether cabbalistico, quella porta sull'  INDEFINIBILE da cui scaturisce la LUCE che tutto sostiene. La filosofia di Schopenhauer, per il solo fatto di essere pessimista, nonostante sia fortemente debitrice del buddhismo, si allontana da esso anni luce.
E' davvero un
  peccato che Nietzsche si sia tuffato nel Nirvana del Buddha attraverso Schopenhauer e non direttamente tramite gli insegnamenti dell' Illuminato, perché forse, anziché creare quella mostruosità detta Nichilismo avrebbe dato vita a ben altro, ed invece di divenire un filosofo picconatore sarebbe diventato un gran mistico con grandi benefici per tutta l'umanità.
Negli scritti di Schopenhauer (
L'arte di conoscere se stessi) leggiamo:
volere il meno possibile e conoscere il più possibile è la massima  che ha guidato la mia vita. Sì, volere il meno possibile è molto utile per annientare l'ego, ma "conoscere il più possibile" equivale a somministrare vitamine e proteine in dosi da cavallo a quello stesso ego! Chi è che vuol conoscere il più possibile? L'ego. La conoscenza, quella vera, sostituisce completamente l'ego; il corpo e la mente di chi la proclama sono solo trasmettitori; essa viene dall' Essere puro, dal Silenzio, da Dio, dallo Spirito Santo, o chiamatelo come volete. La sofferenza del mondo non si supera negandola, mettendo la testa sotto la sabbia, rifiutando il mondo che la elargisce come un tremendo vaso di Pandora. Il pessimismo della filosofia di Schopenhauer non è per niente una soluzione, né filosofica né mistica, perché egli è un filosofo atipico (ha preso in prestito dal misticismo) ed un mistico mancato (non ha capito l'essenza del messaggio dei Veda e del Buddha). Questo filosofo gioca a fare il saggio, ma dai suoi scritti il profumo della saggezza non emana. Egli manca di autorità, di quella autorità che può avere soltanto chi ha sfiorato le vesti del divino. Il profumo di saggezza dei Veda e del Buddha viene dall'autorità, e l'autorità è frutto di realizzazione. Schopenhauer ha commesso l'errore di spalmare la saggezza con pensieri orizzontali, e così facendo alla verticalità del misticismo ha tolto ogni slancio. Nessun lettore di Schopenhauer può innamorarsi del divino; tutti i lettori dei Veda o di Buddha o del Vedanta, invece, per l' Assoluto si prendono una cotta irreversibile. Il nostro filosofo è stato fulminato dai concetti delle religioni orientali, ma non dalla loro essenza: ha visto l'albero, ma non concepisce la Linfa che lo mantiene in vita e lo rende così bello.
"Il mondo è la mia rappresentazione" : è con queste parole che Schopenhauer inizia la sua opera più importante che è Il mondo come volontà e rappresentazione (Ed. Bur pag. 123, vol. 1°). "Il mondo è la mia volontà", dirà poco dopo. Nella Chiandogya-Upanisad (Terza lettura, XV, 1, pag. 249, ediz. Boringhieri, a cura di Pio Filippani Ronconi leggiamo): "Tutto quanto esiste è Brahman…l'uomo è materiato di volontà; allorché l'uomo abbandona la vita diviene ciò che in fatto di volontà ha concepito in questo mondo. Bisogna pertanto che eserciti la sua volontà".  In XV, 4 viene detto: "Sorgente di ogni attività, di ogni desiderio, di tutte le percezioni di odore e di gusto, abbracciante tutto ciò che è, muto, indifferente, è questo Sé, che è dentro il mio cuore. Questo è lo stesso Brahman…" Ma la Mundaka-Upanisad (II,V- pag. 660 opera citata) avverte che solo "con la verità, l'ascesi, la pura conoscenza, la costante brahmanica condotta si può cogliere questo atman. Fatto di luce, puro, Egli risiede nel nostro corpo. Lo veggono gli asceti allorché hanno annichilito i propri limiti".  Questo Atman è concepito come Luce, un punto infinitesimo di luce che come un proiettore proietta il mondo su uno schermo. Nonostante Schopenhauer si affanni a nascondere i debiti che ha con le Upanisad e col buddhismo, affermando che le sue teorie sono sue e che il Buddha e i Veda insegnano le sue stesse cose (sic!), queste infinitesimi frammenti upanisanici provano il contrario. Avrebbe fatto meglio a dichiarare apertamente di essere stato folgorato dalle religioni orientali e di avere rielaborato quei concetti in forma filosofica apprezzabile. Non può dire, come invece dice nell'introduzione alla prima edizione della sua citata opera: "…io, se non suonasse troppo superbo, vorrei affermare che ciascuna delle singole e sconnesse massime che costituiscono le Upanisad  si potrebbe dedurre come conseguenza del pensiero che sarà da me esposto, benché quest'ultimo non si possa affatto trovare anche, viceversa, già lì".   Non può dirlo, perché la sua opera è un modestissimo "selvatico" cresciuto ai piedi di quell' immenso albero da frutti (leggi massime per nulla sconnesse) che chiamasi Upanisad. Gli asceti che le hanno dettate o scritte, hanno parlato di Sé, Brahman, Atman e mille altre "sconnessioni" dopo avere annichilito i propri limiti . E poiché non ci risulta (basta leggere le sue opere) che Schopenhauer abbia annichiliti i propri (la frase appena riportata ne dà ampia conferma), né che sia riuscito a "contattare" il suo Atman (mai un asceta chiamerebbe il proprio cane con tale nome; e non ci si venga a dire che come buddhista vedeva la buddhità anche nel suo cane), non vediamo come possa egli comprendere le connessioni delle suddette massime. Il suo è il livello dell'uomo comune: gli autori dei Veda parlano una lingua che lui non potrà mai capire. Ne può rimanere affascinato (cosa che è accaduta), ma non basta, non è sufficiente per pontificare e mettersi al loro livello.  Negare influssi diretti delle Upanisad è manifestare i propri limiti. Come fa notare Giovanni Gurisatti nel suo saggio sopra citato, in un frammento manoscritto di Dresda, steso nel 1816, Schopehauer diceva: "Non credo, lo ammetto, che la mia teoria  sarebbe mai potuta nascere prima  (E qui Gurisatti intercala un significativo punto esclamativo)  che le Upanisad, Platone e Kant avessero potuto gettare contemporaneamente i loro raggi nello spirito di un uomo" (la sottolineatura è nostra).  Sempre secondo il Gurisatti, per il nostro filosofo Brahman non sarebbe altro che "il desiderio ardente, la volontà veemente" , ed il mondo è identificabile con il velo della Maya. "Stando così le cose - suggerisce Gurisatti - non appare azzardato sostenere che, dal punto di vista metafisico, tradotto all'orientale il capolavoro di Schopehauer - e cioè Il mondo come volontà e rappresentazione - suonerebbe: Il mondo come Brahman e Maya". Se il Nirvana di Schopehauer può essere considerato (lo suggerisce sempre Gurisatti) un che di teoretico, speculativo, metafisico, le Upanisad "di Schopenhauer" possono essere considetate solo come un pozzo da cui attingere idee per speculare filosoficamente.
Insomma, la filosofia-mistica di Schopenhauer "guarda a oriente", si bagna nelle acque rinfrescanti del pensiero buddhista e vedantico, ma nonostante ciò, tali acque potenti riescono a fare di lui soltanto un pensatore e non un saggio. Il suo merito sta tutto nell'avere diffuso in occidente la mistica orientale, ma come ben conclude il suo saggio Gurisatti, Schopenhauer "fu senz'altro il miglior apostolo del Buddha in Europa. Ma al tempo stesso fu forse, anche, il suo peggior allievo.
Malgré lui". Quindi, se leggendo le sue opere vi imbattete in passi come questo: "La mia opera rappresenta un nuovo sistema filosofico, ma nuovo nel pieno senso della parola: non, cioè, una nuova interpretazione di ciò che è già dato, bensì una serie di pensieri coerenti al massimo grado che, sin qui, non furono pensati mai da nessuno" (lettera del 28 Marzo 1818 a Friedrich Arnold Brockhaus - riportata da Andrea Landolfi in introduzione a Metafisica della sessualità, 44° capitolo dei Supplementi de Il Mondo…) - se vi imbattete in passi del genere, dicevamo, affinate il vostro senso critico: leggete un'introduzione al pensiero di Schopenhauer, un'introduzione al Buddhismo e al Vedanta, e poi tirate le somme. Se poi avete più tempo, leggete Il Mondo… , i discorsi del Buddha, le Upanisad, e ragionando con la vostra testa, valutate e traete le conclusioni.
Certo visto il desolante panorama della decadente filosofia contemporanea, caratterizzata dal cosiddetto "pensiero debole" (una sorta di blà - blà -blà, che secondo noi non può essere associato alla filosofia, e che farebbero meglio a chiamarlo "pensiero suidica"), questo panorama inquietante, alla fine, ci costringe ad invitare alla lettura di Schopenhauer piuttosto che a quella dei deboli e vuoti pensatori d'oggi. Il suo genio di filosofo, pur non essendo originale nella metafisica, spazia per mille campi, anticipando spesso future "scoperte". Basti pensare all'
Inconscio e alla teoria della sessualità di Freud. Alcuni passi del nostro filosofo ci autorizzerebbero a dire che Freud ha fatto con Schopehauer ciò che Schopenhauer ha fatto col Vedanta e col Buddhismo: ha preso in prestito idee altrui, ha messo loro addosso dei "vestitini nuovi", qualche cambio di nome, una mischiata, e via…
  Cerchiamo di provarlo. La Volontà è per Schopehauer non solo l'essenza dell'universo, ma anche un impulso cieco e inconsciente, ed inoltre essa si estrinseca nell'istinto di conservazione tramite il sesso. Poi, alla base della vita, il nostro filosofo afferma vi sia la paura della morte (amore e morte). Come potete constatare ci troviamo di fronte a ciò che Feud chiamerà Inconscio, teoria della sessualità, ecc.  Non è certamente un segreto (nulla togliendo alla sua geniale capacità di sitesi) che Freud abbia attinto a piene mani da Schopenhauer, da Nietzsche e da altri suoi illustri predecessori. Ma torniamo a Schopenhauer.
L'accusa di pessimismo che gli è stata rivolta è a nostro parere giusta, perché questo grande pensatore per certi versi benemerito, non ha saputo tradurre il buddhismo ed il vedantismo in prassi di vita. Che la vita è dolore, il Buddha lo ha gridato ai quattro venti, ma per superare la sofferenza e il dolore egli ha indicato la via dell'ottuplice sentiero, che non ci sembra sia mai stata praticata da Schopenhauer. Quindi, purtroppo, possiamo cominciare a vedere nella sua monca filosofia mistica la genesi di quella peste del ventunesimo secolo che risponde al nome di Nichilismo.  Nell'introduzione a O si pensa o si crede - scritti sulla religione (una sorta di antologia di scritti "piluccati qua e là dalle opere del grande filosofo"), Anacleto Verrecchia, grande estimatore del nostro, dice: "…se Nietzsche, con l'enfasi che gli è abituale, proclama la morte di Dio, Schopenhauer, quel dio, lo uccide veramente, togliendo qualsiasi validità teoretica al teismo" (Pag 7 opera citata - ediz. Bur). Evidentemente, a Schopenhauer era sfuggito che qualche mistico vedantico considera la coscienza, presente in ogni essere dell'universo, una, e che se essa viene chiamata Dio, la morte di Dio è la più grande fesseria mai detta da alcun filosofo degno di tale nome. A Schopenhauer è forse sfuggito che il Nirvana, il nulla del Buddha, allude alla spersonalizzazione, alla perdita dell'individualità dell'illuminato, che dal giorno della sua illuminazione, come ego, non esiste più,  e che l'illusione di tale ego esplode come una bolla di sapone, ma soprattutto gli è sfuggito che, abbattendo i propri limiti, il Buddha è divenuto Uno col Tutto, una sorta di "uno, nessuno, centomila". Se anche questo Uno chiamiamo Dio, quella sciocchezza della morte di Lui diventa la più grossa, grassa bugia filosofica di tutti i tempi. Certo il bigottismo, il fanatismo di certe religioni non lo condividiamo nemmeno noi, ma da lì, a buttare con l'acqua sporca anche la saggezza ed il buono della religione, ne corre. Il cristianesimo ha certamente commesso errori in passato, e forse ne commette ancora oggi, ma i suoi insegnamenti non possono essere tutti gettati via. Il maestro Gesù è uno dei più grandi maestri di saggezza dell'umanità.
Se, "morto Dio", ci rimane l' Inconscio di Freud, il materialismo estremo ed un deserto di valori, non possiamo fare a meno di pensare che siamo proprio messi male, e che il pensiero è divenuto debolissimo, tanto che non va al di là di meri vuoti giochi di parole: la filosofia è diventata filologia: una parola spiega l'altra, un po' come le cerase (una tira l'altra). Dietro pseudo discorsi filosofici, il nulla. Gli "uomini grigi del Momo " di M. Ende, in filosofia hanno gli omologhi in dis-pensatori del (dal) debole pensiero. Fa bene Schopenhauer a indignarsi per l'inquisizione, per la morte di Bruno, Vanini, e tantissimi altri. Comprendiamo il suo sdegno, ma anziché buttare una mela marcia ha preteso di distruggere tutto il frutteto. Superstizioni? Ignoranza?  Beh, meglio errori  che nulla: l'errore può essere eliminato, il nulla, come un gorgo, può solo eliminare, ed è quello che sta facendo grazie a cotanti apostoli deboli a trecentosessanta gradi.
L'insaziabile volontà schopenhaueriana, questa continua tensione dell'uomo, lasciata a se stessa, anche dopo avere scoperto le quattro nobili verità del Buddha, può portare solo verso la lacerazione, il dolore, la noia, il disgusto per la vita; può alimentare solo una cultura suicida, di morte. Che tutto sia impermanente, non ci piove, ma che per questo bisogna vegetare come bestie selvatiche, o annoiarsi e disprezzare la vita, ci sembra una assurdità. Ogni  grande religione, ciascuna a modo suo, ha solo suggerito di attraversare questa illusione nel modo migliore possibile. Sta ad ognuno scegliere quella giusta per sé. L'importante è far sì che il pensiero, alimentato da slanci ultrafisici proiettato verso la metafisica, si riaccenda e non muoia di inedia, facendo di noi un ammasso di istinti indistinti. Bisogna sì cessare di volere come ego, ma finché tale illusorio ego c'è è meglio lasciargli l'ultima illusione: la volontà di conoscere se stessi. E' sull'altare di quest'ultima volontà che l'ego va sacrificato per raggiungere quel Nirvana che altro non è che la cornice dell'illuminazione, il suo sfondo, un suo effetto, un  suo bagliore.
Volendo concludere questo breve saggio, vogliamo un po' farci perdonate da Arthur Schopehauer, invitando tutti coloro che non li conoscono a leggere i suoi scritti piuttosto che la marea di squallore filosofico contemporaneo (salvi pochi casi).
L'uomo dell'età della tecnica è diventato particolarmente arrogante: anziché conservare quel briciolo di umiltà davanti agli infiniti misteri che lo avvolgono da ogni parte, si esalta fino all'inverosimile per le poche, lodevoli scoperte scientifiche che domani saranno superate e faranno sorridere.
Riuscire a conoscere se stessi è la conoscenza più importante che l'uomo possa conseguire su questa terra.
"
In verità, o mio amico, tutte le creature, pur essendo profondamente radicate nell' Essere, ignorano che esse sono radicate nell'Essere" (Chandogya-Upanisad - sesta lettura, IX, 2)

Grazie, Natale Missale



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