Genesi 6

 

Siamo in Mesopotamia ed alla nascita di Cristo mancano ancora 25 secoli. Gilgamesh "per due terzi Dio e per un terzo uomo…vagando alla ricerca dell'immortalità, insieme col suo compagno Enkidu, che muore nel corso del viaggio, incontra il suo antenato Utnapishtim, il Noé Babilonese" (Donini - Breve storia delle religioni - Newton, pagg. 122,123). A questi, come accadrà  dopo a Noé, verrà consigliato, da un dio adirato che sta per mandare il diluvio sulla città di Suruppak, di costruirsi una nave, di catramarla, di attenersi a precise misure, di porvi dentro "il germe di tutto ciò che ha vita" (idem), di mettere in salvo la sua famiglia. La nave, finito il diluvio, si poserà (come accadrà per Noé) sulla sommità di un monte (Nisir), e Utnapishtim, come farà poi il suo "emulatore", manderà in avanscoperta alcuni volatili.

"Portai a bordo tutta  la mia famiglia, e i parenti…Dall'orizzonte avanzò una nube nera… Ogni luce scomparve nelle tenebre… per sei giorni e sei notti il vento soffiò, il diluvio e la tempesta sommersero la terra. Quando si avvicinò il settimo giorno la tempesta e il diluvio cessarono…Dopo dodici giorni spuntò un'isola… la montagna della terra di Nisir trattenne saldamente la nave… Quando si avvicinò il settimo giorno feci uscire una colomba e la lasciai andare; la colomba andò avanti e indiestro, ma non trovò luogo ove posarsi, e ritornò. Allora feci uscire una rondine, e la lasciai  andare;  la rondine volò indietro e avanti, ma non c'era luogo ove posarsi,  e ritornò. Poi mandai fuori un corvo e lo lasciai  andare. Il corvo , osservò la distesa delle acque, e venne vicino alla nave, bagnandosi e gracchiando, ma non ritornò"  (A.C. Bouquet - breve storia delle religioni - Mondadori, pagg. 74,75,76).

Mi sono dilungato un po' sull'epopea di Gilgamesh, per sottolineare tre punti, che presi come metafore, mi aiuteranno a far(mi) luce su tale capitolo. 1) L'eroe mesopotamico è alla ricerca dell'immortalità; 2) Per il Donini ci troviamo in presenza di un mito ebraico derivato da un mito babilonese; 3) Per Bouquet ci trtoviamo di fronte a due diversi racconti del diluvio: "nonostante i punti di contatto delle due storie siano evidenti," il racconto babilonese ha un'impronta decisamente politeistica".

Considerati gli evidenti punti di contatto, non posso fare a meno di "usare" le due storie per chiarirmi le idee. Interiorizzando, ecco quanto il tutto mi suggerisce.

C' è un momento in cui il ricercatore, il pellegrino, il mistico, esaurita l'indagine orizzontale, comincia ad elevare gli occhi al cielo, comincia a percepire a percepire qualcosa che sta oltre la sua mente. E' allora che, ben ancorato a terra (un terzo di uomo…), comincia a contattare le "sue" potenze interiori (due terzi Dio - "ad  immagine di Dio li creò"): ecco Gilgamesh in cerca dell'immortalità con il suo compagno Enkidu, che potrebbe rappresentare proprio la sua terrestrità, cosa confortata dalla sua morte. Che vuol dire tutto questo? Vuol dire semplicemente che la ricerca non ha una spinta del 100%; chi leva lo sguardo al cielo non deve, con la coda dell'occhio, guardare da qualche altra parte. Per essere ricambiati in questo tipo d'amore, bisogna essere totali: "Tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze" (Deuteronomio VI,5). Bisogna donarsi interamente. E' per questo che un tempo tutti mistici del mondo si isolavano: volevano eliminare ogni  tipo di distrazione.  Farlo oggi è quasi impossibile, ed allora non rimane che vivere la propria quotidianità come il sentiero verso il Divino, con una tensione simile a quella della chioccia che non smette mai di covare, neppure quando s'allontana per qualche minuto per mangiare: tutti i suoi sensi, tutto il suo essere, rimangono con l'uovo. Gilgamesh, come sottolinea giustamente il Bouquet, vive in un mondo politeistico. Egli non è totale, e nonostante riesca a trovare nel fondo del mare l'erba che lo può rendere immortale, al ritorno del suo viaggio, " si ferma a bere a una fonte e un serpente, senza che egli se ne accorga, divora l'erba".  Noé, pur facendo  le stesse cose di Utnapishtim, adora un solo Dio. A questo punto, metaforicamente, il Donini mi rappresenta il ricercatore superficiale ("la questione dell'ispirazione divina della Bibbia…storicamente non ha alcun senso" pag. 164 opera citata), mentre il Bouquet rappresenta il vero mistico, quello che si immerge nel mare, quello che va oltre la superficie delle acque.

Ogni essere umano è un figliol prodigo che vive la sua vita allontanandosi sempre più dal suo Dio. Quando egli si osserva veramente per la prima volta e si vede nella sua immensa miseria, è come l’umanità corrotta (dei tempi del diluvio). Questa scoperta gli fa sentire la voce del Padre  che lo invita a tornare a Casa, e la sua con-versione equivale alla costruzione dell'arca: ecco Noé che chiama a raccolta tutte le sue buone qualità pronte a moltiplicarsi attraverso l'esempio (coppia di ogni cosa vivente), riunisce le proprie forze (la famiglia). La via del ritorno non sarà facile, ma prima del diluvio egli dovrà assicurarsi che la "barca" sia perfettamente sigillata, se no prenderà acqua e andrà giù negli abissi. La vera ricerca, il primo vero passo sulla sua strada comincia    proprio dopo il diluvio. Con esso apprendiamo che il mondo di Assiah non è tutto e che per trascenderlo occorre essere pronti a superare indenni il diluvio di Yetzirah. Quando esso cesserà, la nostra barchetta si poserà su una nuova terra: è Briah, il tetto delle acque, l'Ararat-Nisir.

Ma siamo solo all'inizio del viaggio, e solo alla fine di esso si potrà cantare con Isaia (VI, 1-7), davanti alle porte di Aziluth, "la Gloria di Colui che tutto move" (Dante, Commedia):

"Nell'anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto e ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Attorno a Lui stavano dei Serafini, ognuno aveva sei ali; con due si copriva la faccia con due si copriva i piedi e con due volava. Proclamavano l'uno all'altro: " Santo, Santo, Santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria".Vibravano gli stipiti delle porte alla voce di colui che gridava, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi: 'ohimé, io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono… eppure i miei occhi  hanno visto il re, il  Signore degli eserciti'. Allora uno dei Serafini volò verso di me, teneva in mano un carbone ardente…egli mi toccò la bocca e mi disse: 'ecco questo ha toccato le tue labbra perciò è scomparsa la tua iniquità…"  E' il Fuoco di Aziluth, è la Casa da cui siamo partiti e in cui dovremo fare ritorno.

Grazie N.M.



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